Fortunatamente
mancava poco alla fine dell'anno, e i successivi consoli Proculo
Olcinio
Spartico e Canuzio Valgo, erano coscienti della gravità
della situazione e
dichiararono lo stato d'emergenza (eas
res tumultum). Non vennero però prese eccessive
misure di sicurezza. E ciò
si rivelò una scelta sbagliata.
Una
notte di quintilio (antico nome del
mese di luglio) scoppiarono tre incendi simultanei nella capitale: uno
al
palazzo del Senato, uno all'antico tempio di Zeus Laziale, meta di
pellegrinaggio da tutta la repubblica, e un altro al tempio di Giano.
Fortunatamente
quello al Senato fu domato dopo poco, mentre quelli ai templi no.
All'alba il
fuoco al tempio di Zeus continuava a bruciare, mentre quello al tempio
di Giano
era stato domato a fatica.
L'ammontare
dei danni venne calcolato la settimana successiva. Al Senato i danni
erano
stati trascurabili, ma non negli altri luoghi. Il tempio di Giano era
stato
distrutto per più di metà, mentre quello di Zeus
era andato completamente in
fumo. La cifra per ricostruire il tutto ammontava a più di
ventimila aes gravi, tantissimo per
l'epoca.
Il
fatto che gli incendi erano stati dolosi era stato appurato fin da
subito.
Questo bastò perché utte le legioni venissero
mobilitate e poste a guardia
della capitale, mentre tutti i municipali ricevettero messaggi di
allarme che
invitavano a monitorare chiunque uscisse e chiunque entrasse nelle loro
città.
Ci si aspettava un attacco nemico da un momento all'altro, anche se non
si
sapeva bene da chi.
Questo
arrivò, ma non prima dell'anno successivo. Furono mesi di
paura, quelli che
intercorsero fra il 564 e il 563 a.C. La
popolazione aveva paura ad uscire di casa, e
pattuglie di soldati marciavano costantemente per le strade, giorno e
notte,
per controllare l'identità di eventuali vagabondi. Il panico
scoppiò quando
giunse la notizia di una battaglia.
Lo
stagno di Melinie si trovava a
qualche chilometro a sud di Caractae,
in una posizione intermedia tra la città e Roma. Quando
l'anno prima le legioni
erano state mobilitate, una coorte della Legio
III era rimasta in città per fare la guardia al
centro abitato. Era però
arrivato l'ordine di rientrare nella capitale da parte dei neoconsoli
Terzio
Grazio Petro e Appio Quintilio Minervale, i quali intendevano serrare
la
sorveglianza nell'Urbe.
Erano
state richiamate truppe anche dalle altre città sedi di
legione, fra le quali
anche la coorte di Antemnae guidata
dall'ufficiale Massimo Balvenzio Umile. Egli conosceva il comandante
della
coorte rimasta a Caractae, ovvero
Nono Marcio Melo. Per questo motivo si erano accordati per riunirsi a
circa un
chilometro dalla capitale per serrare i ranghi ed entrare insieme.
Questo
appuntamento era stato previsto per il pomeriggio del 14 settembre. La
mattina
del 15 non si era ancora visto nessun legionario appartenente alla Legio III. Umile, allarmato, decise di
mandare degli esploratori a controllare la posizione di Melo. Questi
tornarono
nel pomeriggio, e non poté credere alle proprie orecchie.
Mobilitò i propri
uomini e si mosse verso la direzione indicatagli dagli esploratori.
Quando
arrivò allo stagno di Melinae
gli si
presentò davanti un vero e proprio bagno di sangue. Romano.
L'accampamento di
Melo era stato distrutto, e l'erba era fradicia di sangue. Le acque
dello
stagno stesso erano rosse e piene di corpi galleggianti. Non era
sopravvissuto
della coorte di Nono Melo.
Umile
fece esaminare tutti i corpi prima di erigere una pira funeraria, e
tutti
risultarono avere il segno identificativo della Legio
III, ovvero un piccolo simbolo dell'aquila cucito sul
vestito. Ciò voleva dire che chi li aveva attaccati non
aveva subito perdite, e
ciò era ancora più disturbante.
Umile
si diresse subito verso Roma e avvertì tutti dell'accaduto.
Il console Petro
svenne quando gli venne comunicato ciò. Minervale, che
invece aveva più sangue
freddo, chiese di farsi portare sul luogo del massacro. Vi arrivarono a
tarda
sera, e, nonostante il parere sfavorevole di molti soldati, il console
decise
di accamparsi lì per esaminare tutto il mattino seguente.
Nella
notte si ripeté probabilmente lo stesso copione di quanto
era successo a Melo e
ai suoi uomini. I romani vennero attaccati da tutti i lati, e molti
vennero
massacrati. Melo e Minervale, svegliati dal clamore della battaglia,
mantennero
la calma e assieme ad un manipolo di uomini si concentrarono al centro
dell'accampamento rappresentato dal bivacco, armati di torce e di
lance. Quando
vennero anch'essi attaccati combatterono furiosamente, e seppero tenere
impegnati gli assalitori fino all'alba. Il sorgere del sole fece
dileguare gli
sconosciuti nemici, mentre i romani crollarono a terra esausti. Il
console
Minervale invece si mise a contemplare il corpo di un nemico appena
abbattuto.
Non indossava armatura, ma portava solo una spada ed uno scudo, sul
quale vi
era rappresentato il sole che sorge. Il simbolo di Alba Longa.
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