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22/11/2014:Qui
valgono le stesse note dell'aggiornamento precedente: questo
capitolo
è nato a causa della revisione che sto operando su questa
fanfic.
Sto cercando di sistemare il prossimo ma
è dura perché è un casino e io sono
distratta dall'ispirazione per una
mezza AU a sfondo Kisshu x Minto che mi ha colta a caso ieri notte.
E tipo vorrei ragionare sulla AU e revisionare questa fanfic, ma nel
mentre ho anche anche da studiare e svolgere delle commissioni di
lavoro.
E non ce la posso fare. *dies*
Ma pensando al presente, credo di non essere mai riuscita a inquadrare
bene il mio oc intp alieno complessato preferito, e da questa
considerazione sono nate le modifiche a questo capitolo.
Cliché level is over 9000, ma in queste pagine ci ho messo il
cuore
perché voglio dedicarle a Fan of the Doors,
che da settimane per questa fanfic è il mio sostegno morale.
Credo che senza le sue osservazioni e le sue parole di incoraggiamento
non
sarei mai arrivata fin qui.
Non saprò mai come ringraziarla abbastanza.
- Capitolo 35 -
La
cosa più frustrante per Ai era che, pur avendo lavorato
duramente per scoprire la vera identità del Team Mew, ora
che
era ad un passo dalla soluzione del mistero aveva perso completamente
la voglia di risolverlo.
L’idea di risalire all’identità di Mew
Ichigo, Mew
Pudding e Mew Mint gli era di colpo diventata così
insopportabile che alla fine aveva passato a
Kassandra tutte le informazioni raccolte su Retasu Midorikawa e
Zakuro Fujiwara e le aveva lasciato carta bianca.
Adesso Ai sedeva su un tetto a poca distanza dalla villa Aizawa. Non
era passato molto tempo dal giorno in cui avevano combattuto
lì,
ma i lavori di ricostruzione della casa erano già a buon
punto.
Nel ricordare quello scontro Ai aveva sentimenti contrastanti, che
andavano dalla rabbia all’amarezza fino a scivolare in una
strana
malinconia.
Non volle soffermarsi a comprendere il motivo; non voleva
più
avere niente a che fare con quelle ragazze terrestri, soprattutto con
quella che si faceva chiamare così stupidamente Mew Mint.
Tra
l’altro, che cosa voleva da lui quella piccola arrogante?
Si
divertiva davvero così tanto a provocarlo ogni volta?
Distolse lo sguardo dalla villa e scese in strada, allontanandosi a
passi lenti e chiedendosi perché le era tornata in mente
proprio
quella lì. Ormai, Mew Mint non era più un suo
problema:
Kass e lo stoccafisso si sarebbero occupati di lei e delle sue compagne
in poco tempo; senza più avversarie in giro, la principessa
aliena avrebbe conquistato il pianeta e lui avrebbe potuto smettere di
combattere e prendere per sé il suo premio, forse
l’unica
cosa ancora in vita che si salvava in quel mare di marciume che era
l’umanità.
«Ehi amico, ti sembra il caso di girare in cosplay a
quest’ora?» lo schernì un
passante. Era un
ragazzo a capo di un gruppetto di bulli, che lo accerchiarono
rapidamente; uno di
loro teneva sulle spalle una mazza da baseball.
«Perché non rispondi?» continuò il ragazzetto. «Vuoi forse essere picchiato,
razza di idiota?»
Ai ne aveva abbastanza degli esseri umani.
Mentre pochi secondi dopo si allontanava dai bulli, tutti stesi a terra
con vari gradi di contusioni, si infilò l’orribile
felpa
gialla che aveva preso ad uno di loro.
Non voleva nascondersi e non voleva attaccar briga con i terrestri; voleva solo essere lasciato in pace e, se si fosse mescolato
a
loro, nessuno lo avrebbe notato. La sua razza era visibilmente diversa da quella umana, ma lui aveva dalla sua parte la tecnologia
del suo pianeta. Non era nulla di troppo complesso: una semplice
immagine olografica semisolida che
modificava le sue sembianze e i suoi abiti con qualcosa di basico,
nascondendo la sua vera identità. La stava usando Kassandra
da
chissà quanto tempo per andare chissà dove.
Lì fuori si gelava; la felpa del bulletto era calda ma aveva
uno
strano tipo di meccanismo di chiusura scorrevole che Ai non sapeva bene
come far funzionare: quella roba non esisteva sul suo pianeta e lui, a
differenza di Kassandra, non era interessato alle trovate terrestri in
fatto di vestiario. Per lui, gli esseri umani erano un branco di bestie ottuse, e solo in pochi si salvavano.
Minto Aizawa era una di questi.
Lei era diversa dagli altri. L'aveva incrociata per pochi secondi e quasi per caso quel giorno maledetto in cui avevano deciso di attaccare il Dome; da quel momento lei gli era entrata nella testa, e per quanto lui avesse cercato di fare non vi era più uscita.
Ai
non sarebbe riuscito a dire come era iniziata; non c'era una
spiegazione, era successo e basta e a lui non era rimasto altro da fare che pagare le conseguenze di quella che con il tempo era diventata sempre piu' una dolce ossessione.
Aveva cercato di avvicinarsi all'oggetto del suo desiderio utilizzando una strategia che gli era sembrata
perfetta, ma aveva fallito. Da una parte non
capiva dove avesse sbagliato, ma dall'altra era consapevole di non avere idea di come si corteggiasse qualcuno.
In genere erano sempre stati gli altri ad avvicinarsi a
lui. Era perché aveva un bell’aspetto, gli avevano
detto
tutti; e tutti,
quando alla fine se ne erano andati, gli avevano rinfacciato di essere
una persona
orribile.
L'ex soldato si era chiesto per lungo tempo che cosa ci fosse di
sbagliato in
lui, ma alla fine aveva smesso di farlo e lo aveva accettato come un
dato di fatto. Si era chiuso in sé stesso e aveva concluso che non gli importava se gli altri lo disprezzavano perché lui non aveva bisogno di loro.
Ma con Minto era diverso. Anche se lei era una terrestre, avrebbe fatto
qualsiasi cosa per poterle stare accanto.
“Chissà dov’è
adesso?” si
ritrovò a chiedersi. “Voglio
vederla…”.
Decise di andare da lei. Dopo l'ultima volta, non sapeva come avrebbe reagito alla sua vista... ma, in verità, non gli importava.
----
Era ormai un’ora che Minto era ferma davanti alla soglia
della
villetta a due piani di Ichigo ad aspettare che lei si facesse viva. Era
notte e faceva freddo; l’aria gelida si infilava sotto il tulle della sua gonna e la faceva tremare.
Minto aveva provato più volte a rintracciare l'amica, ma il suo
cellulare era
sempre non raggiungibile. Non era preoccupata per lei: se ci fosse
stata un’emergenza in corso, Ryo si sarebbe sicuramente fatto
sentire.
Maledì
silenziosamente il momento in cui aveva preso accordi con lei per
restare a casa sua: quella ragazza si era rivelata del tutto
inaffidabile come al solito.
Un uccello notturno gracchiò un paio di volte.
«Non posso credere che si sia davvero dimenticata di
me!» esclamò
Minto quando l’ultima goccia della sua riserva di
pazienza si fu consumata.
Il suo cagnolino Miki, un batuffolo di pelo castano da cui la ballerina
non si
separava mai, sobbalzò e le abbaiò contro come
per
sgridarla di aver sbottato così all’improvviso.
Minto, per scusarsi, gli si inginocchiò accanto e
cercò
di calmarlo, ma lui sembrava molto teso per qualche motivo sconosciuto.
Forse era l’ambiente diverso in cui si trovava, o
forse aveva sonno; forse era arrabbiato anche lui con Ichigo.
«Scusami, Miki. E’ che lei ha smontato molto prima
di me,
con la scusa di essere stanca. E io che le avevo anche
preparato una torta per ringraziarla
dell’ospitalità!» si sfogò la
ragazza, in un
nuovo impeto di nervosismo. «Questa volta non gliela faccio
passa
liscia! Aspetta solo che torna…»
Sospirò.
«Il problema è che non
torna,» esalò infine, frustrata.
Minto conosceva un modo per entrare in casa ma non osava metterlo in
pratica, per cui continuò ad attendere educatamente.
Passò altro tempo, e poiché Miki stava diventando
troppo
irrequieto, alla fine la ragazza crollò.
“D’accordo, ora basta!” si disse per
darsi coraggio.
Legò il suo cagnolino al cancello d’ingresso e,
assicuratasi che non vi fosse nessuno in vista, usando i suoi poteri si posò con un balzo sul grosso ramo di un albero del giardino e lo usò
per raggiunse con un salto aggraziato il davanzale della finestra di
Ichigo al primo piano, che lei aveva lasciato socchiusa.
Entrare in casa d’altri come una ladra non era sua abitudine,
ma quando era troppo era troppo. Assaporando il tepore della
casa, la ballerina scese le scale e posò le sue cose
nell'ingresso. Recuperò una copia delle chiavi per
sicurezza e uscì per riprendere Miki, ma quando
aprì la
porta scoprì che lui aveva tirato il guinzaglio fino a
strapparlo ed era corso via.
Rimase di stucco, perché lui non era il tipo da fare una
cosa del genere. Che cosa gli era preso?
Solo in quel momento Minto si accorse che anche i cani delle case
lì intorno adesso stavano abbaiando e ululando in modo
insopportabile, mentre quelli chiusi nei cortili grattavano sulle
staccionate e sui cancelli per uscire.
Erano tutti come impazziti.
“Ma che succede?” si chiese.
“E’ come se sentissero
qualcosa…”.
«Miki!» chiamò. Ripeté il suo
nome più volte, ma lui non ritornò.
Minto non poteva lasciare Miki fuori in quel posto sconosciuto, per cui si avventurò a cercarlo.
----
Poco dopo, Minto stava camminando nel parchetto a ridosso di
quel quartiere, deserto a causa del freddo e dell’ora tarda.
Il vento notturno portava storie terribili dal resto del mondo, storie
che gli alberi del parco afferravano e si raccontavano fra loro,
frusciando in modo angoscioso – ma la ragazza non diede loro
alcun
peso. Sapendo che Miki era abituato a giocare nel suo immenso giardino,
credeva possibile che si fosse rifugiato in uno dei cespugli piantati
lì e per questo era tutta presa dalla sua ricerca. Non
appena
sentiva qualcosa muoversi scattava in quella direzione; ma, ogni volta,
era solo il vento o un qualche animaletto notturno.
Minto percorse tutto il parco, inutilmente.
Proseguì allora nel quartiere successivo. Svoltato un
angolo, si
ritrovò in una strada scarsamente illuminata dai pochi
lampioni
sopravvissuti alle scorribande dei vandali. Sembrava proprio che quella
non fosse una zona tranquilla.
«Miki...?» chiamò piano, guardandosi
intorno.
Non ottenne risposta: quel posto sembrava come abbandonato ed era buio,
troppo buio. Minto era accanto alla vecchia saracinesca di
un’officina quando decise di lasciar perdere. Stava
già
tornando sui suoi passi quando sentì una voce maschile a
poca
distanza.
«Hai forse bisogno di aiuto, bambolina?»
Si girò e vide un uomo sui trent’anni, appena
sbucato da
un vicolo lì vicino. Lo squadrò e decise in un
attimo che non aveva
un’aria raccomandabile.
«No, grazie.»
Minto fece per allontanarsi, ma venne afferrata per le spalle da un
altro ragazzo che intanto le si era avvicinato di soppiatto.
Sussultò, presa alla sprovvista, me venne immobilizzata
prima di poter fare altro.
Un terzo uomo, più grande degli altri, raggiunse il gruppo.
«Guarda cos’abbiamo trovato, Tozaki,» gli
disse il
primo. «Sembra un uccellino spaventato. Non l’ho
mai vista
in questa zona.»
«Che ne facciamo?» chiese quello che teneva ferma
Minto.
Lei si guardò intorno: quella strada era vuota, e questo
significava che nessuno avrebbe potuto vedere o sentire nulla mentre
lei insegnava l’educazione a quelle persone a suon di calci.
«Se fai la brava bambina non ti accadrà
nulla,»
mormorò il tipo chiamato Tozaki, avvicinandosi. Era
evidentemente il capo del gruppo. Mentre lottava contro la nausea
dovuta all’alito d’alcool dell’uomo,
Minto
desiderò di colpirlo con una delle sue frecce.
«Lasciatemi andare
immediatamente,» ordinò ai tre in
tono autoritario.
Quelli risero. «Immediatamente o cosa, tesoro?»
Minto era in grado di vedersela con loro, ma prima doveva liberarsi. La
presa dell’uomo che le stava bloccando i polsi dietro la
schiena
sembrava d’acciaio e lei non riusciva a muoversi.
Se non fosse riuscita a liberarsi e neanche a raggiungere la sua
spilla, che cosa avrebbe potuto fare?
Cercò di divincolarsi ma Tozaki le mise le mani addosso,
toccando e tirando il cotone rasato della sua camicetta preferita.
Minto non riuscì a far nulla per fermarlo; fu in quel
momento
che provò per la prima volta paura.
L’amico, intanto, prese il suo cellulare e lo puntò
verso
la scena, che voleva evidentemente registrare. Ma di colpo
finì
a terra, dritto in una pozzanghera sporca, insieme al suo telefono.
“Ma cosa...?”
Minto sgranò gli occhi: a quanto pareva, a stendere il
tipaccio era stato un ragazzo.
«La vostra intelligenza media è molto
bassa,»
osservò il nuovo arrivato, raccogliendo il cellulare e
spaccandolo in due, «ma credevo che riusciste almeno a capire
le richieste di una
persona che parla la vostra stessa lingua.»
«Oh,» mormorò Minto. Non riusciva a
credere che
qualcuno fosse davvero intervenuto in suo soccorso; aveva sempre pensato che queste
cose accadessero solo nei film.
Quando Tozaki si tolse dal suo campo visivo, la ragazza
riuscì finalmente a vedere il volto del suo salvatore.
Non tardò a riconoscerlo. «Will?!»
sibilò
incredula. Che cosa ci faceva lì? E soprattutto, era stupido
a
sfidare da solo quegli uomini?
«Ti ho trovata, finalmente,» le disse lui con il
sollievo nella voce. «Ti ho cercata dappertutto.»
«Credo che tu non abbia compreso la situazione,
amico,» lo
interruppe tranquillo Tozaki, tirando fuori dalla tasca un coltello a
serramanico.
«Io credo di aver compreso benissimo,»
ribatté Will, scuro in viso, irrigidendosi.
Rimase immobile anche quando Tozaki gli fu addosso. Lui
cercò di
colpirlo, ma il ragazzo gli agguantò il polso della mano che
reggeva il coltello, bloccandolo quando la lama era ormai a pochi
centimetri dalla sua faccia.
«Potrà anche essere la tua fidanzatina,»
ringhiò l’aggressore, facendo forza per
distruggere la sua
difesa, «ma è capitata nel mio quartiere, per cui
ora
è mia.»
«Ti sbagli,» replicò calmo Will, «lei è mia.»
Fu in quel momento che Minto raggiunse ufficialmente il limite della
sopportazione. Approfittando della distrazione del malvivente che la
stava immobilizzando, gli pestò un piede con tutta la forza
che
aveva; lui imprecò e per la sorpresa allentò la
presa su
di lei, che ne approfittò per sgusciare via dalle sue mani
sudice.
«Tu, piccola…»
L’uomo fece per riafferrarla, ma Minto si gettò a
terra e
tese la gamba, effettuando una spazzata che fece perdere
l’equilibrio all’avversario.
Guardandolo ricadere sul marciapiede, la ballerina provò
un’immensa soddisfazione: lei non era un uccellino spaventato
né tantomeno il premio di qualcuno. Era una ragazza con
un’ottima educazione e un curriculum perfetto; studiava,
lavorava, parlava fluidamente due lingue ed aveva combattuto per anni
contro mostri e alieni di ogni tipo - per cui nessuno dei presenti doveva permettersi di trattarla in quel
modo.
La ragazza notò che Will, che aveva appena atterrato quel
Tozaki, ora la stava fissando impressionato: probabilmente non
immaginava che
fosse in grado di vedersela con un omaccione grosso il doppio di
lei. In effetti, forse aveva esagerato.
«Studio danza a livello professionale,» si
affrettò a spiegargli.
Mentre parlava, però, Minto si accorse che il primo dei suoi
assalitori, quello del cellulare, si era rialzato ed ora stava cercando
di colpire Will da un lato. Non ebbe il tempo di avvertirlo ma lui,
senza neanche voltarsi, afferrò il braccio
dell’avversario
e si portò dietro di lui, torcendogli l’arto fin
quasi a
spezzarglielo; mentre quello gridava dal dolore, Will lo fece volare a
terra come se fosse una piuma.
Si accorse che ora era Minto ad essere sbalordita.
«Ho…
frequentato dei corsi di combattimento sin da quando ero
bambino,» disse.
«Complimenti per la tecnica,» commentò
la ragazza,
accennando uno chaines per evitare l’energumeno che aveva
atterrato, che si era rimesso in piedi ed aveva tentato, inutilmente,
di prenderla alle spalle. Il tizio si squilibrò e
inciampò in avanti, in direzione di Will.
Lui gli portò una mano sotto il mento e si gettò
in
ginocchio a terra, trascinandolo con sé: la spina dorsale
dell’uomo descrisse un arco mentre lui finiva
scenograficamente a
terra, battendo la schiena e andando K.O.
«Anche a te per la tua.»
Quando Will rimise in piedi, raggiunse Minto e si fermò di
fronte a lei, che lo guardò come se lo stesse vedendo in
quel
momento per la prima volta.
Nessuno dei due riuscì a trovare le parole giuste da
pronunciare.
«O-Ora vi faccio vedere io,» sibilò
però
Tozaki, riprendendosi, «Romeo e Giuletta dei miei
stivali.»
I due ragazzi si accorsero troppo tardi che aveva tirato fuori dalla
giacca una pistola. Will non si aspettava un’arma del genere
e,
quando l’uomo premette il grilletto, d’istinto
cercò
di coprire Minto come poteva. Il delinquente non aveva una gran mira,
ma quando sparò il sangue di Will schizzò sulla
camicetta
di Minto.
Lei non aveva sentito il rumore dello sparo; non si era neanche resa bene conto di cosa era successo.
Indietreggiò spaventata mentre vedeva il suo salvatore
cadere
sulle gambe stringendosi un punto poco sopra il gomito destro.
«Colpa mia,» mormorò lui, mordendosi il
labbro inferiore. «Distrarsi durante uno scontro è
il modo
più facile per farsi ammazzare.»
«Oh, mi assicurerò che tu abbia imparato per bene
questa lezione, stronzetto.»
Will digrignò i denti mentre Tozaki si rimetteva in piedi e
gli
puntava la pistola contro; ma, un attimo dopo, quest’ultimo
venne centrato in fronte da una
bottiglia vuota e crollò a terra svenuto. Rimase stupefatto nel rendersi conto che era stata Minto a
lanciarla.
La ragazza corse a prendere la pistola e la gettò il
più
lontano possibile da lì per sicurezza. Centrò un
secchio
dell’immondizia dietro cui saltò fuori Miki, che
le corse
incontro.
Lei lo prese in braccio e lo strinse forte. Le veniva da piangere.
«Ottima mira,» si complimentò Will,
rialzandosi in
piedi. Poi si accorse che c’era qualcosa che non andava in
Minto: era rabbuiata e nervosa, aveva i vestiti rovinati e gli occhi
che le
luccicavano per le lacrime che stava cercando di trattenere in tutti i
modi.
Qualunque cosa si era creata pochi secondi fa fra di loro, ora era del
tutto scomparsa.
«Minto…» provò, accigliato.
«Ti avevo detto di non seguirmi,» lo interruppe
lei brusca.
«Io non ti stavo seguendo!» protestò lui.
«Ti hanno sparato,» constatò allora la
ballerina con voce ben poco ferma.
Will osservò la sua ferita, che aveva formato una larga
chiazza
rossastra sui vestiti. Era per questo che Minto era così
arrabbiata?
«Non è nulla,» la rassicurò.
Il sangue gli scivolava lungo il polso e gocciolava a terra
ai suoi piedi. Minto lo vide e parve stabilire che una cosa del genere
non poteva essere classificabile come nulla.
«Dovresti andare
all’ospedale.»
«Già.»
«Non lo farai, vero?»
«No.»
La ragazza rimase ferma per molti secondi, ma alla fine
sospirò e
posò a terra Miki. Estrasse un fazzoletto di seta da una
delle
sue tasche; Will la
guardò male, ma la lasciò ugualmente avvicinare e
si
lasciò annodare quella stoffa costosa sul punto ferito.
«Non ho intenzione di lasciarti qui in questo stato. Sono a
casa
di una mia amica che abita poco lontano da qui. Vieni con me,
controllerò le tue condizioni.»
Lui non rispose, ma catturò la sua occhiataccia quando lei
aggiunse un: «Se provi a fare o dire qualcosa di strano ti
faccio
fare la fine di questi signori.»
A quel punto, sorrise. «Non ne dubitavo.»
----
Qualche minuto dopo erano a casa di Ichigo. Di lei ancora neanche
l’ombra, ovviamente: non c’era mai nel momento del
bisogno,
ma in fondo Minto non avrebbe saputo come spiegarle la situazione, per
cui forse era meglio così.
Fece sedere Will sul divano del soggiorno e gli lasciò
accanto
il kit di primo soccorso che aveva recuperato da un mobile. Poi si
allontanò per andare a lavarsi e disinfettarsi le mani prima
di iniziare.
Minto si sentiva tremendamente in colpa: pur essendo una Mew Mew, si
era comportata da sciocca e per colpa della sua disattenzione aveva
quasi fatto ammazzare quel ragazzo innocente.
Il suo malessere aumentò quando, mentre si stava strofinando
le
dita con il sapone, scorse nel suo riflesso allo specchio alcune gocce
di sangue finite sul suo viso. Se le sciacquò via
rapidamente.
Andò ad indossare al volo una maglietta pulita e poi si
attardò a cercare fra le cose che aveva portato con
sé in
casa di Ichigo qualcosa anche per Will. Fortunatamente, aveva
conservato in una valigia un paio di completi di suo fratello che non
aveva avuto il cuore di abbandonare nella sua vecchia casa.
Prendere dei vestiti puliti non era realmente un’urgenza, ma
Minto voleva rimandare il più possibile ciò che
sarebbe
avvenuto di lì a poco. Infatti, lei non aveva la minima idea
di
come trattare una ferita da sparo. In genere, quando lei e le sue
amiche necessitavano di medicazioni era Keiichiro a prendersi cura di
loro: forse poteva chiamare lui?
La ragazza afferrò una camicia bianca di cotone e decise che
avrebbe provato almeno a valutare la situazione. Quando
tornò
nel soggiorno, però, scoprì che Will era a torso
nudo:
arrossì di botto e si appiattì dietro la porta
del
corridoio, nascondendosi.
Cercò di calmarsi e ragionare: se doveva constatare le
condizioni della sua ferita doveva vederlo senza maglietta, per cui era
inutile fare tutte quelle storie; per cui, tratto un profondo respiro,
entrò determinata nella stanza, ma solo per restare a bocca
aperta nello scoprire che Will
stava finendo di medicarsi da solo.
Il ragazzo aveva pulito e disinfettato la ferita, si era assicurato di
fermare il sangue e aveva annodato una garza sterile sul punto ferito,
aiutandosi con i denti.
«Visto? Non era nulla di grave,» le disse con
noncuranza, rimettendo a posto il resto dei medicamenti.
Cercando di guardarlo il meno possibile, la ragazza gli tese la camicia
e lui la prese. Nell’infilarsi la manica destra fece una
piccola
smorfia di dolore, ma non disse nulla e Minto fu lieta che la
situazione fosse meno seria del previsto.
Il ragazzo si infilò la camicia senza problemi; solo che si
fermò lì, per cui quando Minto lo
guardò di nuovo
vide che aveva ancora metà del petto e degli addominali in
bella
vista.
«Devi abbottonarla,» gli ricordò,
imbarazzata.
Lui osservò il lembo di stoffa su cui erano cuciti i
bottoni.
«Questi? Li ho già visti da qualche
parte,»
mormorò pensieroso, e Minto si chiese se stesse scherzando.
Will cercò di chiudere i bottoni, ma faceva fatica a muovere
la mano destra a causa della ferita ed inoltre nel sistemare il primo
prese l’asola sbagliata.
«Non così,» osservò Minto.
Lui le lanciò un’occhiata spaventata, e fu allora
che lei perse la pazienza.
«Oh, santo cielo,» sospirò esasperata
sedendoglisi accanto per aiutarlo. Mentre le sue dita posizionavano un
bottone dopo l’altro evitando accuratamente toccare altro,
Minto si accorse che Will la stava annusando.
Lo guardò scioccata. Seriamente?
Si chiese.
«Ho già sentito questo profumo da qualche
parte,» osservò lui, non cogliendo il suo
sconcerto.
«Non credo, è Hermes. Hai idea di quanto costi un
profumo
di Hermes? Lo indossano solo nell’alta
società,»
rispose lei con una certa altezzosa nonchalance, mantenendo la sua
dignità mentre
terminava il suo lavoro. Gli sistemò il colletto ma decise
di
non chiuderglielo: in fondo, non aveva preso una cravatta.
«Sei anche tu una principessa?»
«Anche
io? Conosci una principessa?»
Will mosse la testa verso di lei: aveva uno sguardo penetrante ed erano
così vicini che Minto poteva sentire il suo respiro sulle
labbra.
Lei arrossì.
«No, è solo una sciocca,» rispose lui
rivolgendole
un mezzo sorriso, senza reale interesse per quella conversazione.
Calò il silenzio e Minto si accorse solo in quel momento che
stava tenendo le mani sui lembi della camicia del ragazzo anche se
ormai non ce ne era più bisogno. Le tirò via di
scatto
come se avesse preso una scossa di elettricità.
«Posso
offrirti una fetta di torta?» chiese e, senza aspettare una
risposta, si allontanò rapida verso l’angolo
cucina dall’altra
parte della stanza.
“Ma che cosa mi succede?” pensò,
spacchettando meccanicamente il suo
dolce. Si sentiva le guance bruciare e cuore palpitare nel petto come
impazzito.
Si domandò per quale assurdo motivo adesso una sola
occhiata di quel tipo la facesse sentire
così su di giri. Certo, questa era già la seconda
volta
che le salvava la vita; era forte e aveva un bel fisico.
Realizzò che era simile a quello di Ai,
così come il modo in cui si muoveva in combattimento. Minto
si chiese se era per questo che aveva iniziato a trovare Will
così interessante.
Sì,
ora che lo aveva visto in azione non poteva negare che Will somigliasse
davvero tanto ad Ai, ma la sua voce era
più profonda e i lineamenti del viso erano diversi,
così come gli occhi ed i capelli. E soprattutto, lui non
le aveva mai rivolto lo
sguardo irato o gelido che le riservava quell’alieno,
né quello
avido che aveva visto brillare negli occhi dei suoi assalitori.
C’era una sorta di purezza in lui; era un tipo bizzarro,
soprattutto quando recitava cose a caso, ma non sembrava una cattiva
persona.
Mentre
l’odore familiare del pan di spagna al cioccolato fondente
si diffondeva nell’aria, Minto si chiese come doveva comportarsi con lui. Non aveva idea di cosa le stesse dicendo il suo corpo o di cosa
era giusto fare; non capiva neanche cosa voleva realmente e questa cosa
la confondeva.
Guardò
Miki, che ora dormiva beato su un cuscino: almeno lui se
la stava passando bene. Notò poi che Will,
dall’altra
parte della stanza, ora si stava osservando i polsini della camicia con
aria corrucciata, come se non avesse mai indossato nulla di simile:
sembrava un pesce fuor d’acqua, e contro ogni
razionalità
Minto si ritrovò a pensare che, nonostante tutto, quella sua
strana ingenuità era graziosa.
Decise di lasciar perdere tutti quei pensieri e rilassarsi.
«Hai intenzione di fare così per tutta la
sera?» domandò al ragazzo, tornando da lui.
Lui si imbronciò e abbassò il braccio.
«Io faccio quello che voglio.»
Anche quella frase era molto da Ai, pensò Minto.
Posò il vassoio con la torta, un coltello, una palettina da dolci e un
piatto
sul tavolino di fronte al divano.
«Stai facendo cose strane,» commentò.
«Parli tu. E’ tua abitudine frequentare quel tipo
di compagnia?»
«Non frequento quei posti! Ero lì per colpa della
mia amica.»
«Che coincidenza… anche io ero in giro per colpa
di amiche.»
Minto inarcò un sopracciglio.
«Avevo un impegno di lavoro con loro,»
continuò il
ragazzo in tono vago. Guardò il dolce e poi
lanciò
un’occhiata in giro. «Ma questa è una
notte
così speciale che ho deciso di prendermi una
pausa,»
concluse dopo alcuni secondi.
Visto che Minto lo stava fissando,
puntò un dito verso il cielo che si vedeva dal balcone che
era davanti a loro. «Voglio dire, non vedi anche
tu qualcosa di diverso stanotte, nel firmamento? O forse…
è la tua presenza che lo rende così vivido e
brillante?»
«Credo che tu ora debba andare, Will,»
replicò pronta la ballerina.
Lui scoppiò in una risata. «Scherzavo. Ho capito
che non
apprezzi questo tipo di comunicazione. Meglio così, non
credo sia il mio forte.»
Minto si sentì come se qualcuno le avesse appena rovesciato
un secchio d’acqua in testa.
«Cosa? Quindi quando parlavi in quel modo… tu
recitavi?»
«Sì,» rispose lui con innocenza.
«Vuoi dire che mi hai preso in giro per tutto questo
tempo?!»
Will parve intuire il pericolo. «No, io ero
sincero,» si
difese ma era troppo tardi, perché Minto si era arrabbiata
di
nuovo.
«Mi stai dicendo che ti fingevi matto? Ma che cosa ti salta
in mente?!»
«Non mi fingevo matto! Io sono una persona tremenda. Mi sono
innamorato di te e ho pensato che l’unico modo per non
spaventarti fosse emulare qualcosa di perfetto!»
Era così convinto e sincero mentre pronunciava quelle parole
che Minto spalancò gli occhi per lo stupore.
C’era qualcosa di surreale in quel ragazzo: sembrava uscito
da un film d'azione ma non sapeva come parlare rispettosamente o come vestirsi; non aveva la minima idea di come
funzionassero le interazioni sociali in una società civile.
Era
davvero come un alieno e lei semplicemente non poteva essere arrabbiata
con una persona così.
«W-Will, tu…non devi emulare nessuno,»
gli disse,
ignorando la prima parte del suo sfogo. «Devi essere te
stesso.»
«Non posso.»
«Ma perché? Insomma, non hai l’aria di
essere così terribile!»
Lui fece una smorfia frustrata. «”Ci sono molte più
cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne dica la tua
filosofia,”» recitò.
Lei sospirò. «Il mio nome è
Minto,» gli fece notare accomodante, allungandogli una fetta
di torta, «e non mi sembra
il caso di scomodare l’Amleto per queste cose.»
Will prese il piattino che lei gli stava tendendo senza replicare;
sembrava colpito dal fatto che avesse riconosciuto la citazione, per
cui la ballerina decise che quello era il momento adatto per insistere
sul concetto che stava tentando di spiegargli.
«Io credo che ognuno di noi sia ciò che fa, non
ciò
che pensa di essere. Tu ti sei messo contro tre persone armate per
aiutarmi e mi hai fatto scudo con il tuo corpo. Certo sei anche uno
stalker e sono davvero tentata di denunciarti, ma a parte questo non
vedo perché dovresti essere cattivo,» concluse,
sedendo
compostamente all’altro lato del divano.
Lui non rispose, ma assunse un’aria pensierosa e
abbassò
lo sguardo sul dolce che aveva tra le mani. Ne prese una forchettata e
Minto restò in attesa che lo assaggiasse: quella era la sua
torta migliore ed era sicura che gli sarebbe piaciuta. Qualcosa dentro
di lei le diceva che se l’avesse mangiata, sarebbe andato
tutto
al posto giusto.
Lo vide portarsi alla bocca un quadratino di cioccolato, ma alla fine
abbassò la forchetta.
«Ti sbagli,» dichiarò Will.
«Perché?» domandò lei, delusa.
«Perché non sai come sono realmente, per cui non
puoi
conoscere le motivazioni delle mie azioni. Potrei averti mentito;
potrei aver fatto tutto questo solo per guadagnarmi la tua fiducia e
farmi condurre da te in questo posto, dove siamo soli. Potrei farti del
male adesso.»
«No, non lo farai,» ribatté tranquilla
Minto.
Lui le sorrise provocatorio. «Perché non sono cattivo?»
«Sì,» rispose lei, «ma anche
perché sai
perfettamente che se provassi a fare qualcosa di sbagliato, afferrerei
il coltello qui di fronte a me e ti infilzerei la mano. La torta era
già tagliata, ma io ho portato lo stesso un coltello; tu
l’hai notato e hai istintivamente hai studiato la stanza,
cercando una via di fuga o forse qualcosa per difenderti in caso di
necessità,» spiegò con calma.
«Ma sono certa
che non ci sarà bisogno di nulla di tutto questo,
perché
tu non hai intenzione di farmi del male,» concluse poi con un
sorriso.
Will sbatté le palpebre un paio di volte.
«Io…
pensavo che fossi un dolce angelo indifeso, invece sei vagamente
inquietante,» ammise alla fine.
«Sono una persona dolcissima,» replicò
la ballerina
continuando a sorridergli; ora sembrava davvero inquietante.
Dopo qualche secondo di incertezza lui scosse la testa e rise piano,
divertito.
Poi gli venne un’idea improvvisa e increspò le
labbra in
un ghigno. Se lei voleva giocare, perché non poteva farlo
anche
lui?, pensò. Posò il dolce e si alzò
dal suo posto,
andandole vicino.
Prima che lei potesse fare qualcosa, mise un ginocchio nello spazio fra
le gambe della ragazza e poggiò il palmo della mano sinistra
sullo schienale del divano, bloccandola.
«E-Ehi!» protestò lei.
«Allora?» le domandò Will, mentre il
sorrisino maligno
sulla sua faccia si espandeva. «Sostieni di essere padrona
della
situazione, ma allora perché non c’è nessun coltello
nella mia
mano, Minto?»
Il modo in cui lui aveva pronunciato il suo nome fece rabbrividire
la ragazza, ma non era una sensazione del tutto spiacevole. Lei sapeva che per liberarsi da quella situazione le sarebbe bastato
spingerlo via, ma non lo fece. Si chiese il perché.
«Non so. Forse perché non stai facendo niente di
sbagliato,» rispose d’istinto, lasciandolo
spiazzato e
spiazzando persino sé stessa.
Sollevò appena la testa per guardarlo: ora lui non
sorrideva più e non accennava a ribattere né a
spostarsi
da lì. A lei non importava: aveva appena realizzato che in
fondo
non le dispiaceva averlo così vicino.
D'un tratto, Will si allontanò
da lei e sbuffò una risata rassegnata.
«Mi hai battuto di nuovo,» le disse.
«Noi...non stavamo combattendo.»
«No? E cosa stavamo facendo allora?»
Quella era una bella domanda. Minto ci pensò su ma l'unica risposta
che le veniva in mente era il verbo flirtare,
che non gli avrebbe detto neanche se lui l'avesse torturata.
Per fortuna, il trillo allegro del suo cellulare le venne in aiuto.
«Oh, è il mio,» mormorò,
alzandosi e andando a recuperare il telefono dalla borsetta.
Aprì il flip con
molta calma, lesse il nome della persona che la stava chiamando e poi
rispose.
«RAZZA DI SFATICATA!» gridò al
microfono, facendo
sobbalzare Will. «Si può sapere dove diamine ti sei
cacciat-»
«Minto. Sono
io, Zakuro,» la interruppe una voce ferma
dall’altra parte.
La ballerina ammutolì, facendosi di mille colori.
Desiderò di morire lì e adesso.
«Ci sono problemi?» le chiese Will.
Lei emise una risatina nervosa. «No, no, perdonami.»
«Pronto? Ma
con chi stai parlando?»
«Scusami Zakuro, pensavo fosse…»
«Lascia stare,
non c’è tempo per questo,»
la interruppe
la modella dall’altro capo del telefono. «C’è
un’emergenza.»
«E’ successo qualcosa?»
«Non quello
che pensi tu, ma abbiamo un problema…anzi, quattro.»
«Non
ricominciate con quel dannato quattro!»
gridò una voce lontana, che a Minto parve di riconoscere.
Stava per chiedere chi fosse, quando sentì un gran caos, e
Purin strillare qualcosa.
«Io NON sono
tornato perché mi mancavi!»
sentì dire da un’altra voce familiare. «Stupida
mocciosa!»
Tutto questo le ricordava qualcosa…
Zakuro riprese il controllo della situazione. «Siamo a casa di Purin,
raggiungici subito. Ti spieghiamo tutto qui.»
«O-Ok, arrivo,» annuì Minto, terminando
la
telefonata. «Mi dispiace,» disse poi a Will,
«una
mia amica sta avendo una… situazione. Devo andare.»
Lui in quel momento non le stava prestando attenzione: nel tornare a
sedersi, aveva premuto per errore un tasto del telecomando, facendo
accendere la televisione che ora stava mostrando delle preoccupanti
breaking news dal resto del mondo: terremoti, inondazioni, eruzioni e
aperture di voragini. Quando Minto le vide, impallidì.
«Santo cielo, ma… che cosa sta
succedendo?»
«Non ne ho
idea. Il mondo
è fuor
dai cardini,» rispose il ragazzo, passandosi una mano dietro il collo.
Minto distolse lo sguardo dalla televisione. «Will, tu...
dovresti
davvero fare qualcosa per questa tua mania di citare l’Amleto
senza motivo.»
«Ma… Ma non è senza motivo!»
«Può darsi, ma potresti comunque
evitarlo.»
«Non
puoi darmi ordini, Minto.»
«Non
è un ordine, è solo un consiglio.»
Lui le
lanciò un’occhiata stranita e poi
alzò le mani in segno di sconfitta. «Come vuole, mia
signora. Comunque devo andare anche io ora, continueremo
un’altra
volta.»
Minto incrociò le braccia al petto. «Continuare cosa? Questa serata è stata
un’eccezione. Avevo un debito con te, ma ora siamo pari.
Inoltre, mi sto già vedendo con una certa
assiduità con una persona che mi interessa,»
spiegò. Tecnicamente parlando, non era neanche una
bugia.
Will la raggiunse e le si fermò proprio davanti.
«Capisco. Allora mi dispiace per questo.»
«Per cosa?»
Un attimo dopo, Minto si ritrovò le labbra del ragazzo
premute a tradimento sulle sue.
Fu un bacio leggero, che durò forse troppo poco
perché lei potesse provare realmente qualcosa. Ma nonostante
questo, quando Will si staccò da lei, Minto rimase immobile
per lo shock.
Lui
le rivolse un sorrisino e la superò, dirigendosi verso la
porta
d’ingresso.
«E-Ehi, Will!» lo chiamò però
la ballerina.
Lui
si fermò sulla soglia. «Che
c'è?»
«Credo
di aver commesso un errore nel giudicarti una brava persona,»
ammise Minto, continuando a dargli le spalle.
Lui
curvò le labbra in un ghigno. «Sì,
avevo
tentato di avvertirti,» rispose con finta noncuranza prima di
andar via.
Mentre sentiva il rumore della porta che si chiudeva, Minto si
toccò le labbra.
Un tipo strano che conosceva appena le aveva appena rubato il suo primo
bacio. E non lo avrebbe mai ammesso, ma non le era dispiaciuto.
++++
Note:
Ho come l'impressione che...gettare via una pistola carica sia
abbastanza pericoloso.
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