Ancora disteso sul letto della sua camera Terence Grandchester poggiò sul comodino Le Vicomte de Bragelonne di Alexandre Dumas e abbrancò l’armonica che soleva suonare prima di una rappresentazione importante perchè gli liberava la mente, portandolo ad acquisire la giusta concentrazione.
Ma inevitabilmente il gesto consueto lo fece pensare a lei.
A quel pomeriggio a Rocktown. A quell’incubo. A quel fantasma.
Un tendone da circo con delle vecchie sedie di legno, non un palcoscenico nè ribalta nè riflettori. Un uomo con la sua solitudine. Ricorda bene ciò che successe quel pomeriggio, Terence, tutte le volte che tiene tra le labbra quell’armonica, ricorda quando in quello squallido teatro non riusciva nemmeno a mettere a fuoco ciò che lo circondava, la mente annebbiata dai fumi dell’alcol e dalle risate degli spettatori…anche se in fondo le meritava….balbettava barcollava e la sua voce era arrochita, impastata disarticolata. Non scandiva le parole, figuriamoci trasmettere il pathos della piece teatrale, che già per la sola presenza dell’attrice che recitava con lui era una farsa! Sì perché bisognava proprio essere ubriachi anche più di lui in quel momento per avere il fegato di avvicinarsi a lei e baciarle la mano come richiedeva il copione.
Eppure questa atmosfera ovattata, estraniante, era ciò che andava cercando. Non era lui in quel momento, non esisteva, era solo una pallida rappresentazione di ciò che aveva fatto di lui il male pervadendolo fino all’ultima cellula.
Sapeva che sarebbe potuto essere meglio di così, ma non voleva, non avrebbe avuto senso.
All’estremità opposta di quello squallido tendone c’era la causa del suo male, o forse solo il suo fantasma, e ancora dopo due anni non riusciva a stabilire se quella fosse stata la sua donna in carne ossa e respiro o il frutto della sua mente obnubilata, il parto abnorme della sua malattia il mostro deforme della sua coscienza. E poi il pubblico aveva taciuto.
Ed ecco che all’improvviso si era ripreso e aveva ricominciato a recitare come sapeva che avrebbe fatto per il resto della vita. Se recitare fingendo di star bene senza di lei doveva cominciare in quel momento, tanto valeva tirare fuori tutta la sua grinta e la sua disperazione. Da quando gli apparteneva la mediocrità?
La voce era di nuovo piena, diaframmatica, il pubblico non vedeva più il costume sgualcito né il teatro fatiscente, e pur essendo composto in massima parte da gente rozza e ignorante accorsa in massa per assistere a buon prezzo alla recita di un famoso attore-e quando gli sarebbe ricapitato?-per la prima volta dall’inizio di quella penosa piece comprendeva il significato della parola teatro, e come i famosi topi del pifferaio magico veniva trasportato altrove, in un posto più ordinato e luminoso, un posto che era stato loro sempre precluso. Vero e falso si mescolavano, e il falso poteva essere più vero del vero.
Voleva ritornare ai fasti di un tempo, Terence, finalmente aveva trovato qualcosa che avesse un senso. Alla fine della rappresentazione aveva chiesto della ragazza carina che stava in fondo, ma nessuno sembrava averla vista, soprattutto sembrava strano che in un posto simile potesse entrare una ragazza carina.
Era tornato in quella squallida platea e si era seduto sulla prima sedia libera, aveva acceso una sigaretta… come aveva potuto non fargli pensare, anche quel banale gesto, alla sua Candy? La ragazza che gli aveva dato l’armonica che adesso era tra i suoi pochi effetti personali in quella specie di sgabuzzino adibito a camerino…
Mentre ripercorreva con la mente per l’ennesima volta quell’episodio, la porta si aprì violentemente ed entrò piangendo una ragazza.
-Signor Terence! signor Terence!
-Ethel!
Terence fece appena in tempo a mettersi in piedi che la ragazza gli si gettò letteralmente tra le braccia.
-Ti ha tirato di nuovo il posacenere, giusto?
-Siiiiiii…..-rispose lei con un singhiozzo.
La vittima del lancio del posacenere era l’assistente personale di Susanna Marlowe, la lanciatrice quest’ultima. Da quando aveva smesso di recitare Susanna si era messa a disposizione della compagnia Stradford, diventando una specie di factotum, poteva riadattare i testi shakespeariani in caso di particolari rappresentazioni, curare i rapporti con la stampa e improvvisarsi insegnante di recitazione quando ce n’era bisogno. Ovviamente aveva preteso un’assistente che si occupasse di tutte quelle sciocchezze che le sottraevano l’energia mentale per occuparsi delle cose importanti.
-Signor Terence….-continuava a singhiozzare l’assistente, una ragazza pallida minuta e con gli occhiali.
-Coraggio Ethel, ti do la mia parola che questa è davvero l’ultima volta che dovrai sopportare una cosa del genere…
Per tutta risposta Ethel, anziché ringraziare il suo benefattore si strinse ancora di più contro di lui cercando come meglio poteva di approfittare della situazione.
Terence la staccò a forza da sé continuando a consolarla mentre nel frattempo la porta si apriva e Susanna faceva il suo ingresso, appoggiandosi come al solito ad una stampella.
-Ah, eccola dov’è quella sciagurata! Quell’inetta!
-Susanna, ora basta, devi del rispetto a questa ragazza come tu pretendi di averne. Ethel, adesso va’ e chudi la porta, io devo parlare con Susanna.
La ragazza gli fece un cenno col capo, come a dire che si fidava di lui, e senza rivolgere un’occhiata alla Marlowe uscì discretamente dalla camera di Terence.
-Ma guardala, quella gattamorta! Non vedeva l’ora di gettarsi tra le tue braccia! Quell’acqua cheta!
Terence le rivolse uno sguardo acceso, ma la galanteria gli impedì di dire che lui ne sapeva qualcosa di acque chete. Tuttavia voleva seriamente contribuire alla serenità della compagnia e capiva bene che il suo intervento era indispensabile.
-Susanna, Ethel è la terza assistente che la compagnia ti fornisce in un anno. Se anche lei dovesse licenziarsi, stai tranquilla che farò delle pressioni su Robert Hathaway affinchè ridimensioni alcune spese non necessarie.
Susanna si sentì punta dal vivo. Da quando si era liberata della compagnia della madre dicendole chiaro e tondo che non era quello il genere di amore materno che si era aspettata da lei, e da quando si era accorta di essere necessaria alla compagnia ancora di più di quando vi recitava, la sua autostima era cresciuta in maniera esponenziale e le critiche per lei erano divenute delle vere crudeltà che non riusciva a spiegarsi e che la rendevano ancora più indisponente. Solo in quei momenti si rendeva conto di ciò che veramente le mancava.
-Terence…Terence…e pensare che se solo tu…oh, caro!...
-Susanna, ne abbiamo parlato tante volte. Ti sono sempre stato accanto in questi anni…
-No! Quando quella sera lei se ne andò e tu la guardasti andar via nella neve mi dicesti di avere scelto me! Avevi scelto me! Me!
-E infatti mi hai forse visto con qualche altra donna? Ti ho mai trascurata quando avevi bisogno di una spalla per piangere? Ti ho mai negato il mio tempo?
-Ma io ero sicura…ero sicura che quando mi dicesti di avere scelto me intendevi dire che ti saresti preso cura di me non solo come un amico ma come un uomo…
-E tu, Susanna, se non ricordo male mi dicesti che non avresti mai voluto farmi soffrire con il tuo egoismo…o erano solo frasi di circostanza, eh, dimmi, coraggio! Lo dicesti perché eri sicura che tanto non sarei mai sceso a rincorrerla, eri sicura che lei non sarebbe tornata indietro, eri certa, assolutamente certa della lealtà di…
Si bloccò immediatamente, resosi conto che nessuno dei due aveva pronunciato il suo nome.
-Ora capisco…capisco tutto, Terence, tu non puoi abbandonarti, non puoi lasciarti andare con una donna che odi…perchè tu mi odi...perchè sono io la causa della separazione dal tuo grande amore, non è così?
Terence non riuscì a negare, e Susanna non riuscì a dirgli per orgoglio che poteva pure andare a cercarla, ma sì che la cercasse pure, tanto lei poteva anche fare a meno di lui…non glielo disse perché sapeva che sarebbe sparito all’istante per andare da Candy.
-Bene Terence, penso che ci siamo detti tutto…sai bene come sono fatta. Sono complicata, ma c’è anche del buono in me, davvero.
-Non lo metto in dubbio, ma spero che venga fuori più spesso. Adesso vado fuori a fare un giro, ho bisogno di ritrovare la concentrazione per stasera.
E uscendo prese in mano il posacenere poggiato su un tavolino di legno e lo fece cadere per terra.
-Era l’ultimo. Volevo romperlo io.
Salve a tutte! Rieccomi con questo terzo capitolo più curato nella forma html. Deve vincere la tecnologia su di me? Giammai! Eh eh…Da autodidatta del pc posso dire che tutte le volte che ho commesso qualche svista del genere di quella di stamattina mi sono cimentata con ancora maggiore accanimento per capire dove sbagliavo e imparare più cose. Il carattere di questo capitolo mi sembra più “riposante” e inoltre ho ingrandito un po’ il testo. Grazie a che mi sta leggendo e a chi mi leggerà. |