Il tempo non è nient
Il tempo non è
nient’altro che una successione di attimi e il cambiamento nient’altro che un
mutamento di forme. Interpretarli nella giusta prospettiva e viverli al meglio è
la sfida che attende ogni uomo.
Genere:
one-shot, introspettivo, malinconico
Personaggi:
Kakuzu
Warning:
spoiler dal cap. 339
“Non si può
discendere due volte nel medesimo
fiume
e non si può
toccare due volte
una sostanza
mortale nel medesimo stato
perché a causa
dell'impetuosità e della velocità del mutamento,
essa si disperde
e si raccoglie, viene e va”
(Eraclito)
15/10/2008
Panta Rei
Time Ain’t
Nothing but Time
“Allora, ti vuoi
muovere o no?! Lo sai che non abbiamo tutto il giorno!”
“Vai a farti
fottere, eretico! Lo sai che quando il sole è allo zenit devo elevare la mia
preghiera al sommo Jashin!”
“…’fanculo Hidan!
Tu e quel tuo dio dell’accidenti… vedi almeno di spicciarti…”
L’ultima parte
della frase la dico quasi sottovoce, anche perché tanto so già che sono parole
sprecate: al solito, il mio compare la tirerà per le lunghe con quelle sue
dannatissime preghiere. Che poi chiamarle preghiere ha poco senso, sembrano più
sacrifici umani…
Ma questi sono
affari che non mi riguardano. Il mio problema adesso è come passare le prossime
ore: finirà che come sempre resterò a guardare il paesaggio…
Ad una ventina
di metri dal luogo scelto dal fanatico per la sua immolazione quotidiana c’è un
gelso e nella sua ombra un grosso sasso, che sembra essere stato malamente
rotolato fuori dal limitare del campo di grano lì accanto. Me li immagino
proprio quattro contadini malridotti che si dannano per spostare quel pietrone,
e non riesco a trattenere un sorriso sardonico: perché faticare tanto per
conquistare pochi metri quadri di terra da cui trarre qualche misera spiga in
più? Eppure probabilmente per loro era una questione di vita o di morte, la
differenza tra riuscire o meno a procurare il cibo per sé e la propria famiglia,
dopo aver pagato il dazio al feudatario.
La loro vita è
tutta lì e non cambia mai: ogni giorno ne segue un altro sempre uguale e poi i
giorni si sommano e diventano mesi e infine anni. E ogni mattina si saluta senza
gioia una nuova luce, con la consapevolezza che la morte può arrivare in
qualunque momento. È per questo che ho cercato un modo per sconfiggere il tempo.
Mi accomodo alla
meglio sul sasso, buttandomi all’indietro fino a toccare con la schiena il
tronco del gelso, in un equilibrio precario ma tutto sommato comodo e comincio a
guardarmi attorno: non è male, questa zona. Non la riconosco, non c’è nulla che
mi risulti familiare, eppure è come se nel profondo delle colline brulle che ci
circondano, tra la polvere della strada, le pietraie e i terreni coltivati, ci
fosse un elemento che mi riporta al mio passato, che fa affiorare ricordi
lontani. Ma per quanto mi sforzi non riesco a capire cosa sia, e questo mi
infastidisce: non mi piace che qualcosa sfugga al mio controllo.
Sono strani i
ricordi: io non me ne sono mai fidato, perché ti ingannano, ti tradiscono.
Spesso il ricordo di ieri è evanescente e vacuo, mentre la tua infanzia ti
appare nitida e viva. E se cerchi di misurare attraverso i ricordi il tempo
trascorso, di sicuro sbaglierai.
Il mio sguardo
continua a scivolare attento su ogni dettaglio del paesaggio che mi sta di
fronte, per scovare quel qualcosa che mi disturba. Alla fine gli occhi si posano
su un’imponente betulla e su quelli che sembrano i ruderi di una casa colonica:
all’improvviso mi è tutto chiaro e rivedo quella betulla e quella casa com’erano
ai tempi della mia giovinezza.
Perché questo è
il luogo dove ho trascorso quella che, in retrospettiva, posso definire l’unica
parentesi felice della mia esistenza. Non so nemmeno quanti anni siano passati,
non provo neanche a contarli, ma di sicuro sono tanti. Quella betulla, nella mia
testa è ancora l’alberello striminzito con un tronco esile che potevo
abbracciare con due mani, piantata da chissà chi nel futile tentativo di
ombreggiare l’aia del casolare, la mia casa. Una volta qui c’era un villaggio e,
sebbene non ci fossi nato, ero affezionato a quelle quattro cascine e alla gente
che le abitava - mia moglie, i miei figli, i miei amici.
Quando avevo
cominciato ad allontanarmi da casa, l’avevo fatto anche per loro, perché i soldi
non bastavano più. Fare il cacciatore di taglie rendeva e io ero abbastanza
forte e spietato da poter campare, letteralmente, sulla pelle degli altri.
Ogni volta che
li lasciavo mi imprimevo nella mente ogni dettaglio di quel piccolo borgo,
sempre uguale a se stesso, e il pensiero che sarei tornato e l’avrei trovato
così come l’avevo lasciato era ciò che mi sosteneva quand’ero lontano. E credevo
che anche mia moglie, i miei figli, i miei amici la pensassero come me, che
volessero vedere al ritorno lo stesso uomo che li aveva salutati alla partenza,
uguale in tutto e per tutto. E così avevo imparato a non permettere alla vita di
segnare il mio cuore e avevo trovato un modo di sconfiggere il tempo, assorbendo
i cuori delle mie vittime.
Di volta in
volta le mie assenze si facevano sempre più lunghe e i rapporti con mia moglie,
i miei figli, i miei amici sempre più allentati. A loro non piaceva il mio
non-cambiamento, dicevano che ero diventato un mostro. Ma io sono convinto che
quella fosse tutta invidia, perché su di loro il tempo si accaniva, lasciando
tracce pesanti del suo scorrere. Alla fine non ci riconoscevamo nemmeno più,
facevamo finta di non essere mai esistiti nelle vite gli uni degli altri.
Il villaggio
invece era sempre lo stesso, come me; cambiavano solo i fiori sui davanzali,
come io cambiavo d’abito a seconda della stagione, ma la nostra sostanza
rimaneva immutata nel tempo.
E credevo
potesse durare per sempre.
Ma mi sbagliavo:
ora la piccola betulla è diventata un albero quasi centenario e fa ombra al
tetto sfondato di un cascinale in rovina, mentre le altre case del villaggio
sono scomparse, lasciando il posto ad una pietraia, misero pascolo per qualche
pecora.
Ora, per la
prima volta, negli occhi del giovane che ho voluto essere per sempre, c’è lo
sguardo del vecchio che avrei dovuto essere da tempo, c’è la consapevolezza che,
per quanto mi sia ostinato a negarli e a combatterli, gli anni sono passati
anche per me.
Nulla di ciò che
avevo amato nella mia giovinezza e che avrei voluto vivere per sempre è rimasto
com’era, come lo ricordavo… allora, che senso ha che io non sia cambiato?
“Ehi, tirchione
di merda… per quanto tempo ancora vuoi startene lì impalato?! Cazzo, ma lo sai
che sei un gran figlio di puttana? Prima mi rompi l’anima che dobbiamo muoverci
e non mi lasci nemmeno il tempo di recitare le mie preghiere come si deve, poi
te ne resti lì come un’idiota… ‘fanculo, va…!”
“Chiudi quella
fogna, Hidan! E vedi di conservare il fiato per camminare, piuttosto che
sprecarlo per continuare a dire stronzate… andiamo, che la strada per il Tempio
del Fuoco è ancora lunga…”
“Fottiti
Kakuzu!”
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