Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di: sir
Arthur Conan Doyle, Mark Gatiss, Steven Moffat ed il network BBC.
[Sherlock
& John; What if dell’episodio 1x03;
Drammatico-introspettivo, angst]
Dead man walking
La più
orribile delle infermità è la mancanza di cuore
Jean Cardonnel
Il mare era
cupo e gorgogliante di schiuma. Le dense nubi plumbee si stagliavano
nel cielo, ormai svuotate del loro carico di roboanti tuoni e scoppi di
folgori. Si disperdevano, mosse dal vento, con la stessa misurata
lentezza di un corteo funebre. Qualche lampo ametista illuminava ancora
l’etere con il suo bagliore, gettando uno spiraglio di luce
in quel grigiore altrimenti soffocante.
Le onde mi
sollevavano e sballottavano mentre provavo a tenermi ben saldo ad
un’asse di legno, un misero appiglio di quello che ormai era
il relitto del vecchio brigantino sul quale viaggiavo.
L’albero
maestro, con un ultimo, agonizzante rantolo, si spezzò per
poi sprofondare nei flutti oscuri assieme alle sartie, come una croce
che cade sotto il peso del peccato e distrugge l’ultimo
baluardo di fede e speranza dell’anima.
Anche la
galea cedette, si inarcò e si inabissò generando
un’onda che mi spinse ancora più lontano.
Ero
stremato, la battaglia contro la tempesta mi aveva privato di ogni
energia. Ad ogni istante che passava, sentivo i cancelli del reame
della morte sferragliare sui cardini arrugginiti e aprirsi per
accogliermi come nuovo ospite, trascinato alla deriva dalla corrente.
Con il
respiro mozzato dal freddo delle acque, in lontananza vidi emergere
dalla nebbia un vascello. La prua fendeva in due le onde di quella buia
marea, attraversando i resti della nave e spazzandoli via alla stregua
di misere foglie in balìa del maestrale.
Sollevai la
testa e, con le ultime forze che mi rimanevano, in un muto grido
d’aiuto, allungai una mano in direzione della nave dalle vele
rosso cremisi.
“Rosso,
come il sangue sparso sul pavimento bianco.”
La debolezza
mi fece annebbiare la vista ma, quando riuscii a recuperarla, i miei
sensi ormai moribondi riacquistarono un barlume di vigore e seppi che lui era
lì.
Mi fissava
con occhi malevoli e sapevo che con quella semplice occhiata stava
scandagliando la mia anima con tutta l’abilità di
un chirurgo.
Mi stava giudicando.
Con
avidità ed ingordigia scrutò nel mio essere e in
quel momento seppi che mi aveva trovato un posto.
La nave
gettò in mare le sue reti per catturare i resti degli
annegati. L’esiguo numero di persone che nella mia vita erano
state importanti, che mi avevano fatto nascere, che mi avevano fatto
dono della loro amicizia e dei loro insegnamenti, che contavano, erano
lì.
Occhi spenti
e vitrei, corpi gocciolanti, pelle bianca, raggrinzita e gonfia, labbra
blu violacee.
Inorridii di
fronte alla consapevolezza che l’essere sopravvissuto sanciva
la mia condanna ad un destino peggiore.
E lo meritavo.
Gli occhi
dell’uomo sul ponte, che ora potevo distinguere essere di un
blu acceso, brillavano come fuochi fatui su un cimitero di lapidi
sommerse. Continuava ad osservarmi, ma se quegli occhi mi avessero
cercato di proposito o si fossero posati su di me per caso, non potevo
saperlo.
Io aspettavo
lui o lui me?
“Sherlock.”
Il mio animo
si riempì di terrore. Quella voce…capii
ciò che voleva, ed era più di quanto potessi
dargli.
“Sherlock.”
Sotto il
peso di sensi di colpa che laceravano la mia anima al ricordo di quella
morte che avevo causato, agonia e sfinimento unirono gli sforzi contro
di me, trionfando.
Le gambe
divennero pesi di piombo e le mani allentarono la loro presa,
scivolando sulla superficie levigata del legno.
Vidi il mare
chiudersi sopra di me ed inghiottirmi, avvolgermi nel suo tetro
abbraccio, accogliermi nella sua oscura viscera.
“Sherlock.”
Il mio nome,
l’ultima parola che udii mentre la vita abbandonava il mio
corpo.
E
suonò come un richiamo per i dannati.
*
Qualcosa, da
qualche parte, stava suonando.
“Non una canzone, un
trillo. È lo squillare insistente di un cellulare.” Elaborò
la sua mente ancora annebbiata dal sonno.
Emerse dalle
coperte e si mise supino. Aprì piano gli occhi e
aspettò che il mondo tornasse nella giusta prospettiva,
cancellando i contorni sfumati del regno del sogno. Un pallido raggio
di sole filtrava dalla tenda di quel colore bianco sporco che sua madre
aveva tanto insistito a comprargli.
Richiuse gli
occhi, non era il sole che voleva. Voleva tornare nella sua caverna
oscura, rifugiarsi nell’angolo più buio e remoto
del suo palazzo mentale.
Il cellulare
smise di squillare e lui emise un sospiro di sollievo.
Si
portò il braccio agli occhi e, con il dorso della mano,
sfiorò la fronte: la trovò madida di sudore.
“Avresti
dovuto rispondere.”
Dalla sua
posizione rilassata, si irrigidì di colpo, il corpo percorso
da un brivido freddo. Aprì gli occhi e si voltò
in direzione della voce.
In piedi,
accanto al comodino, c’era John.
Il telefono
riprese a squillare.
“Chi
è?” borbottò tirandosi a sedere.
Assottigliò le palpebre per evitare che il sole gli ferisse
gli occhi. Li sentì ugualmente bruciare come se fossero
trapassati da un pungolo.
Da quando
era diventato così fotosensibile?
“Lestrade.
Dovresti rispondere, Sherlock.”
Il detective
annuì, ruotò il busto in direzione del cellulare,
sporse il braccio per afferrarlo ed accettò la chiamata. La
sua espressione divenne mortalmente seria. Scambiò delle
stringate parole con l’ispettore, un indirizzo ed un lasso di
tempo per poi terminare la conversazione.
John
continuava a fissarlo a braccia conserte, improvvisamente preoccupato.
“Non
devi andarci per forza, hai una pessima cera.”
Sherlock non
si prese la briga di rispondere, si alzò e si diresse verso
il bagno, ignorando il caos totale in cui versava la sua camera da
letto. La sua mente registrò solo dei particolari.
I peggiori.
Il cucchiaio
ormai bruciato dalla fiamma che giaceva sulle coperte, le bottiglie
d’acqua vuote, il laccio emostatico abbandonato sul comodino,
le piccole bustine di plastica accartocciate e gettate sul pavimento
assieme ad uno dei tanti completi eleganti. Da qualche parte,
constatò, dovevano esserci anche delle siringhe che, in quel
momento, erano nascoste chissà dove.
Nascoste,
come i mostri sotto al letto e dietro le porte del suo palazzo mentale:
arrancavano nel buio, tendendo i loro artigli e spalancando le loro
fauci che esalavano effluvi mefitici, pronti a spezzare
l’ultimo filo di sanità mentale che lo teneva
ancorato al presente.
Chiuse la
porta del bagno, si liberò dei vestiti inzuppati di sudore e
si sistemò nella vasca.
Trasalì
a contatto con la fredda ceramica, ma si costrinse a rilassarsi.
Aprì
il getto d’acqua calda per lavarsi via di dosso la
spossatezza e l’odore acido dei suoi stessi succhi gastrici
nella bocca.
Non aveva
detto a John del suo incubo.
Non gli
aveva detto che l’aveva visto sul ponte della nave,
incarnazione stessa della tenebra, venire a reclamare la sua anima e
soddisfare la propria vendetta.
Non gli
aveva detto di aver visto morire anche gli altri senza poter fare nulla
per salvarli.
Richiuse gli
occhi intenzionato a scacciare le immagini del suo incubo. Si immerse
fino ai capelli nella vasca e restò lì, fermo,
con il respiro bloccato in gola, in un limbo galleggiante di pace
fittizia.
Quando
uscì dalla vasca, un lieve tremore scuoteva le sue mani
mentre provava a vestirsi. La sua immagine, riflessa nello specchio,
rimandava le fattezze di un viso che non riconosceva come suo: era
dimagrito, il volto, già spigoloso, era diventato una
maschera appuntita, le labbra, una volta piene, si erano trasformate in
un terreno riarso, secche e sottili. Persino gli occhi, un tempo
caratterizzati da un cangiante e vibrante verde azzurro, erano coperti
da un velo opaco e febbrile.
“Sherlock,
sbrigati o farai tardi.” Lo ammonì la voce di John
al di là della porta.
“Sì,
sono pronto.” Replicò atono prima di aprire il
mobiletto delle medicine e prendere una manciata di tranquillanti.
Inspirò
profondamente e, quando uscì dal bagno, John era scomparso.
Dove fosse
andato, non lo sapeva.
Prima di
recarsi sulla scena del crimine, Sherlock salutò un
appartamento vuoto.
*
Lestrade
sollevò la striscia gialla che circoscriveva
l’area interdetta del Battersea Park, mentre un piccolo
capannello di ficcanaso cercava di sbirciare, spinto dalla
curiosità.
“Stesso
modus operandi?” chiese Sherlock mentre si dirigeva verso il
luogo del ritrovamento.
L’ispettore
al suo fianco annuì.
“È
stata trovata dal guardiano del parco questa mattina. Galleggiava con
il viso riverso nel lago.”
Sherlock si
avvicinò al corpo della donna che giaceva
sull’erba per esaminarlo. Era giovane, non doveva avere
più di venticinque anni.
“La
causa della morte non è l’annegamento e questa non
è la scena del crimine primaria, ma solo il luogo
dell’abbandono. Anche a lei è stato asportato
qualcosa.”
Il viso di
Lestrade mutò in un’espressione di estremo
disprezzo e disgusto.
“Holmes,
ci troviamo davanti ad un sadico psicopatico seriale: le è
stato asportato il cuore.”
“Il
cuore...come alle altre è stato preso il cuore...”
mormorò Sherlock cercando di aggiungere anelli alla sua
catena di ragionamenti.
“E tu, Sherlock? Tu ce
l’hai un cuore?” la
voce di John risuonò fastidiosa nella sua testa. La
scacciò con un gesto del collo.
“Fammi
avere al più presto il referto autoptico.”
Ordinò prima di voltarsi per andare via ma Lestrade lo
trattenne.
“Sherlock,
dammi qualcosa su cui lavorare, non riuscirò a tenere la
stampa e i superiori a bada per sempre.”
L’atteggiamento
quasi implorante dell’ispettore, i cui occhi elemosinavano
una briciola di aiuto, gli procurò un moto di orgoglio.
“Vanità.” Lo
corresse John.
Era bello
essere l’unico detentore della conoscenza, arrivare dove gli
altri non potevano spingersi con il solo ingegno della mente.
“Superbia.” Insistette
la voce del dottor Watson.
“Il
soggetto che dovete cercare è un maschio bianco, tra i 25 ed
i 35 anni, uno che non si nota a prima vista, capace di confondersi tra
la folla. La natura violenta dei crimini suggerisce che abbia la fedina
penale sporca, microcriminalità, magari piccoli furti.
È un assassino organizzato: prudente, segue la cronaca,
è attento all’igiene, furbo…e visto che
è furbo le uniche prove fisiche che troviamo sono quelle che
lui vuole lasciarci. Ha una macchina in buone condizioni, forse con i
vetri scuri per poter trasportare i corpi nei luoghi di abbandono. Deve
avere una storia di paranoia prodotta da un trauma non superato, magari
la morte di un genitore, di uno della famiglia o un amico. Attraverso
l’omicidio deve soddisfare una pulsione o compensare una
mancanza, un bisogno viscerale, un disperato senso di potere. Gli
assassini organizzati provano un grande interesse per
l’applicazione della legge, è come se volessero
inserirsi nello svolgimento delle indagini. Possono arrivare a fingersi
testimoni per scoprire cosa sa realmente la polizia, questo li fa
sentire dominanti, controllanti...quindi è anche possibile
che l’abbiate già sottoposto ad un interrogatorio
o che sia stato presente su tutte le scene del crimine.”
“Qualcuno
come te, Sherlock.” gli mormorò John
all’orecchio. Il detective deglutì, la gola era
diventata improvvisamente disidratata.
“Bene,
grazie Holmes, questo ci sarà d’aiuto.”
Il detective
fece un cenno di congedo all’ispettore ed andò via.
*
Il 221B di
Baker Street era silenzioso. Sherlock varcò la porta
d’ingresso ed un capogiro lo colse. Cercò il
sostegno del muro e della mobilia, riuscendo con parecchi sforzi ad
arrivare al divano, sul quale si stese con poca grazia.
Poi
cominciarono i brividi di freddo. Afferrò la coperta che
teneva sulla spalliera e vi ci si avvolse dentro, continuando a tremare.
Con estrema
lentezza riuscì ad alzarsi e a trascinarsi verso il bagno,
dove vuotò la boccetta di calmanti e poi strisciò
fino al letto.
Con le
palpebre pesanti, stanco e spossato, il mondo cominciò ad
assumere toni indefiniti e si addormentò.
*
Quando
riprese conoscenza era ormai notte fonda e la crisi di astinenza stava
tornando.
Doveva
combatterla, doveva resistere. Il sudore scendeva dalla tempia
solcandogli la linea del collo, le articolazioni bruciavano come se
qualcuno lo stesse marchiando a fuoco.
Si
rannicchiò in posizione fetale, digrignando i denti in preda
a spasmi sempre più forti.
“Hai
visto, Sherlock? C’è la luna piena
stanotte.”
“Vattene
via, John.”
Il dottore
gli si avvicinò, sedendosi sul letto e posandogli la mano
sulla spalla. Aveva uno sguardo comprensivo, un sorriso gentile ed
incoraggiante, come quelli che soleva rivolgergli quando qualcosa lo
turbava.
“Non
posso andarmene, Sherlock. Io sono qui.” La sua mano si
spostò sul capo in una carezza leggera e delicata.
“Esci
dalla mia testa!” gli gridò contro il detective,
balzando dall’altra parte del letto, mettendo quanta
più distanza poteva tra lui e quell’uomo.
John
guardò dapprima con livore la figura rannicchiata ed
ansimante contro il muro, ma poi la sua espressione si
ammansì, regalandogli un sorriso docile ma al contempo
malevolo.
“È
una notte troppo bella per litigare, Sherlock. Dovremmo uscire e andare
a bere qualcosa, tu ed io. Dovremmo cercare di dare giustizia a quelle
ragazze.”
Il detective
si appiattì contro la parete, tenendosi il capo tra le mani,
oscillando leggermente.
“Esci
dalla mia testa, esci dalla mia testa, esci dalla mia
testa...” ripeteva come una nenia.
“Avanti,
Sherlock, tu non vuoi che io vada via, vero? Non hai intenzione di
scacciarmi…per farlo dovresti soltanto estrarti il cervello.
E tu ci tieni al tuo cervello, no? È il cuore che ti manca,
per questo dobbiamo uscire a cercarne uno.”
“No!”
sbottò il detective. “Io ho un cuore, non me ne
serve uno nuovo!”
“Ne
sei sicuro? E dimmi, signor saputello, dov’era il tuo cuore
quando Moriarty mi ha fatto saltare in aria? Tu mi hai lasciato morire
pur di risolvere un caso e catturare un criminale. Hai lasciato che il
peccato di presunzione vincesse sull’amicizia.”
Le parole
velenose scatenarono un flash nella mente di Sherlock che
sgranò gli occhi, impietrito.
Rivide
se stesso camminare sul pavimento bianco piastrellato della piscina,
con le mani intrecciate dietro la schiena si rigirava tra le dita una
pendrive.
Cominciò
una filippica sfrontata, che trasudava scherno e derisione,
all’indirizzo di Moriaty.
Le
parole, però, gli morirono in gola alla vista di John e di
ciò che traspariva sotto il giaccone che indossava.
E
poi il confronto con Moriarty, i suoi discorsi beffardi.
“Ti
brucerò il cuore.” Gli aveva ringhiato contro e
lui era rimasto impassibile.
“Mi
dispiace, ma ho saputo da fonte certa che non ce
l’ho.”
“Ma
sappiamo entrambi che non è così.” Gli
aveva risposto Jim provocatorio.
Con
la pistola ancora stretta tra le mani a seguire ogni suo movimento,
Sherlock lo vide allontanarsi di qualche passo, un sorriso stampato sul
volto.
E
prima che il suo cervello potesse dedurre alcunché, Moriarty
premette il detonatore.
La
conflagrazione lo fece cadere riverso di schiena qualche metro
indietro. Con le orecchie che fischiavano, Sherlock si
sollevò e, senza pensare, gridando il nome di John,
sparò a sua volta, svuotando il caricatore.
La
risata del consulente criminale si spense mentre il suo corpo si
accasciava al suolo, privato della vita.
Sherlock
si avvicinò a quello che una volta era stato il suo migliore
amico, John Watson. Cadde sulle ginocchia accanto al suo corpo
devastato, posò le mani sul pavimento, senza sentire
veramente la sensazione del caldo viscoso che le avvolgeva.
Stette
lì fino a quando non arrivò suo fratello, con la
sola compagnia di lacrime amare che credeva essere incapace di versare,
e della sua anima che si lacerava al ritmo in cui le scanalature del
pavimento e l’acqua della piscina si riempivano del sangue di
John Watson.
“Tu
non sei reale, devi andare via, io non posso, non posso...”
la voce di Sherlock si ridusse ad un sussurro incrinato.
“Certo
che sono reale. Guarda, lo senti il calore delle mie mani sulla tua
pelle? Smetti di tremare, Sherlock. Sai cosa devi fare per far passare
questo dolore. Devi trovare un cuore e solo così sarai in
pace.”
Il detective
sollevò gli occhi, incrociando quelli benevoli del suo amico.
“Solo
così...” mormorò.
“Solo
così.” Ripeté John.
Sherlock si
alzò e cominciò a raccogliere il necessario.
Aprì il comodino, prese la dose ed una siringa.
Recuperò il cucchiaio e, con l’aiuto di un
accendino, sciolse il contenuto della bustina mischiandolo a
dell’acqua distillata. Strinse il laccio emostatico attorno
al braccio con i denti, aprì e chiuse la mano per far
aumentare la pressione del sangue.
Si sentiva
un cacciatore d’oro all’inferno, alla ricerca della
vena fortunata.
Quando ci fu
riuscito, iniettò la sostanza e si rilassò contro
la parete del muro.
Il suo
tormento fu spazzato via da un’ondata di euforia alla quale
non poteva resistere.
“Va
meglio, non è vero?”
“Sì,
John.” Esalò con l’ombra di un sorriso
che gli incurvava le labbra.
“Vieni,
adesso andiamo a cercarti un cuore nuovo.”
Sherlock
afferrò la mano di Watson e sparì nel cuore della
notte londinese.
*
La ragazza
non oppose resistenza, fu facile per lui convincerla a seguirlo.
Ora, con le
mani ferme e decise, i guanti e la sua lama, era pronto per il passo
finale.
John lo
osservava, compiaciuto.
Il coltello
affondò nella carne come se fosse stata di burro, il sangue
cominciò a scorrere scivolando nei solchi della grata sotto
di lui.
Una volta
che la sua operazione fu completa, prese un barattolo che aveva
precedentemente riempito con della formaldeide e vi pose con estrema
attenzione il cuore all’interno, maneggiandolo con la stessa
delicatezza e reverenza riservata ad oggetti di inestimabile valore.
Lo vide
galleggiare per poi fermarsi al centro del recipiente.
“Come
ti senti?” gli chiese John, seduto a terra, in un angolo di
quella casa isolata.
Sherlock
rifletté per un istante. L’adrenalina viaggiava
veloce nel suo corpo, facendogli vivere un’esperienza molto
simile ad un salto dal tetto di un palazzo a braccia spalancate.
“In
pace. Credi che questo sia...un peccato, John? Tu hai mai provato
niente di simile?”
“Sherlock,
io credo che se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati,
rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di
originalità.” Sorrise per poi guardare il trofeo
all’interno del contenitore. “Adesso hai un cuore
nuovo.”
Sherlock si
lasciò andare ad un sospiro di puro sollievo.
L’effetto indotto dalla droga stava svanendo e presto i
demoni sarebbero tornati a tormentarlo. L’avrebbero
trascinato lontano dalla luce della coscienza del reale e scaraventato
in un pozzo di profonde, inconoscibili tenebre.
L’oblio
lo stava chiamano e lui era ben felice di rispondergli.
Con palpebre
pesanti e libero dai sensi di colpa, lo accolse con piacere.
*
La notizia
dell’arresto di Sherlock Holmes ebbe un’eco di
rilevanza internazionale. L’ispettore Lestrade venne radiato
dalla polizia, la sua testa fu la prima a saltare perché
aveva permesso ad un serial killer di occuparsi di indagini ufficiali.
Al suo posto
subentrò il sergente Sally Donovan che, appoggiata dal capo
della scientifica Anderson, aveva da sempre sostenuto
l’implicazione del ‘geniaccio’ nei
delitti.
Chi, meglio
di Holmes, corrispondeva al profilo?
La notte
dell’arresto il detective, ormai sull’orlo del
collasso, venne trovato riverso sul pavimento di casa sua, una siringa
stretta nella mano, in overdose da eroina.
Durante il
processo la corte stabilì che fosse ricoverato in un
ospedale psichiatrico criminale.
Il suo
psichiatra, dopo una serie di sedute, diagnosticò che il
paziente Sherlock Holmes era affetto da un disturbo raro, noto come
sindrome di Cotard. Questa, aggiunta al trauma di aver assistito alla
morte del suo amico, il medico John Watson, era stata il fattore
scatenante della follia omicida.
Con il
passare del tempo, questi elementi erano sfociati in allucinazioni che
avevano assunto le fattezze di John Watson.
La sua
personalità deformata, dominante, aveva cominciato a
prendere il sopravvento nella mente di Sherlock, arrivando a creare un
vero e proprio sdoppiamento.
John,
infatti, negò di aver commesso gli omicidi, imputandoli a
quella che era diventata la personalità remissiva, ossia
Holmes.
Divorato dai
sensi di colpa per non essere riuscito a salvare il suo amico, Sherlock
aveva cominciato ad abusare di droghe che avevano acutizzato il suo
disturbo dissociativo dell’identità e la sua
sindrome di Cotard, facendogli credere che non avesse un cuore.
E per
Sherlock, additato più volte di essere una macchina fredda e
senza sentimenti, il sentirsi dire da John di non avere un cuore, era
la più terribile delle accuse.
Perché
lui era morto e solo un cuore poteva riportarlo alla vita.
Note
-
La descrizione del profilo dell’assassino
è tratta dall’episodio 1x01 di Criminal Minds.
-
Il dialogo flashback Sherlock - Moriarty è tratto
dall’episodio 1x03 della serie.
-
“Se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri
peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di
originalità” cit. di Khalil Gibran.
-
La sindrome di Cotard conosciuta come Sindrome Walking Corpse
o del cadavere che cammina, è una rara patologia
psichiatrica caratterizzata dalla presenza del cosiddetto delirio di
negazione, che spinge chi ne è colpito a convincersi di aver
perso alcuni dei propri organi e di essere morti. Cotard
definì che tale sindrome è accompagnata da
sentimenti di colpevolezza, intenzioni e ideazioni suicidarie.
Nonostante egli, nei suoi lavori scientifici, ritenga che il delirio di
negazione esprima un disturbo depressivo, è pur sempre vero
che la sindrome che da lui prende il nome, è stata osservata
anche nel corso di disturbi psicotici, disturbi bipolari e in altre
condizioni organiche, come traumi cranici, sclerosi multipla, tumori
cerebrali, lesioni cerebrali causate da sostanze stupefacenti.
***
Salve!
Non datemi
mai una settimana pesante, un vecchio episodio di Hannibal e la notizia
che Benedict Cumberbatch si sposa che il mio cervello parte per la
tangente, partorendo mostruose e angstiose (?) e psicologicamente folli
one shot.
Scherzi a
parte, avevo scritto questa…cosa per partecipare ad un
contest, ma avendo il cervello nocciolina ho dimenticato la data di
scadenza per iscrivermi e quindi tanti saluti al secchio.
Così l’ho lasciata a fare la muffa nel pc e solo
oggi mi è venuta la brillantissima idea di revisionarla e
pubblicarla.
La sindrome
di Cotard, come dicevo poche righe sopra, mi è stata
ispirata dall’episodio 1x12 della serie Hannibal.
Chi mi segue
sa del mio amore morboso per il cannibale e il consulente detective
<3 (che questa volta è di un OOC allucinante ma ehi,
ha parecchi problemi alla sua deliziosa testolina riccioluta)
Detto questo
vi lascio alle sentenze, spero sia stata una lettura piacevole.
See ya
dearies and thank you for reading!
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