L'IMPERO
DI SHALIRA
LIBRO
PRIMO
Capitolo
I - Crisi
Era
un pomeriggio di marzo, Gourry Gabriev se ne stava steso su di un
pregiato drappo di broccato zephiliano, una mano sotto la testa e
l'altra ad accarezzare la chioma vermiglia della maga assopita tra le
sue braccia. Le fronde della quercia si muovevano lente sopra le loro
teste, sospinte appena dalla brezza che portava con sé
l'odore dei ciliegi in fiore.
Erano
già passati due anni dalla cacciata di Dark Star, più di tre dalla Caduta, ma il ricordo di quei giorni disperati non accennava
a sbiadire, era, anzi, così vivido da impedirgli di passare
notti tranquille.
Il
ragazzo sospirò, stringendo più forte il corpo
esile sopra di sé.
Il
legame con Lina, già forte ai tempi della guerra, era
divenuto ormai indissolubile, non poteva pensare di viverle lontano; ma
alto era il prezzo da pagare per poter rimanere al fianco della maga
più ricercata del continente: presto sarebbe giunto il
momento di saldare il conto e lui era debole, incapace di difendere
persino se stesso senza la sua vecchia arma.
Quando
si era diffusa la notizia che Lina Inverse e Gourry Gabriev erano i
responsabili diretti della dissoluzione della Barriera, loro erano
già nei territori di Vrabazard al seguito di Philia, ma non
avevano idea di quel che in patria aveva iniziato a muoversi. Di
ritorno, infatti, non ci fu nessun comitato di accoglienza per gli eroi
vittoriosi, ma una taglia stratosferica sulle loro teste.
Non
esisteva posto in cui fosse possibile vivere senza dover combattere:
che si trattasse di una banda di criminali o dell'oste, tutti erano
disposti ad ucciderli e rivendere i loro corpi alle guardie imperiali
di Elmekia.
A
salvarli, però, ancora una volta era stata la principessa di
Saillune, Amelia, che li aveva invitati a corte come suoi ospiti,
rendendo nulla la taglia all'interno della capitale della magia bianca.
Non
avevano idea di quanto tempo sarebbe passato prima di poter uscire di
nuovo da Saillune senza rischiare di essere attaccati. E
così i giorni cominciarono a succedersi, tutti uguali, tra
un ricevimento e l'altro, senza preoccupazioni e senza
responsabilità.
La
loro vita prese a scorrere scandita da piccole abitudini, piccoli
rituali giornalieri privi di colore.
Dopo
pranzo erano soliti passare il resto del pomeriggio nel parco che
circondava il castello, alla ricerca di un posticino in cui riposare,
quasi fossero ancora viandanti.
Quel
giorno avevano scelto l'albero secolare che si ergeva, solitario, al
centro di un'ampia distesa di gramigna.
Erano
lontani da cameriere e maggiordomi, da uomini e donne di corte... o
così credevano.
Dal
boschetto di faggi che circondava quella piccola oasi solitaria, emerse
un giovane valletto.
«Lina...»
sussurrò Gourry «Lina, arriva qualcuno.»
Stiracchiandosi
con fare felino, la maga si limitò ad emettere qualche suono
di protesta, senza dar troppo peso all'avvertimento del compagno.
«Non
mi interessa, mandalo via!» si lamentò coprendosi
la faccia con le mani.
Nel
frattempo il valletto, un ragazzo di almeno quindici anni, si era
avvicinato a passo svelto.
«Lord
Gabriev, Lady Inverse» balbettò sulle spine
«ho un messaggio da recapitare»
All'ennesimo
strattone dello spadaccino, Lina sollevò la testa e
guardò il paggio di traverso.
«Un
messaggio?» si esibì in un sonoro sbadiglio.
Il
paggio non rispose. Le buone maniere prevedevano che le conversazioni
avvenissero faccia a faccia, come segno di rispetto verso il proprio
interlocutore. La maga emise un verso di irritazione, ma, in un fruscio
di seta verde e taffetà, si mise in piedi aiutata da Gourry.
«Ebbene?
Chi ti manda?» lo fronteggiò.
Il
ragazzo tirò giù i bordi del farsetto e prese un
bel respiro «Sono qui per ricordarvi il vostro quotidiano
appuntamento presso il Salotto Blu» finì con un
grosso sospiro di sollievo.
«Tutto
qui?» lo squadrò con sufficienza.
«Sei
libero di andare, ragazzo» la voce calda e rassicurante di
Gourry giunse gentile alle orecchie del giovane, che, senza farselo
ripetere, fuggì a gambe levate attraverso gli alberi dalle
foglie rosse.
Lina
si voltò verso il compagno ancora seduto sotto la quercia e
lui ricambiò lo sguardo, divertito.
«Ed
ecco lo spadaccino dall'armatura scintillante, pronto a soccorrere i
deboli e gli oppressi!» sollevò le braccia in aria
per rimarcare il concetto. Era ormai abituata allo sdegno della
servitù e aveva imparato ad usarlo a suo vantaggio, anzi,
terrorizzare paggi e cameriere rientrava tra i suoi passatempi
preferiti.
«Era
proprio necessario? Credevo che ormai ti fossi annoiata.» le
regalò un altro sorriso radioso. Gourry era buono. Non
sapeva come altro definirlo! Sempre gentile, pronto ad aiutare il
prossimo... a sopportare lei.
«Sì,
lo era eccome! E poi, è tutta colpa tua!» disse
sedendogli accanto.
«Colpa
mia?!» lui si finse offeso, ma nel frattempo l'aveva
già attirata a sé.
Una
folata di vento più forte delle altre separò le
fronde dell'albero e un raggio di sole gli illuminò il viso
e i capelli biondo grano. Non ricordava il momento esatto in cui aveva
iniziato a guardarlo con occhi diversi, notando particolari
insignificanti, come quel piccolo neo appena sotto l'orecchio o le
fossette agli angoli della bocca quando rideva. Amava le sfumature
dorate dei suoi capelli, la morbidezza di quello sguardo azzurro cielo
e quelle labbra dolci come il miele.
Amava
stuzzicarlo, vedere fino a che punto avrebbe retto quel guscio di
pazienza che lo avvolgeva. Quando si sarebbe stancato di lei e dei suoi
capricci?
«Esatto!
Avresti potuto salvarlo, lasciandomi riposare in santa pace»
gli pizzicò il fianco, ma lui non sembrò
curarsene.
«E
perdermi tutto il divertimento? Sai che non potrei mai farlo»
ammiccò posandole un tenero bacio sulla guancia. Poteva
amarla davvero così tanto da sopportare qualsiasi suo gesto?
«Oh,
sì certo! La servitù è terrorizzata da
me,
una tenera e indifesa fanciulla!» assunse il solito tono
melodrammatico, portandosi una mano alla fronte con fare svenevole.
«Ma
smettila» le diede un buffetto sul naso «tenera e
indifesa? Non puoi credere davvero a ciò che dici»
rise di gusto, stendendosi di nuovo, con il viso rivolto verso il tetto
di foglie sovrastanti.
Il
ragazzo aveva già perso l'aria gioviale in un sospiro e le
fu facile percepirne l'inquietudine, la vide attraversargli il petto e
giungere fino agli occhi. Gli si stese vicino, adagiando il proprio
petto contro il suo, in attesa di sentire l'intreccio ritmico dei loro
battiti.
«Qualcosa
non va?» chiese la maga un po' preoccupata.
La
guardò con la coda dell'occhio «No, è
tutto a posto.»
Era
così bella in quel momento, con i capelli sciolti sulle
spalle e le guance rosse che spiccavano sulla pelle chiara.
Sentì il macigno sul petto diventare più pesante,
mentre il pensiero di perderla si faceva strada nella sua mente.
«Credo
sia ora di andare, lady
Inverse»
si alzò per non essere bersagliato da domande scomode.
«Credo
lei debba liberarsi delle foglie che le invadono la chioma, lord
Gabriev»
La
vide sorridere, emanava una luce di brillante vitalità , e
si sentì di nuovo felice. Era nel posto giusto al momento
giusto, in uno stato di grazia e piena soddisfazione.
Non
poteva durare per sempre, no?
Il
Salotto Blu si trovava all'interno degli appartamenti della principessa
ed era usato per ricevere ospiti ed amici intimi, lontano da occhi
indiscreti.
Era
di medie dimensioni, luminoso grazie alle numerose finestre, di cui
quattro decorate con vetri colorati e gemme preziose sui toni del
turchese. Le pareti erano coperte da pannelli di legno chiaro,
intervallati da lucenti stucchi dorati che si allungavano fin sul
soffitto, intrecciandosi in complicati arabeschi attorno agli imponenti
lampadari di cristallo e lapislazzuli.
Su
di un elegante divano bianco, la principessa Amelia sedeva in modo
composto ed aggraziato. Il vestito di pesante taffetà avorio
le impediva di muoversi liberamente e, d'altronde, ormai l'abitudine
aveva modificato i suoi modi di fare, ingabbiando la sua genuina
spontaneità in una prigione di seta e balze. I capelli, neri
e lucidi come piume di corvo, erano raccolti in un'acconciatura formata
da una serie complicata di trecce e boccoli, riuniti sul capo e tenuti
fermi dalla sottile corona tempestata di diamanti e zaffiri. Le spalle,
lasciate nude dall'abito, davano mostra di un colorito pallido e di una
magrezza che non erano mai appartenuti alla gioiosa principessa.
«Amelia,
cerca di capire! Non posso continuare ad assecondare i tuoi
capricci!»
Zelgadis
Greywords sedeva poco distante, stringendo tra le mani uno dei tanti
manoscritti di magia bianca della biblioteca privata della principessa.
Non riusciva però a concentrarsi troppo sulla lettura,
quando accanto a lui c'era quella piccola meringa dagli occhi blu. La sua
piccola meringa. L'amava più di quanto gli fosse consentito,
a tal punto da percepire il cambiamento che, lento ed inesorabile,
stava scavando a fondo nell'animo della futura regina. Il mondo stava
cambiando, come le nuvole a marzo, e loro assieme a lui. La scintilla
negli occhi di Amelia si stava spegnendo e lui temeva che presto anche
quel lumino avrebbe lasciato posto ad una cupa tristezza.
«Ma
padre, perché?!»
«Basta!
Non una parola di più. Stiamo chiedendo enormi sacrifici ai
nostri sudditi. Molti giovani uomini sono stati chiamati alle armi e
rischiano la vita per noi! La principessa darà il buon
esempio. Il nostro regno diverrà più
forte...»
«Zelgadis...»
lo chiamò con indolenza. «Perché sei
così lontano?» tese le mani nella sua direzione.
Conosceva
bene il significato di quel gesto, era il segno che potevano buttare
giù le maschere, distruggersi a vicenda e sentire i cocci
cadere a terra, anche se raccoglierli diventava sempre più
difficile.
Lui
era una chimera, umano solo per un terzo, demone e golem per gli altri
due, non apparteneva a nessuna casata di alto lignaggio, mentre lei un
giorno avrebbe preso il posto del padre sul trono di Saillune. Non
avevano futuro. Non insieme.
Si
limitavano a vivere il presente a denti stretti e pugni serrati, pronti
a ricevere il colpo di grazia, pronti ad andare in frantumi per sempre.
Mise
da parte il volume polveroso e prese posto accanto a quei grandi occhi
blu, pronto a perdersi in un mare di merletti color crema. Lei,
però, voleva altro. Si appoggiò delicata sul suo
petto di pietra e, puntellandosi con le mani tra i cuscini, si sedette
sulle sue gambe abbracciandolo forte.
Preoccupato
da quella reazione, le avvolse le braccia intorno alle spalle
«Amelia...?»
«Sposerò
un principe di sangue di Elmekia. Mio padre abdicherà, io
diventerò regina di Saillune e il mio regno
stringerà un'alleanza militare con l'impero.»
disse secca, mentre a lui le parole morivano in gola.
Sentì
l'impatto e poi lo schianto. Poteva un'esplosione fare così
poco rumore?
Caddero
in un silenzio assordante, in cui i battiti dei loro cuori si
mischiavano ai ticchettii degli orologi e all'oscillare del pendolo
d'oro.
Il
tempo non si era fermato, nonostante tutto.
«Quando?»
chiese, liberato da ogni traccia di vitalità.
«Le
frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli stati
della Penisola devono fare causa comune contro le
avversità.»
«Presto.
Le frontiere diventano sempre meno sicure ogni giorno che passa, gli
stati della Penisola devono fare causa comune contro le
avversità.» ripeté meccanicamente le
parole che il padre le aveva rivolto solo poche ore prima.
Sentì
il calore abbandonarlo mentre lei si scostava per guardarlo in volto,
ma lui non riusciva a distogliere lo sguardo dalla finestra di fronte.
«Credevo
che l'incontro con tuo padre fosse andato bene...» la rabbia
stava per esplodere nell'atto finale di quel triste melodramma.
«Non
volevo parlartene di fronte alla corte... ma, ti prego, Zelgadis,
guardami!» gli afferrò il viso con entrambe le
mani, ma lui scosse la testa, troppo testardo, troppo orgoglioso per
mostrarle le proprie macerie.
«Ti
prego...» sfiatò in un sibilo come se quello fosse
l'ultimo respiro.
Si
era spenta.
La
fiammella di vita, che fino a poche ore prima animava quegli occhi, era
ormai morta, uccisa da lacrime sgorgate con la forza di un fiume in
piena: ma la collera non si lasciò impietosire.
Con
un colpo di reni, Zelgadis si rimise in piedi. Non era da lui esibirsi
in reazioni esagerate e, anche in quel momento, mantenne la stoica
calma che lo contraddistingueva.
«E
adesso cosa mi resta?» le rivolse un sorriso amaro, sempre
con lo sguardo rivolto verso una delle finestre azzurre. «Il
mio posto non è più qui...»
«Rimani...
Zelgadis, rimani con me» fu la preghiera disperata che gli
rivolse tra le lacrime.
Le
gote arrossate, le labbra torturate dai morsi del senso di colpa e i
capelli che cominciavano a slegarsi. Si sentì un verme
viscido, perché vederla in quello stato, per lui e insieme a
lui, lo riempì per un attimo di soddisfazione.
«Cosa
mi stai chiedendo, principessa?»
sputò l'ultima parola come fosse veleno, ma non si
lasciò sopraffare dalla rabbia che gli ribolliva dentro.
In
un unico slancio Amelia gli avvolse le braccia attorno al collo, mentre
la complicata acconciatura cedeva nel tintinnio dei fermagli caduti.
«Ti
amo...» ripeté più volte straziata
contro la sua spalla, bagnando la stoffa che copriva la pelle di pietra.
Zelgadis
non poteva permettersi il lusso di crollare con lei, doveva lasciarla
andare e temeva di non avere le forze necessarie. Serrò le
mani attorno alle braccia esili della ragazza nel tentativo di
spingerla via, ma lei gli rimase avvinghiata come edera al traliccio.
«Amelia,
sai bene che non ha importanza, ma non posso che
ringraziarti» le mani si mossero a carezzare le ciocche
scure, con lentezza, per imprimere nella memoria il ricordo di quei
fili di seta.
«Grazie
di avermi amato.» le sussurrò posandole un bacio
sulla fronte.
Stava
lottando contro se stesso per trattenere molte, troppe emozioni. Quando
incontrò di nuovo quei grandi occhi blu non
riuscì a trattenere l'impulso vitale,
quasi quanto l'atto di respirare, e lasciò che scivolasse
via dai vincoli che gli aveva imposto.
Non
fu un bacio, fu uno scontro di labbra e tormenti, violento come le onde
che si abbattono sugli scogli durante una tempesta, il simbolo del loro
completo annientamento.
Un
gentile bussare alla porta spezzò l'incantesimo ed entrambi
si voltarono nella direzione di quel rumore molesto. Amelia
provò a ritrovare un po' di contengo, aggiustò le
pieghe del vestito, asciugò le lacrime come meglio poteva ma
senza allontanarsi da lui, quasi avesse paura che le sfuggisse.
A
lei non importava sapere chi ci fosse al di là della soglia,
ma voleva che andasse via.
Zelgadis,
invece, aveva approfittato di quel momento di distrazione per
allontanarla. Le diede un ultimo sguardo, un'ultima carezza sul volto
raffreddato dalle lacrime, poi le voltò le spalle diretto
verso la porta.
Un
urlo prolungato, un suono atavico e disperato, si levò dalla
principessa che, caduta sulle ginocchia, stringeva e tirava i capelli
fino a strapparli.
Gourry
irruppe nella stanza «Zelgadis, che hai combinato?»
chiese istintivamente dopo una breve occhiata.
«Un
disastro.» fu la laconica risposta.
•••
Le
fiamme del caminetto danzavano leggiadre sui ceppi, diffondendo un
lieve chiarore nell'oscurità della stanza. Zelgadis sedeva
su una poltroncina accanto al fuoco, ma il gelo che gli aveva fermato
il cuore era impossibile da sciogliere. Si passò una mano
tra le ciocche color malva e sospirò.
La
maledizione che gli era stata inflitta non aveva modificato solo il suo
aspetto, ma anche la sua essenza. Aveva acquisito strabilianti
vantaggi, dalla pelle resistente come roccia alla vista acuta di un
falco, ma aveva anche perso molto. Avrebbe voluto versare lacrime vere,
ma la verità era che non poteva. Non era disperato, era
anestetizzato. Immobile nel suo dolore, incapace di esprimerlo se non
in gelide parole prive di profondità.
Sospirò
ancora. Meglio
così...
Non
avrebbe sopportato il peso della vulnerabilità di fronte ad
un rifiuto così netto. Non c'erano nervi scoperti da
recidere, né compassione che lo rendesse ancora
più patetico.
Toc.
Toc. Toc.
Tre
poderosi colpi alla porta lo avvertirono della presenza di qualcuno.
Non si scompose. Se anche fosse entrato un troll brandendo una mazza
chiodata lo avrebbe lasciato fare.
«Greywords»
una voce rauca, cavernosa, lo chiamò, ma lui non aveva
alcuna voglia di rispondere. Chiunque fosse avrebbe dovuto
aspettare almeno fino all'alba, lui non aveva intenzione di lasciare il
castello quella notte come un criminale o, peggio, come un giocattolo
rotto da buttar via prima che la bambina
se ne accorga.
La
porta, però, nonostante fosse chiusa a chiave, venne
scardinata senza troppe cerimonie. L'energumeno al di là di
essa la trattenne per la maniglia prima che cadesse, come fosse un
foglio di carta, appoggiandola alla parete interna della stanza: si
trattava di un compito che richiedeva la massima riservatezza.
Zelgadis,
le gambe accavallate e il viso mollemente poggiato sul dorso della mano
destra, diede una rapida occhiata all'ospite inatteso con la stessa
noncuranza con cui avrebbe osservato uno scarafaggio. L'avrebbe
riconosciuto anche in mezzo ad una folla, se non altro per la puzza e
il portamento da scimmione: Davin Gulgran, galoppino del Comandante
della guardia reale.
Occhi
da topo, piccoli e scuri brillavano di luce sinistra, appena coperti da
una folta massa di capelli neri e lisci, unti da far ribrezzo, mentre
una cicatrice diagonale attraversava il viso, passando per la bocca in
una smorfia abominevole.
L'armatura
di ferro e cuoio non scintillava come le altre, era ruvida e opaca, le
ammaccature ne testimoniavano l'usura e i numerosi colpi presi; una
spada di grandi dimensioni pendeva sul fianco graffiando contro il
pavimento, ma lui non sembrava curarsene. Probabilmente non era di una
spada affilata che aveva bisogno per portare a termine i suoi
incarichi. Sporchi incarichi.
«Gulgran,
vorrei dire che è un piacere vederti, ma il tuo aroma
floreale è così intenso...»
lasciò cadere la frase. L'uomo aggrottò le
sopracciglia, disorientato.
«Ah,
non ti sforzare.» alzò gli occhi al cielo
lasciando andare la testa all'indietro sulla poltrona.
«Greywords»
ripeté Gulgran con lo stesso tono da orco
«cammina, senza fare storie» si fece da parte
indicando con il braccio il vano della porta.
Zelgadis
si alzò con gesti misurati, aveva perso la voglia di
scherzare e il suo sguardo si fece serio. Avrebbe lasciato davvero
Saillune, ma non avrebbe saputo dire se con le proprie gambe.
I
corridoi del castello erano ampi e illuminati dalla luna. I pavimenti
erano costituiti da lastroni di pietra bianca, intervallati da marmi su
cui era inciso lo stemma della casata reale, unito a cerchi
anti-demone, che al suo passaggio si illuminavano di una fioca luce
azzurrina.
Non
sapeva dove stava andando ma, data la presenza di quel malfattore,
cominciava ad intuire il perché. Il cortile interno? Il
boschetto di faggi? Oppure nei sotterranei? Dove si sarebbero
sbarazzati di lui?
Avevano
raggiunto un'ala del castello che non aveva mai esplorato. Si accorse
del cambiamento perché centinaia di luci si levarono dai
lastroni che componevano il pavimento su cui si trovava, rilasciando
una scarica che si diffuse violenta dai piedi alla ginocchia. Avrebbe
voluto gridare per il dolore, ma perdere anche
la dignità era fuori discussione.
Gulgran
si voltò indietro a guardarlo, con la torcia ancora in mano
a rischiarare la via.
«Incantesimi
contro i demoni come te.» ghignò maligno
«Ma tu lo sai, vero?»
«Ora
basta,» disse «dimmi dove stiamo andando»
strinse gli occhi in due fessure.
«Andando?
Siamo arrivati. Io ho finito.» fu la risposta seccata, poi
girò i tacchi abbandonandolo lì.
Zelgadis
rimase immobile, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e l'indice
ancora alzato mentre la schiena di Gulgran spariva dietro l'angolo.
Troppo
distratto dal dolore agli arti inferiori non si era accorto di trovarsi
di fronte ad una massiccia porta di legno scuro, su cui erano dipinti
molti altri incantesimi protettivi, che si intrecciavano in linee
bianche e dorate coprendola quasi del tutto.
Perfetto.
Cosa faccio? Busso rischiando le dita o attendo un segno celeste?
Era
sul punto di tornare indietro, ma il peso di una grossa mano sulla
spalla lo fece desistere.
Due
enormi baffoni scuri fu la prima cosa che vide, mentre un nome si
materializzò nella sua mente: Philionel El di Saillune.
Come
la figlia, anche il re aveva perso il sorriso genuino, mentre la
speranza che un tempo albergava in quegli occhi scuri aveva lasciato il
posto ad un'opprimente preoccupazione.
Aprì
la porta senza dire una parola e lo spinse dentro gentilmente,
richiudendola dietro di sé. La sala, in cui ipotizzava di
trovarsi, doveva essere priva di finestre perché il buio non
era rischiarato neppure dalla luce lunare, ma non ebbe troppo tempo per
chiedersi il perché: Philionel schioccò le dita e
due lunghe serie di torce iniziarono ad illuminarsi, veloci, una dietro
l'altra, mettendo in mostra quello che sembrava essere l'ennesimo
corridoio.
«Vieni
con me» disse il re con tono rassicurante, ma a Zelgadis
quella situazione piaceva sempre meno. Tuttavia, non si trovava nella
posizione di poter rifiutare, perciò seguì
Philionel... e capì.
Su
entrambe le pareti si susseguivano quadri raffiguranti uomini e donne a
grandezza naturale, sotto ad ognuno di essi c'era una targa d'oro
incisa a caratteri scuri.
«Zelgadis»
richiamò la sua attenzione «sai dove ci
troviamo?»
«Credo
di sì...» rispose incerto, non riuscendo a
staccare gli occhi dalla prima massiccia cornice dorata.
«Questa,
figliolo, è la Corte degli Antenati. Un luogo sacro per
questo regno, in cui solo i re e le regine che hanno agito nel nome
della giustizia e in difesa del proprio popolo hanno il diritto di
stare.» spalancò le braccia con il petto gonfio di
orgoglio.
«Philionel,
ho già parlato con Amelia e...»
«Figliolo,
lasciami finire.» lo interruppe con aria grave, tornando a
camminare.
«Lui
è Bartholomaeus IV» si fermò di fronte
ad un ritratto di un uomo dai lunghi capelli scuri. Le spesse
sopracciglia coprivano quasi del tutto gli occhi e la lunga barba
giungeva fino a metà busto, tenuta insieme da un nastrino
dorato che alle luci delle torce sembrò brillare come fosse
vero.
«Era
re quando Saillune venne distrutta dai demoni, difese fino all'ultimo
respiro i suoi sudditi. Suo figlio» indicò il
quadro accanto «Re Gerion II, la ricostruì
così come oggi noi la vediamo.»
Proseguirono
oltre e per molti metri non dissero nulla, finché non
giunsero all'ultimo quadro.
La
cornice era di foggia meno antica, più sottile, costituita
da un unico blocco in cui vi erano intagliate rose e foglioline in modo
così minuzioso da sembrare vere.
All'interno
vi era raffigurata una donna: una cascata di riccioli castani scendeva
su di una spalla, il ricco abito di rosso tessuto traslucido avvolgeva
la figura con eleganza. Un sorriso spavaldo le incurvava la bocca,
diverso dai volti seriosi che aveva visto fino a quel momento
raffigurati, mentre gli occhi, grandi e blu come l'oceano, sfidavano
l'osservatore.
«Elismarie
III di Remington, duchessa di Kalmaart. Mia moglie.»
pronunciò in un soffio angosciato le ultime due parole.
«Venne brutalmente uccisa, mentre tentava di salvare la vita
alla nostra primogenita, Gracia.»
«Gracia?»
la sorpresa aveva colpito Zelgadis in pieno petto con la forza di un
calcio «Credevo che Amelia fosse...»
«E
lo è, al momento.» il tono triste zittì
il ragazzo. «Amelia è l'erede al trono di Saillune
e...» riprese poi in tono accorato il re.
«E
io sono una chimera.» lo interruppe bruscamente «Lo
so, Philionel. E non intendo esservi d'intralcio, quindi se
è ciò che vuoi lascerò il regno... ma
non subito.» era determinato a far valere almeno le proprie
ragioni «Ho bisogno di qualche tempo per organizzare il
viaggio, per trovare un obiettivo e una meta. Dopo di che me ne
andrò per sempre. Amelia non sentirà
più parlare di Zelgadis Greywords, è una
promessa.»
Dolore
e fatica. Con quelle parole aveva siglato la propria condanna a morte
senza battere ciglio, come se la questione non lo riguardasse.
Dolore
e angoscia. Il senso di vuoto, da quel momento, come unico compagno di
vita.
Il
volto del re, nel frattempo, aveva perso l'espressione accigliata, le
spalle si erano sollevate e nel complesso sembrava che il grosso peso
che gli curvava la schiena fosse scomparso del tutto.
«Ero
sicuro che avresti capito.» sorrise, ma stava mentendo a se
stesso. «Avrai uno studio tutto per te, tutti i libri del
castello a tua disposizione, così come le informazioni
provenienti da ogni angolo del pianeta. Sono certo che troverai la tua
strada ragazzo!» gli mise di nuovo la mano sulla spalla
stringendo appena, con fare quasi paterno.
Una
condanna all'esilio permanente sarebbe stata più giusta
e sincera... ma forse Philionel non vuole davvero finire in questa
stanza. Si
disse Zelgadis, ricambiando il sorriso falso e stucchevole del re.
*Ho creato i personaggi di Davin Gulgran, Bartholomaeus IV, Gerion II, Elismarie III così come la casata Remington. Siete pregati di non prendere nulla senza pemesso
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