Erano stati catturati. Erano stati catturati dalle forze turche.
C’era voluto un mese per programmare la rivolta, ma tutti i
loro sforzi non erano serviti a niente. Molti di loro erano rimasti
uccisi o gravemente feriti durante le lunghe ore di sanguinosa
guerriglia, mentre altri erano stati presi e rinchiusi nelle carceri.
Avrebbero preferito morire insieme ai loro compatrioti difendendo
l’autonomia del proprio popolo, invece no. Loro erano stati
presi e la loro sarebbe stata una tragica fine: non difendendo il
Kurdistan, non lottando per la loro meravigliosa terra, ma trucidati
come vigliacchi e traditori. Erano tutti ammassati in una cella che
odorava di muffa, come animali chiusi in gabbia. Non sapevano neanche
quanto tempo fosse passato da quando le milizie turche li avevano
catturati. Ore, giorni, settimane… era impossibile dirlo con
certezza. Erano in quindici, in quella cella: nove uomini, tre donne e
tre ragazzini dall’aria imbronciata, che avevano lottato e
avrebbero continuato a lottare ancora per molto nonostante il
patriottismo fosse ancora soltanto un germoglio nella terra fertile del
loro giovane animo di adolescenti.
La porta delle prigioni si aprì cigolando, e la guardia
carceraria rientrò nel corridoio appena illuminato, facendo
roteare il mazzo di chiavi con un dito della mano destra.
C’era un uomo con lui, alto e robusto, dall’aria
severa e al tempo stesso orgogliosa di chi è convinto di
avere ragione e ne ha le prove. La guardia si fece da parte, lasciando
che l’ufficiale si avvicinasse ai ribelli.
-C’è qualcuno qui che sa parlare turco?-
domandò.
Un uomo si fece avanti, mentre gli altri si scostavano per lasciarlo
passare. Sembrava che nutrissero una sorta di premuroso rispetto nei
suoi confronti.
Era alto, atletico, elegante pur se malconcio. La lente sinistra degli
spessi occhiali da vista si era rotta durante lo scontro e sulla fronte
aveva un grosso livido violaceo. Il naso era in parte ricoperto di
sangue rappreso e aveva un labbro spaccato.
-Io- rispose l’uomo, scrutando l’ufficiale con aria
spavalda.
-Qual è il suo nome, signore?- tuonò quello,
sinceramente incuriosito dal giovane.
-Il mio nome non ha importanza. Io sono soltanto uno fra tanti, e il
mio unico desiderio è quello di una patria in cui vivere e a
cui essere fedele.
L’ufficiale rise.
-Voi non siete nulla, siete soltanto poveri illusi, stranieri ovunque
andiate e perdenti dalla nascita, ecco cosa siete.
- Lei ha ragione, ufficiale. Noi siamo uomini e donne di
povertà. Noi siamo gli sconfitti, i battuti, i vinti. Se
perdiamo, non perdiamo niente. Noi siamo gli stranieri.
Ovunque siamo, noi siamo sempre fuori. Lei ha ragione, signore. Noi, io
e il mio popolo, non siamo niente. Ma non smetteremo mai di lottare per
diventare qualcuno. Mai.
L’ufficiale spalancò gli occhi, oltraggiato.
-Lei è soltanto un povero mendicante, non ha alcun diritto
di rivolgersi con questo tono a un uomo del mio rango!
-Con tutto il rispetto che il suo rango merita, mio signore, io non
sono un mendicante. Sono un professore di lettere.
-Lei ha superato ogni limite- sibilò l’ufficiale,
dopodiché fece un cenno alla guardia e si
allontanò con le dita intrecciate dietro la schiena.
Il soldato aprì la cella e afferrò il giovane per
un braccio.
-La prego di seguirmi, signore- disse con tono ironico, accennando un
sorriso maligno. L’uomo non si tirò indietro, anzi
si fece avanti e lo seguì senza indugio. I due si
allontanarono nella penombra, con addosso gli sguardi speranzosi dei
prigionieri, e uscirono dalla porta da cui poco prima era uscito
l’ufficiale.
Nessuno vide più il professore varcare quella
porta.
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