_*_
L’eroina era la mia amante fissa. Poi arrivi tu, e mi chiedi di cosa ho
bisogno. Beh… diventa tu il mio amante fisso.
Gli era piaciuto da subito. Gli
era piaciuto da sempre, sin da quando a lui, il grande
Brian Slade, non era dato d’avere successo, mentre
quella figuretta esile e discinta saltava senza
grazia su un palco sfoggiando pelle tanto chiara da sembrare acido. Gli era
piaciuto sin da quando agitava convulsamente il culo scoperto, emettendo strilli sconclusionati e
percuotendo senza criterio le corde lise di una chitarra stonata. Gli era piaciuto il modo in cui con quella chitarra viveva di mutui
orgasmi. E gli era piaciuto seduto a quel tavolo
quando non capiva i discorsi e non era in grado di stare al mondo, ed
era ancora frastornato da quel qualcosa che non aveva mai smesso di mangiarlo
dall’interno.
Una volta gli aveva detto che
innanzi all’erba siamo tutti uguali, ché tanto quando
hai un ago nel braccio manco più te lo ricordi, quel nome che brami di udire
nei cori della folla, negli slogan d’amore fanatico e perfino nei gemiti rauchi
di chi si fa una sega pensandoti, va’.
Manco più te lo ricordi, il tuo
nome.
E adesso si prova e cimenta, il
grande Brian Slade, o quel che ne è
rimasto, a ricordare.
A discernere il fumo dai fumi e leggere caratteri opachi.
Quel nome.
Curt…
Non poteva capire, non lei.
Curt
parlava di scommesse e di barboni, di scintille, e pinguini fantasma vivi solo
nella sua testa. Diceva che tutto va come può, non
come deve. Che impari ad accontentarti se accetti di guardare.
Che puoi battere sulle corde, ma non arpeggiare sui
marciapiedi. Che devi solo seguire il flusso,
amico, e intanto sorrideva in quel suo modo spezzato, serrando un ghigno
impietoso dietro la carta di uno spinello.
Mandy
aveva pianto. Forse sì, forse no.
Non lo ricorda.
Era troppo impegnato a
controllare che il colore tenesse sui capelli sempre più morti, chiudendo fuori
le palpebre stanche i riflessi verdi di una gemma senza tempo.
E’ strano quanto appaiano belle le persone mentre vanno via. Lo aveva capito
la prima volta in cui gli era stato dato d’osservare Curt
di schiena, quando aveva visto con assoluta chiarezza il biondo sbiadito dei
suoi capelli cresciuti in fretta.
“Mi sono rotto. Facciamo
qualcosa.”
“Sta’
tranquillo, dai. Jerry ha detto che avrebbe
chiamato per comunicare i programmi del weekend.”
“Ci pensa tua moglie, no? Andiamo
fuori, Maxwell Demon.
Rovesciamo qualche galassia!”
Lo aveva fatto ridere,
ingenuamente, di cuore.
Come mai prima d’allora.
E doveva essersi distratto,
perché se n’era accorto troppo tardi, che non lo aveva
più accanto.
“…Che stai facendo?!”
Non aveva ottenuto risposta.
Lo aveva chiamato, un po’ ilare,
un po’ nervoso.
Al silenzio ch’era
seguito si era deciso ad alzarsi dalla poltrona, quel mostro in pelle e vernice
che stava succhiandogli via l’arte.
Aveva inseguito lo spettro di
luce fuori in veranda.
Per trovarlo lì, semi svestito e su di giri, ubriaco di vita che era tanta,
abbastanza, tanta per entrambi. Che saltava, urlava, e
ad ogni scatto la vestaglia scivolava più in giù, svelando dettagli del corpo
prosciugato dall’interno.
Beveva
qualcosa, forse, o forse no.
Forse non era d’altro nutrito che di sé, e dell’elettricità messa a circolargli artificialmente nel cervello.
Ricorda di averlo ammirato e
rispettato, per quello.
Come per numerose altre ragioni.
D’avergli
invidiato ogni cosa, anche l’aria di mercurio fra i neuroni.
Arthur
scribacchia qualcosa sul notes prima di levare gli occhi.
“Che cosa ne è
stato di lui? Che ne è, ora, di Brian Slade?”
Mandy
sorride.
È una domanda eccellente.
“Diciamo solo che certi uomini
smettono d’essere all’altezza del mito che si lasciano dietro.”
Come può, la gente, non
riconoscere quegli occhi?
La folla vanta ancora colori
sgargianti; solo che ha taciuto, più per senno che per rispetto, dinnanzi alla
morte delle paillettes.
I capelli sono più corti, le
carni più scure.
Il sesso, ci scommetterebbe, è
rimasto lo stesso.
Qualcuno dalle quinte attira la
sua attenzione, o almeno tenta di farlo. Gli occhi nello specchio non
sveleranno ad anima alcuna, viva o defunta come
muoiono le anime, che il segreto sta nell’epiteto sbagliato.
Il nome che rimbalza di bocca in
bocca, luccica nei pixel dei maxischermi, ulula tronfio
alle radio, è un nome che non può appartenergli.
Che non
può iniziare a descriverlo.
Tommy Stone passa una mano a ravviare il ciuffo di crespo biondo.
E’ strano quanto appaiano belle le persone
mentre vanno via.
L’ovazione deviata gli punge le
orecchie di plastica.
Prega d’essere stato splendente, quando se n’è andato.
Può sentirne il calore.
Arriva a pensare che gli basta,
sì, potrebbe bastargli. Percepire la carica dei suoi
sensi che si dirama dal buio fra le labbra, stordendolo
in uno strano cosmo dove non c’è vita che per le onde.
Respira a fondo, come se
realmente ne avesse bisogno, Curt.
Ed è
vicino. Più di quanto non sia mai stato, più di quanto sia mai stato ad alcunché.
Ad ognuno dei suoi amanti, in
fiale graduate.
È una sensualità frettolosa e
posata al tempo stesso, perfettamente consapevole come sbronza
del raziocinio. Una sensualità che parla di passato, e sgorga dalla sua bocca
per atterrare sulla gemella ipnotizzata.
“Il mondo è cambiato perché tu
sei fatto d’avorio e d’oro. La linea delle tue labbra riscrive la storia.”
Segue il corso ideale della
natura, tracciato da contatti che vivono nello sconcerto dei nascituri.
Brian bacia come se, per la prima
volta in tutte le sue vite, sapesse d’essere baciato da qualcuno. In cambio, in
ritorno.
“Di questo passo arriverà al bridge
con mezza strofa d’anticipo.”
Maxwell
Demon è nervoso. Il suo stesso corpo lo constata con noncuranza, ignaro della spasmodica tensione che
attraversa rigida ogni muscolo.
Dare lo stop è un altro modo per
fermare il sangue.
Sapere che nessun altro nello
studio può guardare Curt in quei suoi occhi grandi,
adesso, non gli dà il coraggio di farlo in persona. Neppure gli lascia scelta,
però.
Ed è esattamente come l’aveva immaginato. In qualche modo lo conforta scoprirsi
tanto in sintonia da prevederne la reazione, anche se nessuno può dirsi
entusiasta di fronte a un incendio.
Vorrebbe poter lasciare lo studio.
Girare sugli alti tacchi a stiletto, infilare la porta,
annullarsi nel fuori.
È un pianeta che gli sta stretto.
Poco ma sicuro, non può continuare ad ospitarli entrambi.
Rimane a
osservare Curt che s’infuria, Curt
che si dispera, Curt che fa scena, Curt che si distrugge. E ancora, Curt che gli pianta gli occhi addosso come a voler
inchiodare un quadro, Curt che lo fa con forza
eccessiva e perde il controllo del martello.
Curt che se ne va, infine, libero e
vuoto di niente come quando è arrivato, come quando lo ha trovato. Curt che è più
libero di quanto Brian Slade, teso fino allo spasmo,
sarà mai nella vita.
E
altrettanto deluso.
Probabilmente.
“Ci sei andato
a letto, non è così?”
Vorrebbe qualcuno a ricordargli
com’è iniziata, quella conversazione, e soprattutto perché. Cosa,
in nome del cielo, può averlo indotto a farsi artigliare similmente, e con
simile candore.
“Lasciami stare.”
“Me lo devi, Brian, cazzo! Me lo devi! Sono pur sempre la tua fottutissima moglie! Mi devi almeno questo!”
Non le risponde. Continua a
sbrogliare le lenzuola con furia muta, atipicamente contenuta, e intanto pensa che qualcosa lo irrita di più. Più del fatto stesso, della richiesta in
sé, che, dio lo aiuti, ha la sua parte di giustizia.
“Vaffanculo!”
Mandy
se ne va su una nota strozzata, un’ottava di troppo a sommare le altre.
E di nuovo è solo, con le
lenzuola sporche e il ricordo che pare intessuto nella trama, ne è parte integrante e la rende autentica.
In verità, signori, tutto è per lo show. D’avorio
e d’oro che non vuole morire.
“Cos’è?”
“È il mio dono per te.
Apparteneva ad una persona che è stata molto importante.”
“Vuoi dire che lo sono anch’io?! Molto importante?”
“Ma in
modo diverso. Come amore che resta in silenzio, e vive per l’unica cosa che
conta.”
“Il piacere.”
“Il piacere.”
Il frastuono del locale gli
riempie le orecchie. Ovatta il quadro di luce che gli galleggia nelle retine,
preciso e perfetto quanto una macchia.
C’è molto più di un osceno qualcosa nello spettacolo che ha
davanti.
Offertosi senza
il gusto del pudore, né il pudore del gusto, a formare dell’arte un po’ confusa
e un po’ screanzata, scheggiata come pietra grezza prima di fondersi in
ben morbide curve.
Non ha nulla di morbido il corpo
secco sul palco.
Sente le gote scaldarsi per
l’emozione febbrile, per un’occhiata di sguincio alla pelle,
chiara come acido e più bianca ancora nell’intimità che già non è più
tale.
Non vuole distogliere lo sguardo.
Poco importa se significa
conformarsi alla massa in festa, viva di sprezzo e adorazione ma mutevole e calda, infinitesimale via
lattea di desiderio e sudore.
Qualunque cosa abbia
incontrato nella calca di un locale senza scrupoli finirà per
scivolargli addosso, e non un segno visibile. Qualunque cosa, tranne.
Diventa tu il mio amante fisso…
È l’altro lato del successo.
Quello che i giornali cercano di
vendere, nelle istantanee affrettate di baci che fanno scalpore, senza neppure
iniziare a trasmettere il buio di momenti come quello.
Quando una popstar qualunque, dalla sessualità ambigua e la lingua
affilata per convenzione, giace nel metaforico letto del vizio ozioso, cullato
dallo scorrere esperto di mani e lingue e seni caldi contro il corpo annoiato.
Non gli resta che la forza – lo sforzo – di trovarlo buffo.
E tutto a
un tratto la musica è cambiata, come cambiato è il mondo, in riflessi d’avorio
e d’oro che prima mancavano. Curt sfugge alla presa
della seduzione architettata e ritorna in se stesso, nell’anima che salta fra
il gelo del glitter, nell’anima che lo ha baciato e
condotto alla fonte della poesia.
Basta uno sguardo, neppure troppo
complice, neppure troppo intenso.
Lo osserva sparire oltre la
soglia dell’antro sacro, dove il letto attende, e intanto si scopre a capire
che mai nessuno lo ha attratto in quel modo.
Con quel magnetismo di velluto.
Brian reprime a stento un
sorriso, prima di alzarsi e seguire, di nuovo, uno spettro.
La Mandy
di oggi è un ramo divelto. Che
ha patito per le intemperie senza fuggire, e a vita ne porterà i segni, in
quella curvatura dolorosa nata alla radice.
Eppure,
siede integra. A tavolino con i ricordi.
Piangendo tra sé per quel ramo
speciale che invece s’è spezzato, sorpreso da un fiato di vento appena più
forte.
Muore piano.
Delicato.
Alla velocità
con cui un riflesso sparisce dal vetro.
Il biondo di Curt
è intriso di scuro, a evidenziare il contrasto con
l’aria piatta e il cielo bianchissimo. Persino il fumo difetta di grigio, nello
strazio di tutta quella purezza.
È una macchia di nero sporco
oltre la barriera della finestra.
Brian ha perso il senso del
colore. Ogni pigmento è sbiadito nelle ore di veglia, alla
notte, e da ultimo perisce nel rancore dello sguardo che più ha adorato.
Muore piano.
Gli occhi di Curt
un po’ più in fretta.
E la rabbia – di una cicca
gettata, una portiera sbattuta, ruote che sgommano e
slittano sull’asfalto – la rabbia porta
via tutto, compresi i perché.
Ben nascosti dietro una tenda. Nella
sua stessa persona.
Brian resta a fissare l’auto
allontanarsi.
Senza agire.
Resta, soltanto.
È difficile credere alla
bellezza.
Sarebbe come tentare di spiegare
le nuvole, uno sbuffo nell’ineffabile.
Ma sente che è bello
quel momento, quell’uomo nudo su quel letto; sente
che è bello e potrebbe ucciderlo, perché in fondo di cosa mai può morire
l’arte, se non di meraviglia?
Raro e incurabile morbo.
Si sente affetto senza
possibilità di scampo. Colpa del
virus che preme perché abbandoni ogni difesa, seducendolo con l’idea di un
ingresso da fiaba.
Con una chioma bionda e una bocca
esigente.
Brian s’arrende. Lascia che la
malattia lo avvolga del tutto, adagiandolo nel bianco talamo che scriverà il
suo epitaffio. La sente tutto intorno, e mai, mai nella vita, ne è stato più dolorosamente colpito – mai nella vita lo è
stato davvero. L’immunità naturale ha perso il suo effetto.
Il virus lo penetra con forza
inusitata – quella che ci si aspetterebbe da ‘sì crudele male.
E di
meraviglia muore, tra gemiti e spasmi, fino all’ultima goccia d’arte.
Arthur
fissa la gemma dai riflessi smeraldo.
Cercando di non pensare alla sua
provenienza.
Avrebbe talmente tanto di che
parlare, quel pezzo di vetro. Abbastanza per uno, mille
articoli di giornale.
E invece accetta
il mutismo cui è condannato. Perché è nell’ordine
delle cose che certi silenzi restino sacri.
Esorcizza la malinconia con un
sorriso saccente.
Pare proprio che abbia trovato
una lezione da imparare, dopotutto.
Quando Maxwell
Demon è stato ucciso, Tommy Stone non era ancora stato
inventato.
E gli
eroi del glitter, della gioventù bipolare, hanno
scoperto nel più brutale dei modi cosa significhi perdere un mito, la luce che
è tanto pura e incrollabile da escludere ogni altra fonte di calore.
Solo i più avveduti hanno saputo
accogliere il cambio di scena per quel che era.
Un’aurora di luce fredda.
Solo essere può stordirlo.
Essere lì, accecarlo.
Ed
esservi con Curt, beh,
quello non ha prezzo.
Nell’estasi del pubblico circola
una voce, unanime e fiera, unta di una malizia che disprezzerebbe, se non
scivolasse addosso con la naturalezza che ha. Il mondo sa che Maxwell Demon non è mai stato
tanto brillante, e certo il merito va a quello strano sodalizio.
Salgono i decibel. L’elettricità,
con loro.
Baby’s on fire…
Si ritrova in ginocchio, qual
goliardica indecenza!, fra le gambe troppo magre
dell’uomo del momento. L’angelo caduto con un ago fra i denti
e una chitarra impazzita.
La musica sale e scorre il nastro
del tempo sui loro giochi. Mimano insieme quell’atto
irriverente, dalla sensualità volgare per molti, mentre Brian Slade torna a star bene.
Nel folle sorriso di Curt c’è tutto ciò di cui ha bisogno.
Aveva cercato di aiutarlo.
Ci aveva provato sul serio, cristo.
“Ti pregheremmo soltanto di avvertirci
prima, quando decidi di fare un cambiamento, così da poter…”
“Non so di che diavolo parli. Non
ho fatto nessun cazzo di cambiamento. Brian…”
E in
quel Brian perplesso, intimorito,
minaccioso, in quell’unico nome era stato scritto
tutto.
Il passato, il destino.
Ogni fottuta
cosa.
Brian…
Non farmi questo. Non puoi.
Non posso salvarti.
È strano quanto appaiano belle le persone mentre vanno via. Splendido Curt, selvaggio nell’ultima
furia cui avrebbe assistito. Magnifico, nella forza del corpo avvolto dallo
spolverino in pelle, negli scatti irosi dei capelli
cresciuti in fretta.
Ricorda lo sguardo di Mandy, sotto tutto quel trucco da puttana.
Poi più nulla. Il tonfo secco d’una finestra.
Arthur
spera di riuscire a controllare il tremito nella voce.
Sa cosa lo ha spinto a tornare da
lei. C’è ancora qualcosa che ha bisogno di chiederle.
“Perché
è finita così? Cos’è che ha smesso di funzionare?”
Il modo in cui Mandy Slade gli sorride,
scuotendo la testa con calma innaturale, lo fa sentire di nuovo bambino.
Piccolo e confuso, immensamente inferiore.
“È sciocco credere alle macchine
perfette. Qualunque bullone può allentarsi, nemmeno il ferro è indistruttibile.
Come dicono in quel videoclip: il senso non sta nelle
cose, ma fra di loro. Quando Curt
si è rotto, anche Brian ha smesso di funzionare. Erano un tutt’uno, non potevano che finire insieme.”
“Però
Brian è tornato. Lo sappiamo entrambi. Ora è…”
“Non è lui ad essere tornato. Né il piccolo Tommy Slade,
il bambino che era. Quelli sono morti per sempre.”
La donna spegne la cicca nel
posacenere, disinvolta.
Come guarita.
“E allora, signor
giornalista? Non aggiunge niente ai suoi preziosi appunti?!”
Arthur
sembra accorgersi solo adesso del taccuino che gli sporge dalla tasca del
giubbotto.
La stessa tasca
in cui ha annegato una gemma dai riflessi verdi, donata a forza dall’ombra d’un
uomo.
“No. Non importa. Era una…
ricerca personale.”
Mandy
si rialza, lentamente, con l’aria di chi è rimasto seduto per anni.
“Accetta un buon consiglio, fa’
che non lo diventi troppo. È
difficile liberarsi dei ricordi.”
Si congeda con un cenno del capo
e un sorriso scaltro, indecifrabile.
Arthur
vorrebbe fermarla, ma ogni forza lo ha abbandonato.
Quella storia gli è entrata sotto la pelle col sapore stanco dell’acqua.
Era quest’idea di Curt
sopra ogni altra cosa. Un mito con cui, ovviamente, nessuno
avrebbe potuto competere. Insomma, Maxwell Demon e Curt Wilde!
Era… la perfezione.
“L’hanno chiesto anche a te, no? Perché l’ho fatto.”
“Fatto cosa?”
“Lo sai. La grande
uscita, il fake.”
“Mh.”
“Cosa
gli hai detto?”
“Parlane con Jerry.
Io ne sono fuori, voglio…”
“Perché l’ho fatto, Curt? Avanti,
dimmelo.”
“Perché il rock è una puttana. Lo siamo tutti.”
“Ogni
uomo uccide la cosa che ama. Ciascuno a suo modo.”
“E tu
amavi Maxwell Demon?!”
“Forse.
Ma non ero corrisposto. Ecco perché l’ho ucciso.”
“È
giusto. Chi è che Maxwell Demon amava, per te?”
“Curt Wilde. Maxwell
Demon amava senza dubbio Curt
Wilde.”
“Allora
sono morti entrambi. Si sono fatti fuori a vicenda.”
“Probabilmente.
Forse è meglio così.”
“Ogni uomo
uccide la cosa
che ama. Che tutti quanti sentano questo.
C'è chi lo fa
con uno sguardo duro, chi con una parola mirata.
Il vigliacco
lo fa con un bacio, il coraggioso con la spada.
C'è chi
uccide il suo amore da giovane e chi lo uccide da vecchio.
Chi
lo strangola con mani di lussuria e chi con le mani dell’oro.
I più umani
usano il coltello, perché i morti si raffreddano tanto presto.
La vita ci inganna con delle ombre. Le chiediamo il piacere;
la vita ce lo dà, con
una coda di amarezza e di delusione.
E ci
ritroviamo a guardare con un sordo cuore di pietra
la treccia di
capelli striati d'oro che una volta avevamo venerato così follemente,
e così pazzamente
baciato.
A questo
mondo ci sono solo due tragedie: una è non ottenere quello che si vuole.
L'altra, è
ottenerlo.”
Oscar Wilde.
_*_
Piccolo tributo personale ad un film che ho adorato. E a personaggi – Brian, Mandy,
Curt, Arthur – che ti
restano impressi nella mente, se non proprio nel cuore, senza possibilità di scampo.
La
storia si gioca su piani spaziali e temporali diversi, ma i flashback sono
sempre e comunque dal punto di vista di Brian. Le due
parentesi di solo dialogo coinvolgono, credo sia ovvio, Brian e Curt. (Già che ci siamo, la prima
riguarda il momento in cui Brian dona a Curt la gemma
verde di Jack Fairy. La seconda, conclusiva, è un
ipotetico incontro fra Curt e Brian/Tommy Stone, in cui mettono le
carte in tavola. L’atroce pessimismo è solo apparente, prego notare. Il vero
senso del dialogo è molto più dolce, ma preferisco siate
voi ad interpretarlo come meglio credete ^^)
Un
grazie a David Bowie, per ciò che ha dato alla
musica.
Ai
suoi genitori, per averlo generato.
A Oscar Wilde, per essere esistito.
A Kurt Cobain, per avermi commossa.
Ai
Placebo, per aver brillato nel loro cammeo.
A
Brian Eno, per la sua Baby’s On Fire.
A Jonathan Rhy Meyers
e Ewan McGregor,
perché nessuno potrebbe sostituirli.
E
a tutti gli amanti del film, specie i lettori di questa storia :3. Vi amo incondizionatamente.
Noiose
note d’autrice che mi tocca fare per non violare alcun copyright: Velvet Goldmine
appartiene al suo autore e regista, alias Todd Haynes. Gli intermezzi in corsivo e alcune righe nel resto
della storia sono citazioni liberamente estrapolate dal film. Il monologo di Oscar Wilde sul finale è tratto
da stralci di sue diverse opere, ma per la riproduzione fedele mi tocca
ringraziare il film ispirato alla sua figura: Wilde, di Brian Gilbert.
Di
mio non c’è nulla, tranne il tempo, l’amore e la fantasia. E
scusate se è poco J