.Linee
parallele.
Quanto
spazio c’era fra le cose che lo univano in
Australia e le cose che lo univano in Giappone? Gli spazi di per
sé erano una
concezione così pragmatica della realtà che Rin
si trovava spesso in difficoltà
di fronte alla misurazione di distanze. Per lui era molto
più semplice contare
le cose in passi che in metri, perché era più
facile, perché era più romantico
– e, checché se ne volesse dire, aveva sempre
sofferto e soffriva ancora di
quella bruciante ammirazione per le cose che gli facevano tremare gambe
e mani.
Makoto
aveva avuto sempre un suo modo tacito di
dimostrare di sapere della sua diffidenza per le distanze, e di saperle
annullare totalmente.
Nel
complesso, la foresta di pelle, ossa e voci che si
formava fra loro e Haruka quando passavano del tempo insieme contava
una lista
di centimetri di spazi vuoti così brevi che gli estremi di
uno sembravano
fondersi con quelli di un altro. Erano sempre stati tre linee parallele
così
vicine da sembrarne una unica.
E
poi le cose erano cambiate. Come se qualcuno avesse
prestabilito il quadro completo della sua vita, la linea che stava
tracciando
aveva subito una deviazione netta e spezzata da quella di Makoto e
Haru, e il
parallelismo si era rotto, così come l’equilibrio
e la perfetta armonia di
annullamento delle distanze a cui erano stati così bravi ad
affidarsi
totalmente negli ultimi due anni di scuola.
La
sua linea aveva fatto un giro, una curva colossale
per continuare in tutt’altra direzione, lasciando al posto di
quella che
sarebbe dovuta essere la sua corsa predestinata solo una traccia sbiadita.
Proprio
come lo sferragliare del treno sui binari, i
suoi pensieri in quel momento facevano così tanto rumore da
rendergli
impossibile concentrarsi su una cosa sola alla volta. Il treno per
Tokyo non
sembrava mai aver corso così lentamente.
I
loro baci avevano il rumore delle cose non dette. L’umido
schiudersi delle
labbra di uno su quelle dell’altro, il lento accarezzarsi da
sopra i vestiti,
come di rito, come usualmente, tutto quello sapeva dei silenzi che si
erano
appiccicati sotto le loro scarpe come cartacce.
Tokyo in generale, soprattutto di sera, sapeva di tutti quei piccoli
segreti
che avevano accattonato a casa, e faceva un chiasso tale che Haruka e
Makoto a
volte quasi non riuscivano a sentire cosa pensassero.
«Se anche io me ne andassi da qui, adesso...»
Makoto era tranquillo, lo era sempre stato e lo era anche nella
capitale.
Apparentemente non c’era nulla che potesse condizionare il
suo saper muoversi
fra i giorni della vita in quel modo talmente perfetto che sembrava
impossibile
pensare venisse da un paesino tanto tranquillo quanto Iwatobi.
Amava ancora Haru, forse più di prima, e non era mai stata
sua intenzione
metterlo in difficoltà. Ma fu lui, quella sera, mentre
mordicchiava il tappo di
una penna e Haru rosolava i filetti di sgombro surgelato in padella, ad
aprire
il discorso come avrebbe fatto con una porta qualsiasi, mentre il filo
delle
sue parole aveva soffiato fra di loro come vento gelido.
«Se io me ne andassi, c'è qualcosa che
riporteresti indietro da te?»
«Tu.»
Fu raggelato dalla rapidità con cui Haru aveva risposto.
«Intendo, qualcos'altro con me?»
L’aria gelida permeava fra di loro perché
c’era un vuoto. Nell’insieme di
muscoli, gambe e braccia che costruivano quando facevano sesso
c’erano degli
spazi talmente grandi da sembrare esistere lì apposta per
essere colmati. Erano
delle curve fra i loro corpi che partivano dove la loro pelle si
sfiorava
appena e finivano dove si ritrovavano, labbra contro labbra, fronte
contro
fronte, il respiro di uno nel respiro dell’altro.
La verità, la cosa non detta, era che alla perfetta armonia
di tocchi mancava
l’intaglio giusto, l’incastro perfetto che li
avrebbe resi completi, pieni,
dove l’aria non sarebbe passata più. Ad Iwatobi
avevano goduto della
complementarità dell'acqua che sgusciava fra i loro corpi e
li aveva vestiti di
sensazioni, di tangibilità, ed ora che tutto era cambiato,
ora che la parola
futuro non sapeva più di gambe che tremano e occhi vuoti,
ora che erano soli in
due in una grande città, soli in due sotto le coperte, la
struttura del loro
equilibrio vacillava così vistosamente che non parlarne
riportava alla mente i
giorni in cui Haruka non aveva saputo che farne di sé.
Si amavano, si amavano così tanto in una sfera tutta loro
che nessuno poteva
accorgersene o rendersene partecipe, ma proprio perché
c'erano questi
sentimenti, questi reciproci scambi di complicità, proprio
per quello le verità
andavano dette.
C'erano degli spazi terribilmente vuoti intorno a loro.
«Se tu volessi,» sbottò Haru, pulendosi
le mani sul grembiule «ti chiederei di
riportare qui Rin.»
«Non abbiamo fatto sesso quella volta in Australia.»
Makoto gli baciò la clavicola, poi alzò la testa
per guardarlo negli occhi. «Va
bene.»
Si chiese se sarebbe stato troppo ridicolo e ipocrita aggiungere “non sarebbe stato un problema”.
«Volevo che lo sapessi.» Haruka si
adagiò sul cuscino e guardò il soffitto.
«Era strano senza te.»
Makoto sorrise dolcemente contro la sua pelle. «Strano come
adesso?»
«No.»
Fuori, Tokyo tuonò. Pioveva da tre giorni e due notti su
quel cupo grumo di
palazzi e gente spossata sotto gli ombrelli scuri. L’ombrello
di Haru e Makoto
era rosso.
«Perché no?»
«Perché tu sei Makoto.»
«E lui è Rin?»
«E lui è Rin.»
Ovvio, che lui fosse Rin, ed ovvio che la sua assenza non fosse come
un’assenza
di Makoto. Rin aveva sempre fatto quello che gli pareva, Rin era stato
libero,
forse più di Haru. Makoto aveva imparato a stirare i nervi
tesi dovuti alle
assenze sin da quando Yamazaki era tornato ad Iwatobi.
Era stato un lavoro pesante lavorare e plasmare dall’interno
la bolla che li
inglobava tutti e tre, ma non aveva mai desiderato che scoppiasse. Rin
aveva la
capacità di uscirne e rientrarne senza danneggiarla, ma il
problema reale era
che quando lui ne usciva dentro rimaneva troppo spazio, troppa aria da
essere
respirata. Adesso la bolla sembrava semplicemente essere scomparsa.
Makoto si schiarì la voce, e rotolò su un fianco
per stendersi fra le coperte.
«Con Rin, sarebbe stato strano solo in quell'occasione o
sempre?»
«Solo in quell'occasione.»
Era stato un modo gentile per chiedergli se avessero mai fatto sesso
senza di
lui, ed Haru gli aveva dato la conferma. Non era una domanda dovuta
alla
gelosia: era stato anche lui a letto con Rin, in un paio di occasioni,
e
l'ultima poco prima che lui ed Haru partissero per l'Australia.
«Forse è per questo che faceva sempre a modo
suo.» Haru stava lentamente
imparando ad esternare i suoi pensieri un po' di più.
Probabilmente l'essere
lontano da casa e non più circondato solo da persone che
capivano i suoi
atteggiamenti a priori stava dando i suoi frutti, da quel punto di
vista.
Makoto lo guardò. «Che intendi?»
«Non era legato a nulla di quello che facevamo, solo a
noi.»
«Rin non ci ha dimenticati.»
Ma non era lì.
Perché era quello,
alla fine, il punto intorno a cui girava tutto da un paio di giorni.
Rin era
partito e li aveva salutati col sorriso sulle labbra, Rin li aveva
stretti,
commosso e col suo fare soffocante, Rin aveva giurato che sarebbe
venuto a
trovarli presto ma, aldilà di tutte le promesse mantenute,
aldilà di tutte le
belle cose che aveva detto, semplicemente Rin non era lì.
Makoto ed Haru
avevano combattuto per stare insieme, lui non ci aveva nemmeno pensato,
quando
probabilmente sarebbe dovuto essere il primo a farlo, senza nessuna
logica,
senza nessuna regola, certo, ma avrebbe dovuto farlo perché lui era Rin, ed un altro era Haru, che
un po’ ancora non si era rassegnato a come erano
drasticamente cambiate le
cose, ed un altro ancora era Makoto, che in fin dei conti sentiva di
avere
delle braccia troppo grandi per una persona sola.
Haruka
era il pezzo di puzzle perfetto per incastrarsi con lui davanti, ma
cos’avevano
tutto intorno?
Tokyo
tuonò di nuovo, e da qualche parte oltremare
chissà se l’Australia stava facendo lo stesso.
Haruka
sbadigliò silenzioso come un gatto e si
stropicciò l’occhio destro col dorso della mano.
«So
che non ci ha dimenticati, è troppo ridicolo e
romantico per farlo.» borbottò.
Makoto
sorrise e si grattò la nuca, adagiandola sul
cuscino. Un filo bianco dell’orlo rovinato della federa si
infilò fra le sue
dita e lui lo tirò, guardandolo. «Mi ha scritto
una mail ieri. Mi ha detto che
lì va tutto a gonfie vele, e mi ha chiesto di te, del nuoto,
sai, dei tuoi
tempi. Non vede l’ora di sfidarti.»
«Mh.»
«Gli
ho risposto che va tutto bene anche qui, che stai
andando alla grande e… che ci manca.»
Haru
non rispose, ma chiuse gli occhi e scivolò un po’
più sotto le coperte. Makoto si voltò verso di
lui, col filo di lana spessa fra
l’indice e il pollice, e sorrise di nuovo.
«Torna
in Giappone fra due settimane.»
Haruka
aprì lentamente un solo occhio per guardarlo, e
Makoto gli sfiorò il naso col filo della federa che
stringeva fra le dita. Lui
lo afferrò, brusco, nel pugno, e inconsapevoli entrambi
tremarono nel buio
senza toccarsi e guardarsi direttamente.
Makoto
si morse il labbro inferiore. «E’ che un filo ha
solo due estremità, Haru.»
«V-vi
amo…»
Avevano
avuto così tanto tempo per pensare a quel
momento che tutto sembrava andare avanti secondo precise istruzioni.
Makoto
stava calcando fra le lenzuola la linea del disegno dei loro corpi che
Haruka
aveva solo abbozzato, e in tutto quello, mentre uno lo prendeva e
l’altro si
faceva prendere, Rin pensava solo di star per impazzire.
«Sta-sta’
zitto...»
Haru tremò,
ansimando rumorosamente con le mani di Rin premute sui polpacci, mentre
Makoto,
stando attento a non far troppo rumore per non interrompere la linea
invisibile
dei loro sguardi, si spingeva dentro Rin e uccideva un gemito fra i
suoi
capelli.
Fu
in quel momento che nella testa di tutti e tre
cominciò un furioso litigio secondo cui non avrebbero mai
dovuto separarsi,
perché solo così si stava bene, solo
così tutti gli spazi erano pieni e caldi.
A voce, fra i baci e gli ansiti, nessuno avrebbe avuto il coraggio di
parlare,
Makoto perché troppo buono, Haruka perché troppo
distratto e Rin perché troppo
colpevole per farlo. In qualche modo si stavano dicendo che si erano
mancati e
che si sarebbero mancati ancora.
Nel
frastuono della sua testa Rin si concesse di
pensarlo altre tre volte: vi amo, vi amo,
vi amo.
Uno
dei tanti punti fra loro – uno dei tanti, sì, ma
uno dei pochi che valesse la pena tenere a mente – era che le
cose sapevano
spesso di già vissuto. Il peso dei passi negli androni delle
stazioni, per
esempio, lo scrosciare fitto di una pioggia intorno ad un ombrello
troppo
piccolo per tre, i silenzi assordanti che dicevano mille cose mentre
non ne
dicevano neanche una, tutto quello aveva il sapore amaro delle
esperienze
ripetute a cui, nonostante ciò, non si sarebbero abituati
mai.
Haruka
aveva borbottato qualcosa di simile, qualcosa di
tremendamente sentimentale per la sua bocca, qualcosa che assomigliava
a “parti troppo spesso per i miei
gusti”. Alle
sue orecchie era suonata come una scocciata esclamazione nel sonno del
primo
mattino, a quelle di Rin solo una patetica e dolce risposta ai ‘vi amo’ di alcune
sere precedenti.
Makoto
li aveva guardati ed ascoltati bisticciare in
taxi mentre sui finestrini la pioggia cadeva e sgusciava verso il basso
in
piccole e limpide gocce. Alcune gocce si univano a metà
della corsa, per poi
separarsi più in là ed unirsi nuovamente in una
placida discesa. Se tutti e tre
fossero stati delle gocce, pensò, avrebbero fatto
esattamente la stessa cosa.
I
rumori della stazione quando c’era anche Rin venivano
presi ed amplificati per cento. Quella mattina era tutto un
così gran baccano
che, ancora una volta, quasi non riuscivano a sentire cosa pensassero.
«E’
questo il binario?»
«E’
questo.»
L’ombrello
rosso nella mano di Haru produceva un
ticchettio insensibile affianco ai loro passi. Le orme di polvere e
fango
rimanevano sulla banchina umida e fredda come una traccia
già segnata che
dovevano solamente calcare.
Erano
infreddoliti, un po’ bagnati. L’acqua scivolava
dalle ciocche di capelli di Rin e Haru come quando erano usciti dalla
piscina
pochi giorni prima, quando si erano sfidati ed avevano constatato,
ancora una
volta, che erano ancora troppo stretti, tutto sommato, per essere
davvero
rivali. Le loro mani sulla ceramica del bordo avevano avuto il rumore
sordo
degli schiocchi dei baci nel buio della camera da letto.
Nel
momento in cui il treno su un altro binario
fischiò, Rin si voltò, con le braccia incrociate
dietro la nuca ed un borsone
in spalla, e sorrise loro nello stesso ed
identico modo con cui lo faceva sempre.
«Magari
riesco a tornare di nuovo prima dell’estate.»
Makoto
gli sorrise. «Noi siamo qui.»
Haru
abbassò la testa per guardare giù, sui binari
lucidi, e Makoto lo imitò. Siamo
sempre
stati qui.
«Lo
so.» Rin sorrise, alzando le spalle. «Anche io sono
lì, se voleste.» sbottò, vago.
Haruka
alzò lo sguardo per fulminarlo e Makoto scoppiò
a ridere, quieto e cristallino come piaceva a tutti e tre. Rin lo
accompagnò,
sopprimendo l’istinto di baciarlo.
L’annuncio
della sua corsa in arrivo spense le loro
risate fino a trasformarle in scialbi borbottii.
«Rin.»
«Makoto.
Haru.»
«Rin.»
Aveva
avuto il suono di una dolce cantilena già
sentita. A quel punto sapevano tutti e tre che non c’era
più bisogno di nessuna
parola, ma c’era comunque dell’altro tempo, altri
secondi da riempire, sapevano
che Rin non era ancora partito eppure c’erano già
dei vuoti intorno a loro.
Makoto
fu veloce: prese Rin per le braccia e se lo
strinse contro. Haruka sarebbe rimasto silenzioso in disparte a
guardare la
gente intorno se Rin non lo avesse afferrato per il collo della felpa e
lo avesse
tirato contro di loro, singhiozzando. Stava già piangendo
dalla sera
precedente, in realtà, ed il fatto che fra i tre fosse
comunque sempre il più
debole fu allo stesso tempo un sollievo e un’umiliazione.
Il
treno sferragliò sui binari durante la frenata e la
banchina si riempì di persone.
Rin
scomparve fra gli ombrelli, le valigie e i giacconi
prima che potessero rendersene conto.
Quando
Haruka riprese a respirare ed afferrò la mano di
Makoto per cominciare a sgusciare fra la gente nella loro immensa bolla
invisibile, Rin, dentro, accomodato al suo posto, tirò su
col naso e chiuse gli
occhi per sognare l’oro olimpico.
Makoto
sorrise, un po’ a se stesso e un po’ alla pioggia, contò sulle punte delle dita le quattordici bugie che si
erano detti in quei cinque
giorni e l’unica verità negli ultimi minuti, quando ancora una volta avevano saputo azzerare tutte le distanze e riempire tutti i vuoti nell'insieme caldissimo fra la loro pelle e le loro voci.
Note
dell’autrice:
Mi
domando se qualcuno si ricorda ancora di quando c’era la
prima stagione e nel
fandom giravano questi TRE BELLISSIMI NUOTATORI che facevano cose
insieme ed
erano fantastici. Ecco, so che la seconda stagione ci ha riempiti di
MakoHaru e
SouRin annebbiandoci tutto il resto (annebbiando tutto il resto a me
soprattutto), ma spero che qualcuno si ricordi ancora
quant’erano perfetti
questi tre amorini insieme <3 Sì perché
questa fic è scritta un po’ in onore
di quei tempi, ed è scritta perché dovevo farlo.
Partecipante
alla "500 prompt per una
challenge" col prompt “213: Verità”, perché
non c’è verità più vera del
fatto che si amano e io amo loro.
Fatemi
sapere che ne pensate, sì?
Alla
prossima!
(Per
la cronaca, questa è la terza storia che scrivo
nel fandom: o mi cacciate adesso o non mi cacciate più!)
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