Il Cartaio (reboot)

di samuele corsini
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Manca poco ormai, tutto è pronto. L'ospite è sistemata, gli strumenti puliti e scintillanti. C'è solo da aspettare, e questo lo so fare benissimo. Altroché. Fosse altrimenti, il “piatto”, stasera, piangerebbe. E invece eccoci qui, piatto ricco mi ci ficco. Tiro un sospiro soddisfatto. Che partita interessante sta per aver luogo stasera.

Prendo il mazzo di carte, le mischio, le divido e le dispongo in file, come mi insegnò nonno, pace all'anima sua. Il solitario è una forma speciale di filosofia. Tu da una parte, e il destino, in forma di carte da gioco francesi, dall'altra. Se riesci a insegnare ad un bambino l'arte del solitario, vale a dire l'arte di accettare il fatto che le partite si possono anche perdere, che a volte c'è solo il caso di mezzo e che tu hai dato tutto con le carte che il caso ti ha messo a disposizione, se davvero riesci ad educare fin da piccolo un bambino a questo gioco, da adulto uscirà vincitore anche dalle peggiori sconfitte. E persone così fanno paura. Danno i brividi. La gente, se ti vede perdere, vuole poterti dare del perdente e vederti raggomitolato a piangere in un angolo. La gente ha bisogno dei perdenti. Dà di matto se invece sei impassibile, se accetti la sconfitta e ingaggi un'altra partita con il destino. La gente vuole vederti perdere e rinfacciartelo, così può distrarsi dalle proprie sconfitte.

Giro la prima carta. È un jolly. Non dovrebbe stare nel mazzo, non dovrebbe girare tra le carte di una partita a poker, ma in fondo... perché no? Qui le regole le stabilisco io. È il mio momento, è il mio show, è la mia ora di gloria settimanale. L'ora del Cartaio.

Il Cartaio. Da quale penna da due soldi di quale pessimo scribacchino sarà uscito questo nome? Alle mie spalle, sotto l'orologio da parete, appuntato su una lavagnetta di sughero, ci sono i ritagli di giornale che mi riguardano. Non mi costerebbe nulla sospendere, girarmi e allungare l'occhio sull'autore del trafiletto di trenta righe che ha sancito la mia anagrafica. Il Cartaio... Dico io, avevano il mondo a disposizione! Potevano chiamarmi Il mastro di Carte, Killer Poker, Tris e Bis-turi... Magari Il Croupier, che ha anche una vena elegante nel suono, quella vena di classe che solo l'accento effeminato di un francese può dare alle cose, e invece... Il Cartaio. Manco le producessi davvero io, le carte. Ma dopotutto va bene. In fondo non è che una delle tante carte che il destino ti serve nel corso della vita. Sta a me giocarla, ora, per quanto pessima sia.

Meno di venti minuti all'inizio. Diamine, che eccitazione! Sento le dita sudate sulla superficie delle carte, il loro rumore è l'unica cosa che riesce a tagliare il silenzio di questo angolo di inferno personale. Se la gente sapesse quanto orrore ci può essere in pochi metri quadrati di appartamento, se loro solo sapessero... Ma che importa, in fondo? Anche se solo sospettassero, preferirebbero non sapere. Ma lei no. Lei un giorno dovrà sapere. E quello che conta, ad oggi, è che si sieda, si connetta, accenda la webcam e si inquadri così come le ho insegnato. Con me non si scherza, se ne è resa conto alla nostra prima partita. Se di partita sempre si può parlare. Quando un giocatore abbandona la partita, o non accetta di sedersi, il “piatto” va interamente al rivale. È una cosa che ho sottolineato da subito.

Il solitario non si è incastrato per bene, sono rimaste fuori poche carte. Mugolii nell'altra stanza, l'ospite si sta svegliando. Meglio andare a vedere come sta. Mancano cinque minuti ormai. Il computer è acceso ma in standby, premo un tasto qualsiasi per riattivarlo. Mentre il suo unico occhio si illumina mi affaccio nella stanza dei divertimenti. L'ospite è legata, imbavagliata, illuminata da una lampada operatoria sulla quale ho provveduto a sistemare la seconda webcam. L'ospite prova a dimenarsi, io controllo ancora una volta i ferri del mestiere, puliti, affilati, freddi al tatto, ma ci potrei scommettere quello che volete: loro fremono quanto me.

Quando la consapevolezza del suo destino raggiunge l'ospite, sento i suoi tentativi di urlare. Ci provi pure: ha uno straccio infilato in bocca e tre giri di scotch largo attorno alla testa per tapparle le labbra. Se ci riesce, bene: il destino mi avrà servito la carta dell'ospite ventriloquo. E chi sono io per respingere una carta che il destino mi ha dato?

Dispongo accanto ai ferri il secondo mazzo di carte, quello speciale, poi torno al computer, aggiorno il browser, controllo ancora una volta l'inquadratura della webcam e aspetto. Pochi secondi all'appuntamento. Hanno dieci minuti per farsi vivi, oppure il “piatto” sarà mio.

L'idea un po' mi solletica. Quando ebbi la prima ospite, la mia prima guest star, quasi non sapevo quello che facevo. Alla seconda ci ho preso la mano. Ora, con la terza, quasi spero che perdano. Quasi spero non si prestino al gioco.

Ma no. Non sono qui per saziare una vanità. Non c'è nulla di ludico. Qui ci sono due destini in gioco. Sono qui per ben altro, per più alti scopi.

Sono passati otto minuti. I secondi scorrono via come l'agitazione sottopelle. La mia mente è già nella stanza dei divertimenti, a ghermire le luccicanti lame, il mio corpo resta incollato alla sedia, gli occhi fissi al monitor. Lealtà, mi dico. Mantieni fede ai tuoi patti.

Trenta secondi, ventinove, ventotto...

Poi una finestra di chat riempie lo schermo, al centro il programma di videoconferenza chiede se accetto la videochiamata. Non perdo tempo nel capire se la mia anima ha fatto un bagno nel sollievo o nel disappunto. Sposto il mouse su “Ok”.

Click.

Fate il vostro gioco.

“Buongiorno, ispettore Mari.”





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