Prompt: Avatar,
Korra&Amon&Vatu&Zaheer, « Chi sei? Da
dove vieni? » « E dove vado
non me lo chiedi? ...sono il buio, vengo dal buio, vado nel buio
» (Dylan Dog,
Il buio)
Parole: 1520
Warning:
SPOILER Book 4, episodio 4.
Note:
questa storia è stata un parto perché non ho mai
scritto utilizzando Korra e avevo paura di non riuscire a gestirla, in
realtà avevo più paura che Kuma Cla arrivasse
puntandomi un coltello alla gola e urlando: "What did you do to my
baby!?". In ogni caso alla fine l'ho scritta e ho addirittura costretto
mio fratello a betarla, cosa che a casa mia significa sangue, sudore e
morte, e analisi di ogni singola parola per la ricerca dell'armonia
della frase. E anche perculamenti perenni. La storia è
ambientata durante il quarto episodio del Book 4 e analizza momenti
differenti dell'episodio come un flusso di coscienza, ma il tutto
rigorosamente in terza persona. In realtà non so nemmeno da
dove mi sia uscita, ma quando ho visto l'episodio e mi sono trovata
davanti il prompt non ho proprio potuto fare a meno di scriverci sopra.
I'm not the Avatar I used to be
A Claudia, che
oggi aveva un esame.
Korra
guarda il suo riflesso nell’acqua salmastra della palude,
sono giorni che Toph
continua a ignorarla: «Dovresti imparare a rilassarti,
sai?» le ha detto senza
girarsi verso di lei e togliendosi del cerume dalle orecchie.
Così
Korra lo ha fatto, o almeno ci ha provato, ma come si fa a rilassarsi
quando
intorno a te non ci sono altro che fango e terra? E nemmeno terra
solida, una
terra molliccia e puzzolente percorsa da rigagnoli verdi e pieni di
alghe.
Inoltre
la palude sta facendo strani scherzi alla sua mente: continua a farle
vedere
cose, cose che lei si sforza di ignorare. Le è sembrato di
vedere Amon ridere
di lei seduto sul ramo di una delle alte mangrovie e solo il giorno
prima
avrebbe potuto giurare che Vatu fosse nascosto insieme ad un gruppo di
spiriti
tra le liane; è grata di non avere ancora visto Zaheer
perché quello, no, non
sa proprio se riuscirebbe a sopportarlo. In compenso
c’è lei, lei che non la
lascia mai. Non lo ha detto a Toph, ma continua a vedersi, continua a
vedere se
stessa: la Korra che era, la Korra che vorrebbe tornare ad essere, la
Korra che
la terrorizza intimamente più di ogni altra cosa. Ha cercato
di ignorarsi il
più a lungo possibile, ha cercato di fingere di non vedere e
di chiudere gli
occhi, ma continua in ogni caso a sentire il suo sguardo giudicante
sulla
pelle.
«Se
sei così desiderosa di fare qualcosa perché non
vai a raccogliere dei funghi
per la cena?» le parole di Toph la seguono come una eco
dispettosa e Korra
vorrebbe tanto tornare indietro e risponderle che a lei nemmeno
piacciono i
funghi, ma continua a camminare senza sapere bene dove stia andando
– che alla
fine è quello che ha continuato a fare negli ultimi sei
mesi: vagare senza una
meta.
Attraversa
la cascata di liane e quando si trova di fronte ad Amon capisce di
essere in un
incubo, un terribile sogno da cui sperava di essere scappata tempo
addietro, ma
che continua a perseguitarla. E non può fuggire. E non
può andare via, perché
ovunque si giri loro sono lì. Ridono di lei. Cercano di
privarla della sua
identità, di toglierle la vita. E alla fine compare Zaheer.
Korra
sente le gambe cederle e un nodo di ansia e terrore farsi strada dentro
di lei,
bloccandole il respiro; quando si rende conto che è solo una
visione chiude gli
occhi e con fatica torna a fingere di stare bene, di nuovo.
«Il
problema è che quegli uomini erano completamenti privi di
equilibrio e hanno
trascinato i loro ideali fino all’estremo» Toph le
parla, sono giorni che cerca
di farle capire quale sia il punto e solo ora Korra inizia ad
ascoltarla, solo
adesso che è stata costretta a vedere riesce finalmente a
sentire quello che davvero
la donna sta tentando di comunicarle.
Perché
dopotutto Amon non era in torto: il suo desiderio di uguaglianza era
qualcosa
per cui era disposto a morire e forse il fatto che così
tanta gente si fosse
dichiarata pronta a seguirlo avrebbe dovuto aprirle gli occhi, forse
avrebbe
dovuto accorgersi che una società in cui tutti gli uomini
sono uguali non era solo
il sogno utopico di un pazzo visionario; suo zio Unalaq non era stato
in grado
di sopprimere la brama di potere e la corruzione che agitavano il suo
animo, ma
le motivazioni alla base delle sue azioni si erano rivelate corrette,
perché
come quel giorno le aveva insegnato Raava il bene e il male sono due
facce di
una stessa medaglia e non possono esistere l’uno senza
l’altro; poi c’era stato
Zaheer. E pensare a lui ancora faceva male, male in tutto il corpo in
cui Korra
sentiva le particelle di veleno scorrere veloci. Ma per cosa si era
battuto
quell’uomo? P’Li, Ming Hua, Ghazan erano tutti
morti, tutti si erano dichiarati
disposti a perire per una causa che la ragazza sentiva ancora di non
riuscire
davvero a comprendere: la libertà che Zaheer agognava era
qualcosa di troppo
vicino al caos perché lei riuscisse davvero ad accettarla.
Un concetto tanto scombinato
e caotico non le si confaceva: lei era l’Avatar, doveva
portare equilibrio.
Eppure una parte di lei, la parte che l’aveva spinta a vagare
per tutti quei
mesi, arrivava in qualche modo a vedere una sfumatura della
verità. Vedeva la
libertà come un viaggio senza meta, come una vita senza
responsabilità e un
futuro senza costrizioni, un mondo senza limitazioni di genere e senza
differenze sociali: cose che l’Avatar non poteva permettersi,
lussi che forse
lei si era concessa fin troppo a lungo.
«Il
tuo problema è che ti sei allontanata per troppo tempo:
allontanata dalle
persone che ti amano e allontanata da
te stessa» le aveva ripetuto Toph, prima che Ikki, Meelo e
Jinora arrivassero a
dirle che il mondo ha bisogno di lei, che c’è
ancora bisogno dell’Avatar e che
ci sarà sempre bisogno dell’Avatar, ma Korra si
rende conto che c’è ancora
qualcosa che deve fare ora che è di nuovo intera, ora che il
veleno non scorre
più nel suo corpo e che ha lasciato andare la paura.
Così,
mentre la dominatrice della terra prepara la cena, si allontana in
silenzio,
promettendo di tornare subito, di non sparire di nuovo per altri tre
anni, e
con passi leggeri e sguardo deciso torna alle radici
dell’albero Banyangrove e
si lascia cullare dall’acqua verdastra che ora non le sembra
più così puzzolente.
Ogni cosa
è collegata, pensa
chiudendo gli occhi.
E
quando li riapre loro sono di nuovo lì, Amon, Vatu e Zaheer,
ma questa volta
Korra non scappa, questa volta rimane a guardarli, rimane ad ascoltare
ciò che
la palude sta cercando di dirle.
«Chi
sei?» sente Zaheer domandarle e vorrebbe rispondere col
sarcasmo, come si è
abituata a fare negli ultimi tempi, ma si trattiene perché
dopo tutto non è
rispettoso schernire uno degli spiriti più antichi del
mondo, anche se ti parla
utilizzando come tramite il volto di qualcuno che odi.
«Sono
Korra, e tu lo sai».
Vatu
ride di lei, mentre Amon si toglie la maschera e le lancia uno sguardo
di
scherno.
«Chi
sei?» inquisisce ancora il dominatore dell’aria.
«Da
dove vieni?» aggiunge quindi il capo degli equalisti.
«Sono
Korra, della tribù dell’acqua» risponde
nuovamente la ragazza facendosi più
ardita «Chi sei tu, piuttosto? Da dove vieni? Che cosa vuoi?
Cosa vuoi dirmi?»
Vatu
ride di nuovo e le si avvicina, iniziando a vorticarle attorno.
«E
dove vado non me lo chiedi?» domanda fermandosi a pochi
centimetri dal suo
viso.
«Sono
il buio» iniziano quindi a dire le tre figure
contemporaneamente e lei non sa
chi guardare, sa solo che le loro voci rimbombano nelle sue orecchie
come se
stessero urlando «Vengo dal buio, vado nel buio. E tu chi
sei? Chi sei, Korra?»
Per
tutta risposta lei stringe i pugni e serra gli occhi, li serra
così forte che
inizia a vedere una serie di piccole luci colorate oltre
l’oscurità e quindi
capisce. Quando li riapre sono luminosi e candidi come la neve,
percepisce di
essersi sollevata da terra di qualche centimetro e sente, sente ogni
cosa.
«Io
sono Korra della tribù dell’acqua e sono
l’Avatar. Sono luce, vengo dalla luce
e porto la luce».
Improvvisamente
le figure di fronte a lei scompaiono e lasciano posto a
un’altra persona, la
stessa persona che ha continuato a seguirla, sfidarla e provocarla per
tre
interi anni. Korra si guarda negli occhi e vede il suo riflesso, il
riflesso di
ciò che è stata, sorriderle e allungarle la mano
e finalmente non ha paura di afferrarla,
non ha paura di accettare se stessa.
Quando
i suoi piedi tornano a toccare terra le acque della palude
l’accolgono come una
culla e per un breve istante lei riesce a vedere ogni cosa: vede Lin
china
sulla sua scrivania con una mano sulla fronte, vede Mako correre per la
città
trascinandosi dietro un ragazzino dall’aria terrorizzata,
vede Asami nel suo
studio, vede Tenzin al tempio dell’aria mentre stringe a
sé Pema, vede suo padre
e sua madre stretti in un abbraccio con il cuore pesante per la sua
assenza,
vede Bolin su un treno in corsa e Toph e Jinora, con Ikki e Meelo, che
l’aspettano nella grotta a poche centinaia di metri da lei.
Così
Korra torna indietro, questa volta il suo animo è un
po’ più leggero e dentro
di sé è consapevole che il peggio è
passato, e anche se tornare a casa non sarà
facile sa che può farcela, sa che deve farcela: il mondo ha
bisogno di lei.
Ed
è vero, Korra non è la stessa.
Non sono
l’Avatar che ero
prima.
È
una persona nuova, una persona diversa, una persona che si era persa e
che ha
fatto un viaggio lungo ed estenuante per ritrovare la strada. E da
viaggi come
quello non si torna indietro uguali, perché il tempo ha un
suo modo di cambiare
le cose e di cambiare gli esseri umani: fa percepire loro cose che
prima
sembravano incomprensibili, li fa maturare e li spinge ad aprire gli
occhi. E
lei questo lo ha capito, spera solo, ora che ha ritrovato il suo
centro, di
riuscire a farlo capire anche al mondo.
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