L'UOMO
DEL SUD
Fu
durante l'ennesimo trasloco che scoprii il mulino.
Mio
padre aveva deciso che i suoi quadri necessitavano di nuovi colori,
forti e caldi ma non violenti, e aveva stabilito che il violetto
della lavanda, il giallo della colza e il verde degli ulivi e delle
viti della Provenza facevano decisamente al caso suo.
Come
al solito non mossi obiezioni, ma, sia chiaro, non ero felice di
quell'ennesimo spostamento. Da un paio di mesi ci eravamo lasciati
alle spalle l'andirivieni del porto di Cherbourg per adattarci al
caos internazionale di Parigi, e l'idea di abbandonare per l'ennesima
volta gli amici che ero riuscito a trovare con tanta fatica mi aveva
lasciato addosso un profondo senso di abbandono. Questa volta,
probabilmente, non glie l'avrei perdonato.
Ma
ora sto divagando.
Il
mulino, dicevo, era apparso all'improvviso mentre percorrevamo la
strada che conduceva a Fontvieille, il paese in cui mio padre era
riuscito a trovare una casetta in affitto ad un prezzo decente. Me lo
trovai sulla destra, piccolo e tondo, come un fungo appena spuntato
in cima alla collinetta arida che sovrastava la pineta dalla quale
era seminascosto, e mi incuriosì subito, facendomi sbollire un
po' di quella rabbia che covavo da qualche giorno a quella parte.
Papà
aveva letto qualcosa al riguardo da una guida turistica, ma ricordava
solo che era appartenuto ad un famoso scrittore dell'ottocento.
Sinceramente, non me ne importava nulla, ma quella strana costruzione
mi affascinava, e decisi che prima o poi ci avrei fatto un salto.
Chissà
che bel panorama si gustava da quel punto; sicuramente anche papà
l'avrebbe apprezzato.
Sorrisi
pensando questo, per il solo motivo che stavo di nuovo raggiungendo
la pace dei sensi con me stesso, con il mondo e, soprattutto, con mio
padre.
Ma
non durò a lungo.
Poco
dopo il nostro arrivo nella nuova casa, litigammo di nuovo.
Fu
per una stupidaggine, come al solito, la classica goccia che fa
traboccare il vaso e che mi aveva fatto passare per l'ennesima volta
da isterico.
Intendiamoci,
Fontvieille mi piaceva; un paese tranquillo e solitario ma non
deprimente, al contrario di altri posti in cui avevo avuto la
disgrazia di abitare. Le
case erano tutte molto vecchie, ma così ben tenute che
parevano costruite da poco, e le imposte dai colori vivaci e le
piante fiorite che adornavano i muri davano loro un aspetto allegro e
vivo, attenuando il senso di desolazione che mi aveva avvolto appena
sceso dall'auto.
La
nostra casa faceva eccezione; era
una piccola villetta a due piani, circondata da un minuscolo giardino
pieno di erbacce, anche se sotto la finestra cresceva un
profumatissimo cespuglio di lavanda. Il muro era vecchio e scrostato,
e la sporcizia degli infissi lasciava intravedere brandelli di
vernice verde. Il minuscolo interno, due stanze per piano (le
superiori mansardate), più un piccolo ripostiglio, non avrebbe
mai smesso di puzzare di chiuso, ma la mia stanza era luminosissima,
e ricordo che appena vi misi piede mi venne immediatamente voglia di
sdraiarmi sul letto lasciando che la luce del sole che attraversava
l'abbaino mi scaldasse la faccia, e stare così per ore.
Invece
mi arrabbiai per via del telefono.
Sapete,
tutti mi dipingono come un tipo tranquillo, ma non perchè lo
sia davvero; semplicemente mi sono costretto a cercare sempre il lato
buono delle cose perchè non avevo altra scelta.
Always
look on the bright side of life.
Che altro potevo fare, quando le crisi creative di mio padre, ormai
sempre più frequenti, mi costringevano a continue fughe non
solo da una città all'altra, ma anche da una nazione
all'altra, dalla parte opposta del mondo?
Una
cosa potevo farla, e sapevo che prima o poi sarebbe accaduta.
Scoppiai,
come un pallone.
Durante
il viaggio una stupida canzone gracchiata dall'autoradio mi aveva
fatto venire improvvisamente nostalgia per i miei amici lontani; non
solo quelli rimasti in Giappone, ma anche Genzo, in Germania, e
soprattutto Tsubasa, che, a quanto ricordavo, doveva essersi da poco
trasferito in Brasile. Non sapevo dove abitasse, ma avevo il suo
indirizzo di posta elettronica, e pensai che, appena arrivato nella
nuova casa, gli avrei scritto immediatamente per chiedergli come
stavano andando le cose.
L'idea
che un semplice computer portatile mi permettesse di raggiungere i
miei amici ovunque fossi mi tranquillizzava; e invece questa volta
avrei dovuto farne a meno, perchè in casa non esisteva una
connessione telefonica, e figuriamoci se in quel buco dimenticato da
Dio e dagli uomini esisteva un internet cafè.
Il
che avrebbe potuto essere semplicemente una seccatura temporanea, se
mio padre non avesse deciso che, prevedendo che ci saremmo trattenuti
solo qualche mese, del telefono avremmo potuto fare anche a meno.
Niente
telefono, niente internet, niente posta elettronica. Mesi per
ricevere una lettera. Pochi e costosissimi secondi per le mie
telefonate intercontinentali da una cabina.
Isolamento
completo.
Andai
fuori di testa.
Se
i miei amici più cari mi avessero visto e sentito inveire come
feci quella volta contro mio padre non mi avrebbero mai riconosciuto,
e perfino io stentai a riconoscermi. Dov'era finito il pacifico Taro
Misaki, che affrontava sempre le avversità con determinazione
e un bel sorriso stampato sulla faccia?
Se
n'era andato di casa sbattendo la porta e senza sentirsi minimamente
in colpa.
Il
mio unico pensiero, in quel momento, era fare una lunga camminata il
più lontano possibile da quell'uomo che stavo tanto odiando
per il più stupido dei motivi.
Imboccai
la strada principale che portava fuori da Fontvieille e mi diressi a
piedi verso il mulino.
In
un'altra situazione mi sarei pentito amaramente di aver fatto quello
che feci nel primo pomeriggio. Ovviamente avevo agito d'istinto,
altrimenti avrei portato con me una bottiglia d'acqua o, quanto meno,
un berretto.
Arrivato
a metà della salita verso la pineta mi fermai, ansimando, e
alzai lo sguardo verso il sole, riparandomi il viso con il dorso
della mano. Non potevo nemmeno vederlo, il sole; era come una palla
di luce i cui contorni si perdevano nel cielo azzurro, e giuro che un
cielo così
azzurro non l'avevo mai visto prima di allora. Per un brevissimo
istante mi chiesi se mio padre sarebbe mai riuscito a dipingerlo, ma
quel pensiero se ne andò non appena mi rimisi in movimento,
sbuffando. Cominciai ad arrancare; a guardarla da lontano, quella
dannata salita non sembrava così ripida! Sudavo
come un cavallo; le cicale frinivano a più non posso,
incoraggiandomi a tenere duro.
La
mia cocciutaggine e il mio (per fortuna buono) allenamento fecero il
resto; in una decina di minuti arrivai al polveroso parcheggio che si
apriva come una radura nella pineta ai piedi del mulino.
Già,
il mulino...
Era
in cima ad una collinetta alta più o meno cinquanta metri, ma,
nello stato in cui ero ridotto, mi sembrava una montagna. Mi guardai
intorno, nel silenzio rotto solo dalle cicale e dal rombo di qualche
rara automobile; se non fossi stato così nervoso avrei
rinunciato all'impresa, ma, dato che l'attività fisica per me
è sempre stata una valvola di sfogo, mi misi di nuovo in
marcia.
Non
so quale forza divina mi fece risalire il colle, ma quando raggiunsi
il mulino rimasi in piedi, immobile, con gli occhi chiusi, lasciando
che un refolo di vento mi desse un po' di sollievo, asciugando il
sudore che mi colava dalla faccia.
Aprii
gli occhi e mi guardai intorno. Non ero l'unico sotto quella calura;
qualche turista si aggirava nei dintorni, scattando foto da lontano.
Non capii bene perchè, ma mi sentii più tranquillo
sapendo di non essere solo in quel luogo deserto.
Il
paesaggio, in effetti, era davvero affascinante; da quella posizione
vedevo bene i campi regolari dalle tinte pastello, circondati, qua e
là, da sparuti cespugli di tamerici. Alcuni erano attraversati
da strade nere che serpeggiavano a perdita d'occhio sotto il sole che
ne faceva quasi brillare l'asfalto. In quella cornice non stonavano
nemmeno.
Sì,
forse mio padre avrebbe potuto trarne qualche buon quadro.
Mi
voltai verso il mulino, trovandolo ancora più piccolo di
quanto mi era sembrato. Mi colpì quanto il bianco delle pareti
contrastasse con il rosso brillante delle tegole del tetto a punta, e
mi avvicinai per toccare il muro; per essere del secolo scorso era
perfettamente conservato, forse anche dipinto di fresco. Sogghignai,
pensando che i francesi erano sempre stati i migliori a vendere la
loro mercanzia ai turisti.
Ad
un tratto sentii della musica provenire da qualche parte.
Incuriosito, girai intorno alla minuscola costruzione, e vidi un uomo
che suonava la chitarra e canticchiava sommessamente, seduto accanto
ad una finestrella. Teneva la schiena appoggiata al muro, e, ai suoi
piedi, aveva dei fogli sparsi su cui, ogni tanto, si chinava per
scrivere qualcosa.
Mi
fermai un attimo a guardarlo, incuriosito non tanto dalla musica che
stava suonando, una melodia molto dolce che mi fece passare un po' di
malumore, ma per l'espressione calma che aveva. Non sembrava affatto
uno del posto, era biondo, aveva i tratti spigolosi e il naso
pronunciato ed affilato, e doveva essere piuttosto alto.
Gli
passai accanto in silenzio per non disturbarlo, ed entrai nel mulino.
Lui mi ignorò, gli occhi fissi sulle corde del suo strumento.
L'interno
dell'edificio, naturalmente, era ancora più piccolo, visto lo
spazio che veniva occupato dalla mola e dagli altri ingombranti
ingranaggi. Salii la stretta scala a chiocciola che portava al piano
superiore, di sicuro ancora più stretto di quello inferiore.
Una volta in cima, chinai la testa per evitare una bella zuccata
contro le travi del soffitto, ma quando la rialzai presi un tremendo
spavento.
Un
grosso gufo, spuntato da chissà dove, si avventò contro
di me sbattendo le ali a più non posso; gridando, alzai le
braccia per ripararmi il viso e indietreggiai, rischiando di cadere
dalle scale. La bestia non cedette: pur senza colpirmi con i suoi
artigli affilati, mi costrinse ad una fuga precipitosa.
Mi
scaraventai fuori dal mulino e cercai riparo in fianco all'ingresso,
appena prima che il gufo ne uscisse a sua volta, andando a perdersi
nella pineta, più in basso.
Mi
guardai intorno con il fiato corto, ma del mio aggressore pennuto non
c'era traccia; in compenso mi accorsi di essere praticamente di
fianco all'uomo con la chitarra, il quale mi guardava con aria
interrogativa.
“C'era...c'era
un gufo, là dentro!” balbettai, imbarazzato.
L'uomo
continuò a fissarmi con i suoi occhi azzurri e franchi.
“L'ha
visto, vero...?” dissi, come se mi vergognassi di quella fuga
ignobile.
“Io
non ho visto niente” rispose dopo un attimo di silenzio “Del
resto è piuttosto strano che un gufo se ne vada in giro di
giorno, non ti pare?”
“Ma
è uscito da lì!” esclamai, sbracciandomi verso la
porta “Era grosso e marrone, e aveva due occhi gialli che...”
Mi
interruppi. Onestamente, cominciavo a dubitare di quello che avevo
visto. E quell'uomo aveva un'aria veramente perplessa.
“Se
non stai attento rischi di prenderti una brutta insolazione”
disse infine, tornando a pizzicare le corde della sua chitarra “Il
sole, a quest'ora del pomeriggio, picchia forte. Dicono che sia per
questo che gli abitanti della Provenza sono pazzi...”
Sorrise.
Istintivamente decisi che quel tizio mi piaceva.
“Ad
ogni modo, l'unico gufo che troverai qui è una vecchia statua
di legno, al piano superiore. Pare che il precedente proprietario del
mulino avesse fatto un'esperienza molto simile alla tua.”
Lasciò
un momento la chitarra e scribacchiò di nuovo sui suoi fogli
volanti.
Mi
sedetti in fianco a lui, e sbirciai i fogli sparsi sul terreno.
Normalmente non avrei curiosato negli affari altrui, ma con
quell'uomo mi sentivo stranamente a mio agio.
“E'
un compositore?” domandai.
“Qualcosa
del genere. A dire la verità mi occupo di letteratura e
antropologia, ma ogni tanto scrivo qualche canzonetta...niente di
particolare, ma sembra che piacciano. Però non riesco proprio
a venir fuori da questa.”
“Come
si chiama?” chiesi, di onda. Temetti che la stupidità
della domanda seccasse il mio interlocutore, ma non fu così.
“Chi,
io o la canzone?” disse, guardandomi con espressione quasi
divertita.
Arrossii.
“Ehm...intendevo la canzone, ma...”
Mi
interruppe prima che aggiungessi qualche altra idiozia.
“A
dire la verità non lo so ancora. E' stupido, perchè
sono venuto qui apposta per scriverla. Parla di luoghi come questo,
nel sud della Francia. In termini piuttosto vaghi, ad essere
sincero... Pensavo semplicemente Le
Sud. Cos'è
che fa rima con Italie?”
Alzò gli occhi al cielo e si picchiettò le labbra con
la matita. “Joli?
Uhm...et
c'est joli...Che
dici, troppo banale?”
“No,
è giusta. E' bello, qui” risposi, guardando nel vuoto
“Viverci, però, è tutta un'altra cosa.”
“Già”
disse lui, puntando la matita verso il mulino “E' un po'
strettino là dentro, eh?”
“Veramente
parlavo del paese” precisai.
“Dipende
da quello che cerchi” disse lui, ricominciando a scrivere
“Daudet, ad esempio, ha comprato il mulino per venirci a
sistemare un libro di racconti senza che nessuno gli rompesse le
scatole. Non che ci abbia veramente vissuto, però. In realtà
alloggiava nel castello di Montauban, qualche chilometro più
in là. Passi per l'ispirazione, ma al signore piaceva
trattarsi bene...”
Mi
guardò un istante e mi lesse in faccia che non avevo grande
idea di cosa parlasse. “Daudet. Lo scrittore. Quello di
Tartarino.”
Annuii piano. “Ho
letto qualcosa sul cartello, nel parcheggio.”
Sorrise.
“Parli molto bene il francese” disse “Sei qui in
vacanza?”
“Magari”
risposi sospirando “Mi ci sono appena trasferito.”
“Non
sembri molto felice.”
“Non
lo sono” dissi. La rabbia che si era sopita fino a quel momento
sembrò voler tornare fuori; decisi che era meglio cambiare
discorso. “E lei è di qui?”
Scosse
la testa. “Vengo da un paese che si chiama Montcuq, nei
Midi-Pyrenèes. Non è molto diverso da qui, anche se non
fa così caldo. Fondamentalmente è un paese del sud; e
io, anche se non ci sono nato, mi sento un uomo del sud. Presto
capirai cosa significa...”
“Diventare
matti?”
Rise.
“Forse, chi lo sa?” disse “Posso solo garantirti
che, quando te ne andrai da qui, te lo ricorderai per sempre. Sono
posti che ti entrano un po' sotto la pelle, sai?”
“Ne
ho di posti, sotto la pelle” risposi sospirando “E anche
di persone che ho lasciato in giro. Non credo che questo farà
una gran differenza.”
“Io
credo che la farà” disse lui, senza smettere di
guardarmi. “Sai cos'ha colpito Alphonse Daudet, quando è
arrivato qui per la prima volta? I conigli.”
Aggrottai
le sopracciglia.
“Sì,
i conigli. E tu non sai quanto vorrei vederli anch'io, guizzare tra i
cespugli con le loro codine bianche... Dev'essere stato strano, per
loro, trovarsi gente intorno dopo tanto tempo. Valli a cercare,
adesso, dei conigli in mezzo a queste sterpaglie e ai turisti. Non
credo ce ne siano più. Peccato, sarebbero stati una buona
compagnia”
Ecco,
non riuscii a capire perchè, ma quella frase mi fece salire un
nodo alla gola. Provai ad immaginare come doveva essere quel posto un
secolo fa, e come doveva essere viverci, ma non era questo il
pensiero che mi dava la nostalgia. Proprio non capivo cos'era.
L'uomo
sembrò accorgersi del mio strano stato d'animo. Posò la
chitarra e appoggiò le braccia sulle ginocchia.
“Comunque
puoi chiamarmi Nino” mi disse, sorridendo.
Sorrisi
a mia volta e, timidamente, gli tesi una mano. “E lei può
chiamarmi Taro” dissi. Vedi
come funzionano le cose?,
pensai. Ho
già trovato un nuovo amico.
Nino
mi strinse energicamente la mano, poi tornò ad imbracciare il
suo strumento.
“E
vieni da lontano” continuò “Posso chiederti come
sei finito qui?”
“Mio
padre è un pittore” sospirai “Aveva bisogno
d'ispirazione. A dire la verità è tutta la vita che la
cerca, non so se la troverà mai.”
“Non
essere arrabbiato con tuo padre” disse Nino, che,
probabilmente, si era accorto del rancore nella mia voce “Molti
sbagliano senza accorgersene. Basta farglielo notare.”
“Crede
che non l'abbia mai fatto?” ribattei.
“Intendevo
dire che spesso gli adulti ragionano come se quello che fanno vada
bene per forza, ma spesso non ne sono convinti nemmeno loro.”
Mi
strinsi le ginocchia contro il petto. “Non mi interessa quello
che pensa mio padre, né quello che cerca. Sono stanco di voler
bene alle persone, se so che dovrò lasciarle indietro.”
“Probabilmente
l'avrà dovuto fare anche lui, anche se magari non te ne sei
mai accorto.”
Tacqui
un momento, mentre un vecchio ricordo mi attraversava la mente come
un fulmine; in fin dei conti avevo scelto io di seguire mio padre,
quando lui, proprio per evitare di sballottarmi in giro per il mondo,
avrebbe voluto che andassi a vivere con mia madre e la sua nuova
famiglia. Buffo, ero tanto arrabbiato che non avevo mai pensato di
essermela cercata un po' anch'io.
Ma
non mi bastava, come consolazione.
“Non
ho più una casa, Nino” piagnucolai “E' una
sensazione orrenda. Perfino quando mi è capitato una volta, in
Giappone, di tornare nella stessa casa in cui avevo vissuto tempo
prima, e non mi sembrava più mia, era tutto diverso. E ogni
volta è la stessa storia, non faccio in tempo ad ambientarmi
da qualche parte che mi tocca ripartire. Ormai non disfo nemmeno le
valigie... Ma la cosa che mi fa più male è non avere
più con me i miei amici, doverli sentire con il contagocce,
giusto per non farmi dimenticare. E alla fine resto solo. Sempre
solo... E adesso sono veramente stanco.”
Nino
mi guardò con un'espressione strana, dura e triste allo stesso
tempo.
“Tutti
abbiamo una casa” mi disse “Ma non parlo di quattro mura,
due mobili e un pezzetto di giardino. La tua casa è il posto
in cui sai che puoi tornare quando vuoi e sei sicuro di trovarci le
persone che ami. Le distanze non cambiano le persone, né i
loro sentimenti; tu puoi seguire tuo padre in capo al mondo, ma il
giorno i cui deciderai di tornare dai tuoi amici, i tuoi veri
amici, li troverai esattamente come li hai lasciati, pronti ad
accoglierti. E poi sei un cittadino del mondo, Taro: ovunque tu vada
lasci un po' di te a quelli che incontri e raccogli anche un po' di
loro. Un giorno metterai insieme tutto quello che hai, e ti renderai
conto di non essere mai stato solo.”
Lasciò andare la
chitarra e mi pose una mano sulla spalla, guardandomi negli occhi.
“Non
fare il mio stesso errore” disse “Tu non sei solo.
Nessuno è solo, mai. Ricordatelo.”
Avrei voluto chiedergli
che errore aveva potuto commettere, ma in quel momento mi venne
spontanea un'altra domanda.
“Lei...lei,
invece, cosa cerca?”
Nino lasciò
andare la mia spalla e guardò davanti a sé, senza
perdere la tristezza nei suoi occhi azzurri.
“I
conigli” rispose.
Quelle sono le ultime
parole che ricordo. Forse fu colpa del caldo, fatto sta che mi
ritrovai, non chiedetemi come, seduto in una vecchia osteria di
Fontvieille, puzzolente di tabacco, circondato da persone molto
preoccupate per la mia salute. Qualcuno mi stava tamponando la testa
con un panno bagnato e molto freddo. Rabbrividii.
“Ho
detto fresco, pezzo d'asino, non gelido! Vuoi provocargli uno shock
termico?!”
“Senti,
Louis, sarai anche il farmacista, ma hai la metà dei miei anni
e non hai visto nemmeno un quarto dei colpi di sole che io
ho
visto. Quindi lasciami fare, accidenti.”
“Oh,
finalmente si è svegliato! Come ti senti, ragazzo?”
chiese una donna dal viso tondo e gentile che mi stava tenendo la
mano.
“Ma
cosa vuoi che capisca, Danielle! Non vedi che è giapponese?”
Un uomo con gli
occhiali si chinò verso di me e, muovendo le labbra in un modo
buffissimo, come per articolare meglio le parole, mi domandò:
“Tu...parli...francese?”
Trassi un profondo
respiro. Mi sentivo debole e la mia testa stava ribollendo.
“Credo
che dovrei chiamare mio padre” dissi, in francese. Era una
frase stupida, lo so, ma in quel momento era tutto ciò che
volevo.
La donna gentile mi
sorrise, porgendomi un bicchiere d'acqua che bevvi avidamente.
“Mireille è appena andata ad avvertirlo” disse “E'
passato di qui a cercarti un'ora fa, era molto preoccupato.”
Mi sentii un po' in
colpa per questo. Pensai che avremmo fatto una bella chiacchierata,
quando saremmo tornati a casa.
“Come
sono finito qui?” domandai “Ero al mulino e...”
“E
ti sai fatto una bella passeggiata, direi” disse l'uomo che gli
altri avevano chiamato Louis “Sauveur ti ha trovato mentre
vagavi nel parcheggio del mulino in stato confusionale. E, da bravo
malfidente, ha pensato bene di portarti qui anziché al pronto
soccorso.”
Quest'ultima frase
aveva un tono di affettuoso rimprovero, perchè l'anziano
Sauveur sorrise bonariamente.
“E
dove avrei dovuto portarlo, a Montauban? Questo poveretto stava
friggendo! E poi te l'ho detto, le insolazioni sono la specialità
del posto...”
“E
Nino...?” dissi. All'improvviso avevo realizzato che il mio
amico chitarrista non era lì con me.
I due uomini e la donna
si guardarono tra loro.
“Nino
chi?” disse Louis “Non hai fatto altro che chiamare quel
nome fino a quando ti sei svegliato...”
“Era
con me su al mulino” dissi “Stavamo parlando... Non l'ho
nemmeno salutato...”
Sauveur inarcò
un sopracciglio. “Bell'amico, se ti ha lasciato in questo
stato” disse “Comunque al mulino non ho visto proprio
nessuno.”
“Ma
doveva esserci. Era alto e biondo, con gli occhi azzurri. Stava
scrivendo una canzone...”
Danielle ridacchiò.
“Un bell'angelo custode, direi! Poco professionale, forse, ma
se dovessi ritrovarlo promettimi che me lo presenterai, ragazzo!”
Sospirai. Non so
perchè, ma mi sentivo strano. Mi domandai se non mi fossi
sognato tutto, ma non era possibile. Le sensazioni che avevo provato
mentre parlavo con Nino guardando il paesaggio erano troppo forti per
essere inesistenti. E lui non avrebbe mai potuto abbandonarmi in quel
modo.
Ad un tratto,
guardandomi intorno, vidi, appesa ad una parete, una vecchia
fotografia in bianco e nero, in una cornice scrostata, con qualcosa
scarabocchiato sotto. Spalancando gli occhi, mi alzai di scatto dalla
sedia, che cadde sul pavimento facendo un gran fracasso.
“Nino!”
gridai, indicando la fotografia “Eccolo, è lui! Sono
sicuro che è lui!”
Guardando meglio la
foto, vidi che era addirittura autografata. Avevo ritrovato il mio
amico, e avevo scoperto che era davvero famoso! Un tipo eccentrico,
probabilmente.
Piacevolmente sorpreso,
mi voltai verso i tre, ma le loro espressioni non mi piacquero per
nulla. Danielle emise un sospiro, guardando il pavimento; Louis e
Sauveur si erano notevolmente irrigiditi, e Sauveur mi fissava, gli
occhi ridotti a due fessure.
“Tu
non puoi aver visto quell'uomo” disse Louis.
Io rimasi perplesso.
“Ma era lui, come ve lo devo dire?” sbottai “Se non
mi credete, beh, mi ha detto che è un antropologo, o qualcosa
del genere, e che vive in un altro paese, come si chiama,
Mont...Mont...”
“Montcuq”
disse Sauveur avvicinandosi a me “Quel signore si chiamava Nino
Ferrer, ed era un cantante piuttosto famoso. Per la nostra
generazione, almeno. Alla nostra Danielle piaceva molto, e anche a
me, se devo dirla tutta.” Staccò la cornice dal muro e
la guardò con malinconia.
Nino sembrava parecchio
più giovane, ma aveva la stessa espressione attenta e sincera
che ricordavo. O credevo di ricordare.
Mi bloccai un istante,
pensando alle parole di Sauveur.
“Perchè
ha detto che era...?”
domandai, temendo la risposta.
“Perchè
lo era” rispose Louis “E' morto due giorni fa. Si è
sparato con un fucile da caccia.”
Alla fine non ce
l'avevi fatta. Tua madre, con cui avevi diviso tutta la tua vita, era
morta e tu non avevi potuto sopportare di essere rimasto solo.
Avevi sessantaquattro
anni.
Era questo l'errore che
avevi commesso, Nino? L'errore che non volevi che io ripetessi?
Credevi di non aver più
una casa in cui tornare, e forse era questo che stavi cercando sulla
collina, quando invece hai trovato me; hai voluto tornare un'ultima
volta in un posto che sentivi tuo.
Ma io ho capito la
lezione, Nino.
Io tornerò a
casa, ovunque sia.
Mio padre venne a
prendermi poco dopo, ero talmente sbigottito che non riuscivo nemmeno
a piangere.
Parlammo molto, quel
pomeriggio.
Il giorno successivo,
dopo aver sistemato un po' la casa, andammo a Montauban e, oltre a
contattare una compagnia telefonica dal nome impronunciabile (a dire
la verità in quel momento non sentivo più di tanto la
necessità del telefono, ma colsi lo stesso l'occasione),
cercammo una raccolta di successi di Nino Ferrer. Sembrava che
andassero a ruba; io rimasi un po' disgustato da quelle lacrime di
coccodrillo puramente commerciali, ma comprammo lo stesso il cd.
Lo ascoltammo tutto il
pomeriggio, tenendo le finestre aperte; era bello lasciare entrare un
po' di fresco, e pensare che il vento si portasse via quelle note
leggere. Alcune canzoni erano piuttosto stupide, come “Donna
Rosa”, che sembrava una canzonetta per bambini, ma altre erano
davvero belle. A papà ne piaceva una che si chiamava “La
pelle nera”; aveva un bel suono blues molto vivace, anche se
non capivamo un accidente di quello che diceva, visto che cantava in
italiano.
Poi arrivò “Le
Sud”.
Era
esattamente come ricordavo di averla sentita canticchiare da lui. Non
avrei mai creduto che si potesse provare a cantare di cose così
semplici come cani, gatti, bambini che giocano, panni stesi, e che
potesse uscire qualcosa di così
bello.
Non lasciai finire la
canzone. Uscii di casa senza dire una parola, lasciando che le note
mi seguissero; strappai qualche fiore di lavanda dal cespuglio sotto
la finestra e dissi a papà che non sarei tornato tardi. Lui
annuì senza dire nulla; credo che sapesse dove volevo andare.
La strada per il mulino
non era così faticosa, la sera. Quando arrivai erano più
o meno le sette, il sole stava cominciando a calare e il parcheggio
era deserto.
Salii al mulino e mi
fermai davanti al punto in cui stava seduto Nino, il giorno del
nostro incontro. Quando vi deposi il mazzolino di lavanda mi sentii
un idiota; come se da quelle parti non crescesse altro.
Rimasi un attimo così,
a pensare a quella strana giornata.
“Non
so se sei venuto per me” dissi, dopo essermi accertato che nei
dintorni non ci fosse veramente nessuno “Ma grazie lo stesso.”
Poi mi sedetti,
appoggiando la schiena contro la parete calda del mulino, e restai a
guardare il sole che calava mentre il cielo diventava sempre più
scuro, annusando l'aria profumata di gelsomino e pensando a quello
che avrei raccontato a Tsubasa e agli altri appena ne avessi avuto la
possibilità.
Ad un tratto, il
silenzio fu rotto da un fruscio che proveniva da un cespuglio, un
paio di metri più in là. Rimasi immobile, trattenendo
il respiro, ma pronto a levare le tende alla svelta.
Due leprotti marroni
sbucarono fuori dal cespuglio e si guardarono intorno, saltellando di
qua e di là e arricciando i piccoli nasi. Dopo qualche istante
ne saltò fuori un terzo, un poco più audace degli altri
due perchè mi si avvicinò lentamente, a piccoli balzi,
pur mantenendo cautamente le distanze.
Sorrisi piano, come se
temessi di far rumore allargando le labbra, e, senza muovermi di un
millimetro, seguii con lo sguardo le bestioline che mangiucchiavano i
pochi ciuffi d'erba che trovavano in giro.
Il mio cuore si mise a
battere un po' più velocemente osservando quello spettacolo
talmente semplice e banale ma che, a pensarci bene, non avrei mai
immaginato potesse essere così bello. Mi vennero in mente
Daudet, che se l'era goduto il giorno del suo arrivo, e Nino, che non
aveva potuto farlo, ma a cui sarebbe sicuramente piaciuto moltissimo.
Chi non avrebbe amato una compagnia come quella?
Forse era quello che
intendeva Nino, per dire cosa significava essere del Sud.
Le lacrime cominciarono
a salirmi agli occhi e io mi sentivo leggero, ma non era commozione;
era felicità. O, se non lo era, le assomigliava davvero molto.
Continuai a guardare i
conigli che si muovevano nervosamente intorno a me; le loro code
sembravano brillare nell'imbrunire, piccoli batuffoli bianchi che
andavano su e giù ad ogni balzo. Ad un tratto, il rombo di
un'auto li fece rizzare sulle zampe, immobili e attenti. Poi, quando
il rumore si fu spento nella semioscurità, si rimisero a
quattro zampe e, com'erano venuti, se ne andarono via.
FINE
Note
di servizio:
Ero
nel sud della Francia quando ho sentito per la prima volta “Le
Sud”, tanti anni fa, ed ero sempre nel sud della Francia quando
ho saputo della morte di Nino Ferrer. Ricordo che la notizia mi aveva
colpito parecchio, soprattutto pensando alla dolcissima malinconia
estiva della canzone e alle tragiche circostanze della morte di Nino.
Ma questa storia non è nata per lui, anche se spero che mi
perdonerà per questa boiata.
Era
un bravo cantante, Nino Ferrer, anche se qui è davvero famoso
per “Donna Rosa” e “La pelle nera”. I più
giovani di voi chiedano ai genitori (era un cantante degli anni
'60!), sicuramente se ne ricorderanno. Io ne ho sentito parlare da
mio padre, collezionista di dischi incallito.
Ad
ogni modo questa storia non nasce come una ff, ma come una specie di
originale che avevo iniziato a scrivere almeno 7-8 anni fa, ma su
tutt'altro tono. Ero stata davvero al mulino di Daudet e mi ero
innamorata sia di Fontvieille che del posto, un pochino sperduto, in
cui il mulino si trovava (e si trova tutt'ora, ovviamente!). Dopo
aver letto “Lettere dal mio mulino” (che consiglio a
tutti) avevo deciso che dovevo scriverci sopra qualcosa, e pensavo di
immaginare un ragazzo, a Fontvieille per le vacanze, che prende un
bel colpo di sole andando al mulino, e incontra Daudet in persona che
gli fa rivivere i racconti delle “Lettere”.Il problema è
che non sapevo come e dove andare a parare. Poi, un bel giorno, ho
scoperto sul sito dedicato a CT “Endless Field” una
challenge in cui bisognava scrivere una storia ambientata in una
nazione qualsiasi, ma in cui la nazione in questione fosse parte
integrante.
E'
stato un attimo; Tom (anzi, Taro, anche se mi fa un po' impressione
chiamarlo con il suo vero nome! Del resto Tom Baker non è
proprio un nome giapponese, no?), Francia. Anzi, sud della Francia.
Per di più avevo messo come introduzione a quella storia
proprio “Le Sud”. Eliminai Daudet e ci misi Nino, facendo
diventare la storia un guazzabuglio di mielosa malinconia.
Forse
non vi piacerà, ma a me sì, primo perchè molti
dei sentimenti incasinati di cui parlo sono miei personali, e poi
perchè sono riuscita a scrivere la parola FINE ad una vecchia
idea. E per me è un graaaaaande passo avanti!
Grazie
quindi a Melanto, che ha avuto l'idea di quella splendida challenge
(anche se quando ho finito questa ff era scaduta da un pezzo, ma non
importa, io arrivo sempre in ritardo!) senza la quale questa storia
non esisterebbe (e sarebbe stato meglio, direte voi).
Grazie
a mio marito, a cui non faccio leggere assolutamente nulla di quello
che scrivo, e che trattiene a stento la curiosità...ma la
trattiene, spero!
Grazie
ai miei genitori per avermi portato in quel posto meraviglioso che è
la Provenza.
Grazie
a Nino Ferrer, che doveva essere un tipo davvero in gamba. Peccato.
Grazie
a quelli che, dopo aver letto questa roba, andranno a leggersi i
libri e i racconti di Alphonse Daudet e, magari, ad ascoltarsi “Le
Sud”...
...et
toujours en etè!
Baciotti
Ruby
PS:
le lepri non sono conigli, lo so. Concedetemela come licenza
poetica...
PS2:
Sauveur e Danielle sono due adorabili signori che spero di rivedere,
un giorno o l'altro, a Frontignan. Au revoir!
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