Succubus

di Cara Jaime
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Capitolo 11
Radlok


Una luce abbagliante mi indusse a coprirmi gli occhi con l’avambraccio. In piedi in precario equilibrio, sentii che le mie ginocchia si piegavano e urtavano qualcosa di rigido.

“Lilin!” esclamò una voce familiare. “Dov’eri finita?” Qualcuno mi sostenne, mentre cercavo di recuperare l’uso degli occhi immersa in un mare di sole.

“Dove siamo?” mormorai, inumidendomi le labbra secche. Sentivo la bocca e la gola asciutte come la sabbia del deserto. Tossii.

Mi sentii sollevare. Sobbalzai un paio di volte, poi la mia vista si scurì.


La mia coscienza si risvegliò facendomi ritrovare distesa su una stuoia, all’ombra di un albero dalla chioma bassa e ampia. Guardai la persona che mi stava inginocchiata accanto, stentando a riconsocerla, studiandone i lineamenti. La consapevolezza ritornò con uno schianto, tutta in un colpo.

“Lunos!” esclamai per quanto me lo permettesse l’intontimento di cui ero ancora preda.

“Accidenti, bellezza, mi hai fatto prendere un colpo!” affermò l’incubus. Si passò le dita tra i lisci capelli argentei, pettinandoli all’indietro. La mia mano si allungò e si posò dolcemente sul suo viso, il quale assunse un’espressione di sorpresa. Guardai io stessa la mia mano abbassarsi. Non mi ero accorta del gesto finché non era stato fatto.

“Che succede?” domandai puntellandomi con le mani per mettermi a sedere. Circondai le ginocchia con le braccia e guardai Lunos in attesa di una spiegazione.

“Non ricordi nulla?” domandò lui, prudente. Sembrava un animale da preda che avanza circospetto verso uno specchio d'acqua.

“No. Cosa dovrei ricordare?” ribattei candida. Non avevo alcuna memoria di ciò che mi fosse successo negli ultimi... Spostai lo sguardo verso il cielo, cercando di capire ritrovare il mio orientamento temporale.

“Ci siamo accampati sotto quest’arcata perché faceva troppo caldo per proseguire il viaggio,” iniziò il mio compagno.

“Viaggio? Dove andiamo?” Nemmeno quello riuscivo a richiamare alla memoria. Perchè ci trovavamo all'aperto e dove eravamo diretti? Il giovane incubus mi lanciò uno sguardo, ed era colmo di terrore.

“Mi sono girato e non c’eri più. Ti ho cercata in tutto il Colosseo. Quando sono tornato in questo punto ti ho vista spuntare fuori dal nulla e correre verso il sentiero sotto il sole.” Strinsi gli occhi e piegai la testa di lato, cercando di dare un senso a quella storia. Tentai di aggrapparmi ai ricordi, ma questi erano impalpabili come spettri. “Non ti ricorda nulla questo?”

“No,” ribattei dopo aver riflettuto qualche secondo. Lunos assunse la mia stessa posa e appoggiò la fronte sulle ginocchia. I capelli scivolarono in avanti nascondendo completamente il suo viso. Lo osservai curiosa per un momento, quindi mi avvicinai carponi e sedetti accanto a lui.

“Ti prego, dimmi che stai bene? Dimmi che non stai male per colpa mia,” La voce mi uscì quasi con un tono di supplica. In quel momento mi sentivo leggera e spensierata, senza passato né futuro, uno spirito che esisteva solo nel presente. Il giovane sollevò il capo, rivelando gli occhi lucidi e occhiaie scure per la stanchezza.

“Tranquilla. Non è colpa tua. Questo luogo è maledetto. Gli spettri che popolano questo luogo giocano dei brutti tiri a chi ha il coraggio di entrarci,” mormorò.

“Oh!” esclamai battendomi il palmo della mano sulla fronte. “Ma certo! Il viaggio, la strega e tutto il resto!” Improvvisamente ricordai ogni cosa, come se un fiume di memorie fosse stato versato nella mia mente da una brocca invisibile. Come avevo potuto scordarlo?!

“Ricordi tutto ora?” chiese Lunos, l' aria sempre più sciupata.

“Sì.” Chinai il capo. “Fatti una dormita. Ne hai bisogno. Quando ti svegli ripartiamo,” dichiarai. Mi trascinai sulla stuoia su cui mi aveva posato Lunos e vi stesi le membra indolenzite, incrociando le dita dietro la nuca. Insieme a tutti i ricordi erano tornate anche le sensazioni collegate ad essi. Il dolore della tortura subita sotto il comando di Fatuus. La pesantezza nel cuore per il fatto di non poter stare con Connor. A proposito di lui… la mia anima si sentiva così lontana da quel giovane che mi aveva rubato il cuore. Ogni immagine di lui, attraverso ogni reminiscenza, mi colpiva come una sottile lama infilata nel petto. Sembrava che gli ostacoli sulla mia via si moltiplicassero, quasi a volermi dire che non mi era concesso ciò di cui stavo andando alla ricerca.

“Sveglia, bambocci,” ordinò una voce roca. Aprii gli occhi e sbattei le palpebre. Dovevo essermi addormentata. Mi sollevai e sentii qualcosa pungermi la spalla.

“Piano, femmina!” grugnì un’altra voce, ruvida. Mi alzai in piedi lentamente e mi voltai.

Le creature erano alte la metà di me. Armate fino ai denti, indossavano armature di metallo. Dove il loro corpo non era coperto spiccava la loro pelle violacea che, insieme ai neri capelli corti e arruffati e gli occhi arancio, era un tratto distintivo della loro razza. Radlok. Cazzo, avevamo abbassato la guardia.




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