Dalla finestra
spalancata entra una luce tenue, timida, accompagnata da refoli d’aria
che
portano con sé tracce di smog e primavera in arrivo.
La città fino al limite
dell’orizzonte, il traffico, le voci-
e le pantofole azzurre
ai piedi del letto, allineate con cura.
La prima sensazione che Daniel avvertì, appena sceso
dall’auto, fu una sorta di formicolio alla base della testa. Gli scese
lungo il
collo fin fra le scapole, una via di mezzo fra un brivido e l’inizio di
un
orribile mal di schiena da cinque ore di guida ininterrotta.
Quanti anni erano passati dall’ultima volta in cui aveva
messo piede ad Ashland, dieci? Quindici? Nella mente si era fatto
un’idea di
come doveva essere il quartiere, fermo nel tempo come una fotografia,
tale che
si ritrovò spaesato per un attimo. Soprattutto l’azzurro sgargiante con
cui era
stata ritinteggiato l’esterno della sua vecchia casa, ecco, quello lo
costrinse
a strizzare gli occhi un paio di volte.
Forava le retine, ma doveva essere stata un’iniziativa
dell’intero quartiere – non c’era una abitazione una che fosse di un
colore
sobrio.
Recuperò dal sedile posteriore la sporta con i regali e la
giacca, alla valigia avrebbe pensato in un secondo momento. Scavalcò
una radice
che aveva divelto il marciapiede – questa non se la ricordava proprio,
gli
alberi erano in grado di crescere così tanto? Non era pericoloso? Un
bambino
poteva inciampare e rompersi qualcosa. O almeno, cinquant’anni prima
lui ci
sarebbe certamente inciampato e si sarebbe rotto un braccio come minimo.
«Daniel!» la voce di sua madre lo fece sussultare «Che cosa
stai guardando?».
Voltò il capo per fissarla e di nuovo avvertì quel
formicolio. Troppe chiamate su Skype e anni senza vedersi dal vivo,
aveva quasi
scordato che effetto facesse averla di nuovo davanti.
«La radice pericolosa», borbottò, abbastanza piano perché
lei non potesse sentirlo. Poi le sorrise, percorse a passo svelto il
vialetto
fino alla veranda e l’abbracciò con più slancio di quanto avesse mai
fatto.
Non la ricordava così minuta e fragile, ma il sorriso
radioso e quegli occhi brillantissimi erano sempre gli stessi,
nonostante le
rughe e i capelli cotonati e quel terribile vestitino a fiori da
vecchia.
«Mamma, sei bellissima ma avrei da ridire sul tuo look».
«Ma piantala di fare il professorino», rispose lei con una
risata «Com’è andato il viaggio?».
«Tutto bene. Noioso. Papà dov’è?».
«A pescare, tornerà per cena. Ti senti bene? Hai una faccia,
Dan, dovresti vederti».
Daniel si passò una mano fra i capelli, pettinandoli con le
dita. Dio, non ricordava l’ultima volta che aveva dormito decentemente,
logico
che sembrasse appena uscito da una settimana di guardie notturne.
«Sono solo un po’ stanco».
«Scommetto che hai fatto lo stacanovista come tuo solito,
negli ultimi tempi», sospirò sua madre, scuotendo la testa «Sei anche
dimagrito, disgraziato. Vedrò di metterci una pezza».
Daniel rise. Gli mancava la sana cucina casalinga.
«Ridi, ridi, aspetta che ti rimetta in riga e riderai di
meno. Vai a riposarti un po’, prima di cena».
Gli mancava anche questo essere trattato come un bambino di
dieci anni, a dirla tutta. Da ragazzo non credeva granché al tipico
modo di
dire “la mamma è sempre la mamma”, pensava che certe abitudini da
adulto
sarebbero finite. Quanto si sbagliava – e quanto gli faceva piacere
sbagliarsi.
Daniel aprì gli occhi e fissò il soffitto per qualche
istante. Una ragnatela di crepe lo percorreva per tutta la superficie,
pareva
sul punto di crollargli addosso da un momento all’altro.
Si mise a sedere con un movimento brusco, battendosi le mani
sul viso e sui vestiti – sul camice, aveva
sempre il camice – per scrollarsi di
dosso polvere e pezzi di intonaco.
Il letto cigolò sotto il suo peso, e nel silenzio della
stanza il rumore assunse sfumature più inquietanti di quanto fosse sano
pensare.
Non c’era altro, oltre a lui e al letto. Nessuna porta, di
nuovo, solo una finestra spalancata e
le sue tende malconce, e oltre la finestra un cielo che minacciava neve
e gli
edifici abbandonati di Centralia immersi nel fumo o nebbia o quel che
era.
Si alzò in piedi e si affacciò alla finestra. La cortina
biancastra cominciava qualche metro più in basso, sempre uguale; era un
mese
che si chiedeva quanto fosse in alto, sperava di riuscire in qualche
modo a
capirlo dagli altri edifici ma erano tutti troppo lontani, troppo
vaghi, troppo
confusi. Forse doveva buttarsi giù e basta, tanto era tutto finto, no?
Magari
sarebbe cambiato qualcosa.
Magari il dolore – dolore?
– avrebbe potuto-
Il trillo del cellulare lo svegliò di soprassalto.
Quante volte erano con questa, ventotto? Trenta?
*
Quando Daniel era ragazzino,
Centralia era agli occhi suoi e
dei suoi coetanei una sorta di spettrale parco dei divertimenti dietro
casa. Ricordava
con una certa nostalgia le decine e decine di pomeriggi passati a
gareggiare come
i bambini scemi che erano, prima in sella alle bici scassate e poi fra
le vie e
le crepe della piccola città.
A volte erano cacce al tesoro alla ricerca degli oggetti
abbandonati – tutto a causa di Allen Mosley, che trovò quel penny del
1925 e
diede loro l’illusione che Centralia potesse celare chissà quali
tesori, mentre
in realtà c’era ben poco e quel poco era stato lasciato indietro per un
motivo
– oppure sfide di coraggio basate sulle leggende che avevano già avuto
modo di germogliare:
il vecchio McGilligan, morto scorticato vivo dal vapore ustionante, che
di
notte si aggirava nelle strade per difendere la sua proprietà, o ancora
più
inquietante la storia dei due gemelli scomparsi nel nulla e le cui
risate si
dicevano riecheggiare in certi angoli di Centralia; sciocchezze, ovvio,
e pure
allora nemmeno ci credevano davvero, però era divertente stare al gioco.
Il divertimento si era mutato in morbosità dopo la scomparsa
della figlia dei South. D’improvviso Centralia si era fatta più
angosciante e
al tempo stesso era nata in tutti loro l’insana curiosità di scoprire
dove
fosse finita quella bambina, se fosse davvero, come si sospettava,
rimasta
intrappolata in una delle crepe e morta lì, soffocata o bruciata viva o
disidratata o chissà che altro.
Per quel che lo riguardava, l’idillio con Centralia si era
concluso il giorno in cui Thomas Welby aveva trovato la scarpetta
azzurra di
April South abbandonata in un giardino.
Daniel aveva passato una settimana in preda ad incubi
terribili, in cui April allungava le sue manine paffute e scarnificate
fuori da
una crepa per afferrarlo e trascinarlo giù con sé, in una escalation di
paesaggi infernali e creature mostruose.
Da quel momento non aveva più messo piede a Centralia, aveva
evitato di pensarci e col passare del tempo, il college, il lavoro a
Pittsburgh
e tutto il resto era pure riuscito a dimenticarsela – fino ad un mese
prima,
almeno, quando erano cominciati quei sogni. Doveva
esserci un collegamento; ma se nel caso di April era lampante cosa
avesse
scatenato gli incubi, ora, pur lambiccandosi il cervello, non aveva
trovato
un’unica motivazione sensata.
Una particina di lui, quella ricca di buon senso e di pace
spirituale, continuava a bisbigliargli di parlarne con Melanie; il
resto invece
inorridiva all’idea per una serie di motivi più o meno razionali, anche
se dopo
un mese di sogni identici cominciava un attimo a riconsiderare le
proprie
posizioni.
Era stata una mediazione fra le due parti a dargli l’idea di
tornare alle origini. Nella migliore delle ipotesi avrebbe risolto la
cosa
senza scomodare uno psichiatria, nella peggiore si sarebbe comunque
fatto
alcuni giorni di vacanza e un’indigestione di nostalgia e ricordi
d’infanzia.
Si era quindi incamminato a piedi verso Centralia subito
dopo colazione e un po’ la bella giornata di fine estate, un po’ i
paesaggi
familiari, nel giro di dieci minuti si era ritrovato preda di un
insolito buon
umore.
Ai tempi gli occorrevano non più di quindici, venti minuti
di bici; una gradevole passeggiata, quindi, e a pensarci faticava a
ricordare
l’ultima volta in cui era uscito a fare due passi per il gusto di farlo
e
basta. Trent’anni prima, forse. Troppi impegni e troppi pochi bei
paesaggi.
Il lieve odore sulfureo lo raggiunse per primo,
strappandogli un mezzo sorriso, e fu seguito nel giro di poco dalle
prime crepe
nell’asfalto. Ne scavalcò una ampia, da cui facevano capolino timidi
sbuffi di
vapore, e proseguì lungo la strada imbrattata. Avrebbe voluto
condannare chi si
era divertito a vandalizzare l’asfalto, ma era abbastanza sicuro che
pure lui e
i suoi amici avessero contribuito almeno una volta, con una bomboletta
spray
recuperata chissà dove.
Alzando lo sguardo però rimase deluso, il sorriso si
trasformò in una smorfia di disappunto.
La lunga strada, un tempo costeggiata da casette regolari,
attraversava ora un prato brullo costellato da alberelli rachitici. Gli
tornò
alla mente qualche vago ricordo di frasi intercettate dai discorsi
degli
adulti, piani per la demolizione e cose del genere, e trovò stupide le
aspettative che si era costruito di trovare tutto uguale ad un tempo.
Percorse lentamente l’intera strada e alla fine si fermò per
guardarsi alle spalle.
Il disappunto si trasformò in una sensazione più gradevole,
pacifica, come se un qualcosa aperto da lungo tempo fosse stato
richiuso e
fosse pronto per essere riposto.
Forse era questo che doveva fare, che gli stava ordinando il
suo subconscio: prenditi una vacanza, torna a casa, ricorda le tue
radici e fai
tesoro di ciò che è cambiato, eccetera eccetera eccetera, tutte cose
che
avrebbe detto Melanie – per un attimo quasi sentì la sua voce, che
fastidio.
Aveva una settimana abbondante a disposizione, ne avrebbe
approfittato per visitare anche altri vecchi posti che ricordava con
affetto e
poi via di nuovo con le visite, i convegni e quel case report che
doveva revisionare
e spedire.
Prese un respiro profondo – e tutta la stanchezza accumulata
in quel mese parve scomparire per un attimo.
Si svegliò lentamente, in un modo così gradevole che non
ricordava di aver mai sperimentato prima.
Era disteso su un fianco e davanti agli occhi, ad una
distanza tale da poterla colmare allungando il braccio, si stagliava un
muro
bianco ricoperto di crepe. Batté le palpebre, osservandolo per alcuni
secondi,
e lo stomaco gli si strinse in una morsa.
Frammenti d’intonaco ricoprivano il pavimento di mattonelle grigiastre
e, ne era certo, ricoprivano anche il suo corpo, come se fosse rimasto
anni
immobile in quel letto.
Scattò su, sollevando una nuvola di polvere bianca, e si
batté le mani addosso per scrollarsene di dosso il più possibile.
(Dio, basta)
Si voltò verso la finestra spalancata su Centralia. Sempre
lo stesso cielo da neve, sempre nebbia e fumo, sempre il silenzio.
(Non è possibile)
Si alzò dal letto e questo cigolò, come
sempre. Si affacciò
alla finestra e guardò fuori e tutto era così uguale e
così silenzioso che sentiva il cuore pulsargli nelle
orecchie e gli sembrava di impazzire.
Gli gorgogliò in gola un lamento e lo lasciò uscire.
Riecheggiò per qualche secondo nella stanza, poi tornò il silenzio.
(È un incubo)
Si voltò e percorse il perimetro della piccola stanza,
battendo le mani su ogni centimetro di muro e pestando il pavimento.
Doveva
esserci un modo, doveva esistere qualcosa per uscirne, Cristo,
era tutto così delirante e non-
Un lampo di azzurro catturò il suo sguardo, alla periferia
della retina. Praticamente brillava, in mezzo a tutto quel bianco e
grigio.
Spostò il letto con una spinta, smuovendo talmente tanta
polvere da scatenargli un attacco di tosse di mezzo minuto, e appena
ripreso il
controllo si inginocchiò e fissò la scarpetta in silenzio.
C’era un nesso. Doveva
esserci un nesso.
«Bicycle».
Daniel aprì gli occhi e voltò il capo verso il comodino.
«Bicycle», ripeté
il cellulare, accompagnandosi con vibrazioni sul legno non
particolarmente
armoniche «Bi-».
Con un gesto nervoso, Daniel accettò la chiamata e rispose
con un “Pronto?” così fiacco da risultare a malapena udibile.
Dall’altra parte
esplose fragorosa la risata di Jeffrey.
«Non ti avrò mica
svegliato. Lo sai che ore sono?».
«Ho scordato la sveglia. Succede in vacanza, sai. Cosa
vuoi?».
«I normali esseri
umani in vacanza sono più rilassati, ma non mi stupisce che tu sia del
solito
acidume, i normali esseri umani hanno anche più buon gusto per le mete
turistiche.
Ti stai divertendo fra gli sterpi e i paesaggi tristi?».
«È una pacchia, specie il profumo di sigaro di prima
mattina» e in ogni momento del giorno, dato che suo padre sembrava
sentirsi
male all’idea di privarsene. Forse si divertiva a collezionare tumori.
«Sai poi
cos’è che mette proprio di buon umore? Essere svegliati da gente
simpatica.
Cosa vuoi?».
«Sapere quando torni.
Ho un biglietto per la partita degli Eagles, okay? Però è il 26, mi
serve un
cambio. Ti giuro che se questa volta mi tradisci poi ti avveleno il
caffè per
un mese. Dimmi che puoi, dai. Dai».
Daniel si passò la mano libera fra i capelli brizzolati e si
grattò la nuca. Manco sapeva se sarebbe stato ancora vivo il 26, di
questo
passo.
«Boh, sì, credo si possa fare. Comunque torno a Pittsburgh
prima del 20, poi ti confermo. Ti richiamo io, tu non disturbarti».
«Grande, Dan, ti devo
un favore. Ci si risente!» Jeffrey rise e riattaccò, e Daniel si
soffermò
qualche istante sulla schermata del cellulare.
Era quasi mezzogiorno, assurdo, e dire che la sera prima era
crollato indecentemente presto, non riusciva a ricordare l’ultima volta
in cui
aveva dormito così tante ore di fila. Persino senza sveglia, era una di
quelle
persone con l’orologio biologico settato ad orari da gallina fin
dall’adolescenza.
Certo, tutta quella stanchezza accumulata doveva in qualche
modo farsi sentire, e quei sogni opprimenti lo lasciavano se possibile
più
spossato che prima di coricarsi.
Questo in particolare gli pareva fosse durato più del
solito, sentiva come se le ore in quella stanza angosciante fossero
passate
davvero – anche le altre volte aveva avuto questa sensazione, ma ora
era
amplificata, quasi tangibile e così
intensa da essere inquietante.
(E la scarpetta
azzurra)
Se non altro fuori faceva di nuovo bel tempo – l’ideale
per un’altra passeggiata,
pensò, e gli uscì qualcosa a metà fra un sorriso e una smorfia isterica.
*
Una cosa era rimasta identica a come
la ricordava, anzi,
sembrava fosse stata appena restaurata.
La chiesa di Centralia si stagliava imponente nel suo
candore, circondata da alberi su cui cominciavano a scorgersi le prime
avvisaglie dell’autunno in arrivo.
Aveva un che di maestoso, anche se da lontano l’aveva
trovata così “alla Disney” da suscitargli una risata e farlo pure
vergognare un
po’.
Salì la scalinata lentamente, contando i gradini di pietra
come faceva sempre da ragazzo (leggenda voleva che il loro numero
cambiasse ogni
volta), e arrivato in cima diede le spalle alla facciata e lasciò
vagare lo
sguardo su quel poco che rimaneva di Centralia.
Era così vuota, accidenti, perché diavolo doveva continuare
a sognarsela? Anche se ora quello che gli dava i brividi era la
scarpetta.
Continuava a vedere, a sentire flash
di azzurro intenso dietro gli occhi, in mezzo al cervello, e ogni volta
un
brivido gli percorreva la schiena.
Era ovvio che fossero tutti rimasugli di quei momenti di
angoscia di quando Thomas l’aveva trovata, nascosta fra le sterpaglie
nel
giardino di una casa. Cristo, non ci pensava da anni eppure sarebbe
potuto
essere successo il giorno prima.
Ricordava con una chiarezza assurda la faccia stupida di
Thomas mentre raccoglieva la scarpetta, e come poi la sua espressione
fosse
mutata nel giro di pochi secondi, gli occhi sbarrati e le parole morte
in gola,
giusto il tempo di realizzare cosa stesse stringendo in mano. E il
gelo, e dopo
lunghissimi secondi di immobilità la corsa alle bici e poi verso casa e
la
settimana di incubi terribili – Dio, com’era riuscito a dimenticare
tutto ciò
per così tanti anni, senza nemmeno un ricordo sfuggevole o un dubbio?
Si lasciò cadere sul primo scalino e portò le mani a
sorreggere il mento.
Gironzolare attorno al punto preciso in cui avevano
ritrovato la scarpa poteva essere un’idea, peccato che non se lo
ricordasse né
riuscisse a ricostruirlo, mancando del novanta per cento dei punti di
riferimento. Era abbastanza sicuro che fossero ben distanti dalla
chiesa, ma
ahimè questo non faceva che allargare il campo. Forse verso ovest, dove
prima-
«Le funzioni sono solo il giovedì e la domenica mattina»,
disse una vocette squillante alle sue spalle, e Daniel sussultò. Ruotò
il torso
e si trovo davanti una bambina di dieci, dodici anni al massimo.
Indossava una felpa giallo intenso e un paio di pantaloncini
di jeans che parevano più da maschio che da ragazzina, e dalla quantità
di
fango sugli scarponcini doveva essere spesso a giro per i boschi.
«O forse ti stai solo godendo il paesaggio?», continuò la
bambina, dondolandosi sui piedi. Con le mani infilate così nella tasca
della
felpa, se fosse caduta in avanti si sarebbe come minimo rotta un dente
«C’è chi
ha questa perversione e va in giro a cercare paesaggi brutti. O magari
hai
rinnegato Dio e per questo gli dai le spalle con aria di sfida?».
«Ho questa perversione e guardo il paesaggio, sì», borbottò Daniel
«Non dovresti essere a scuola?».
La bambina inclinò la testa a destra e a sinistra più volte,
agitando i capelli castani legati in una coda alta «Io non vado a
scuola».
«Ho qualche riserva su questo. Come ti chiami? Abiti qui
vicino?».
«Più vicino di quanto pensi», sogghignò la bambina. Accennò
con il capo alla chiesa e piroettò giù per i gradini, fermandosi a metà
della
scalinata con una giravolta.
«Mi chiamo Ariel West. Passami a trovare, se ti va!»
esclamò, e si lanciò di corsa per il resto delle scale per poi
scomparire più
avanti, fra gli alberi. Sempre con le mani in tasca, per essere sicura
di farsi
male, proprio.
Daniel la osservò finché non fu sparita dalla visuale – non
era difficile, con la felpa di un colore così acceso – poi si voltò
verso la
chiesa.
Passami a trovare? Era figlia del prete o del custode? O
forse-
No, dai. Il cimitero no. Non aveva mai creduto a queste cose
e nemmeno in un momento simile, in cui doveva ammettere di trovarsi più
vulnerabile, riuscivano a sembrargli un minimo plausibili.
Fece comunque il giro della chiesa fino al cimitero qualche
decina di metri dietro di essa, per scrupolo. Le lapidi non erano
numerose, ci
mise pochi minuti a controllarle tutte e a scoprire che sì, in effetti
una
Ariel West c’era, era stata molto amata ed era morta nel 1915 a tredici
anni.
Chiaramente la bambina lo prendeva per il culo.
A svegliarlo questa volta fu il gelo penetrante. Lo sentiva
sotto la pelle, nei muscoli e nelle ossa, e pochi istanti dopo il gelo
arrivò
anche la sensazione del suolo duro sotto la schiena.
Si girò su un fianco e le dita sprofondarono fra ciuffi
d’erba umidiccia; briciole di terriccio gli si infilarono sotto le
unghie,
mentre artigliava il terreno per alzarsi.
Per un istante ci credette. Pensò davvero a tutte le
possibili situazioni che avrebbero potuto portarlo ad addormentarsi
all’esterno
– un attacco di sonnambulismo, una sbronza, qualsiasi cosa – ma gli
bastò
un’occhiata verso il basso, l’accorgersi di avere addosso il camice,
per fare
svanire la flebile speranza che fosse tutto reale.
Nell’atmosfera uggiosa e gelida di quello che sembrava un
giorno di novembre, tante piccole lapidi disordinate gli si stagliavano
attorno, circondandolo, e poco lontano poteva scorgere il lato
posteriore della
chiesa di Centralia. L’aria era umida, una via di mezzo fra una
pioggerella
fine e un banco di nebbia, e la stessa umidità l’avvertiva nei vestiti,
fra i
capelli, sulla pelle, tanto reale da fargli temere per una polmonite.
Doveva esistere qualche caso in letteratura di sogni del
genere. La neurologia non era esattamente il suo campo, ma doveva
esserci qualcosa.
Mosse qualche passo attraverso il cimitero, più per godere
del suono delle scarpe nell’erba che per andare effettivamente da
qualche
parte. Quel silenzio angosciante era una costante, come pure il cielo
da neve
che lo sovrastava, ma il cambio di location aveva del miracoloso.
Si strinse le braccia attorno al petto per scaldarsi e
girovagò fra le tombe alla ricerca di quella di Ariel West. Di nuovo
non aveva
un motivo preciso, era più una sensazione, istinto; e l’istinto non lo
tradì,
perché nell’esatto istante in cui raggiunse la lapide un vento pungente
si levò
con prepotenza, sferzando l’intera Centralia e obbligandolo a strizzare
gli
occhi.
Il vento cessò poi all’improvviso dopo pochi secondi, così
com’era comparso, e Daniel si rese conto che qualcosa era cambiato
perché una
delle tasche, prima vuota, ora pesava e gli sbatacchiava contro una
coscia.
Sapeva benissimo cosa vi avrebbe trovato e gli servirono diversi
respiri
profondi per trovare il coraggio di accertarsene.
La scarpetta, ovvio.
La vernice azzurra era lucidissima e la suola intonsa,
sembrava appena uscita dalla fabbrica – e gli sovvenne un ricordo, un
frammento
di quarant’anni prima, di quando ancora non aveva finito le medie e la
sua
maggiore preoccupazione era Rachel Wilson che non lo degnava di uno
sguardo.
C’era la piccola April, radiosa nella massa informe dei suoi
riccioli color mattone, le sue amichette e la luce calda del sole al
tramonto
che investiva la veranda dei South.
Non ricordava che ci facesse lui da quelle parti, agli
antipodi rispetto a casa sua o ai posti che frequentava di solito –
forse una
commissione? Un lavoretto? Un semplice giro in bici? Quello che
ricordava
chiaramente però era la gioia con cui April agitava le gambette,
l’entusiasmo
che metteva nel mostrare alle amichette le scarpe nuove. L’ultimo
regalo che
avrebbe ricevuto, dato che era scomparsa nemmeno una settimana dopo.
Tutto molto bello e poetico, certo. Era il significato
globale che continuava a sfuggirgli.
Soppesò la scarpetta per un attimo, poi la rimise in tasca e
abbassò lo sguardo sulla lapide.
“Qui giace la nostra amata
Ariel West
Il tuo sorriso continuerà ad
illuminarci dai cieli.
Feb. 03, 1902 – Dec. 12, 1915”
Ora, considerando che il giorno in
cui avesse cominciato a
credere ai fantasmi avrebbe richiesto lui stesso un TSO d’urgenza,
quella
marmocchietta aveva comunque combinato qualcosa.
Forse aveva incasinato ulteriormente la sua mente già in
equilibrio precario suggestionandolo, o forse era stato solo l’entrare
nel
cimitero ad innescare qualcosa, fatto stava che grazie a Dio era uscito
da
quella stanza soffocante e sperava di non rimetterci più piede, anche
se ora
moriva di freddo.
Si strofinò le braccia e si incamminò verso la chiesa, nella
speranza che fosse aperta; speranza che per una volta non fu infranta,
e lo
sorprese a tal punto trovare il portone aperto che gli sfuggì un
risolino.
L’interno era esattamente come lo ricordava, con le panche in legno
disposte in
due file, le vetrate lungo le pareti della navata e l’altare in fondo,
con una
valanga di immagini sacre e dipinti a separare il presbiterio dal resto.
L’unica luce era quella che proveniva dall’esterno, e da
biancastra che era fuori in certi punti veniva distorta dalle vetrate a
creare
una miriade di colori spenti.
Forse era ancora più freddo che all’esterno, ma l’avere un
tetto sopra di sé lo rassicurava; stringendosi nelle braccia, Daniel si
sedette
quindi su una delle panche più prossime all’altare e attese.
Non poteva far altro che lasciar passare il tempo.
Il trillo della sveglia era diventato il suono più gradevole
dell’universo, ma benché la cosa fosse d’una tristezza infinita non era
la sua
preoccupazione principale.
Fissò per qualche istante lo schermo del cellulare, anticipò
la sveglia per il giorno dopo alle sette e si catapultò in bagno. Non
aveva mai
sentito tanto il bisogno di una doccia bollente – c’era quel gelo
dentro le
ossa che non voleva saperne di andare via.
*
La mattinata l’aveva trascorsa
attaccato al portatile,
cercando su PubMed qualsiasi lavoro su sogni ricorrenti e molto intensi
che
potesse dargli una spiegazione, un indizio, un minimo accenno a
qualcosa di
medico; venivano descritte molteplici situazioni e tirate in ballo le
malattie
più disparate, ma niente che potesse essergli utile, come temeva. Per
un attimo
aveva pure avuto la tentazione di googlare alla ricerca di qualche
fenomeno
paranormale – un momento di debolezza scomparso fortunatamente in
fretta, ché
per quanto potesse essere messo male non era ancora così disperato.
Il problema principale cominciava a essere la stanchezza.
Dopo la doccia e un paio di caffè si era sentito meglio, ma gli
sembrava di essere
appena smontato dal turno di notte. Un turno di notte lungo, al gelo, e
che si
ripeteva da settimane.
Dopo pranzo aveva tentato un sonnellino sul divano – luogo
che da ragazzo gli aveva regalato le migliori dormite brevi in assoluto
– ma
forse i troppi pensieri, forse quella stanchezza eccessiva che a volte
aveva
l’effetto paradosso di allontanare il sonno, non era riuscito a
chiudere gli
occhi manco per un minuto.
Non gli era rimasta che una possibilità, e quindi ora si
trovava per il terzo giorno di seguito alle porte di Centralia – questa
volta
in auto, perché non aveva le forze per una lunga camminata sotto il
sole a
picco.
Parcheggiata la macchina poco prima che la strada diventasse
impraticabile, Daniel si incamminò verso la chiesa, percorrendo le
stradine che
costeggiavano appezzamenti di terreno ora vuoti.
A metà percorso si fermò e si girò indietro ad osservare la
strada principale, colto da un flash. Era quasi sicuro che quel giorno,
dopo
aver trovato la scarpetta, non avessero svoltato che un paio di volte
prima di
arrivare alle biciclette – biciclette che lasciavano sempre fra gli
alberi
all’inizio della strada, più o meno dove ora aveva lasciato la
macchina.
Tornò sui propri passi e gli bastò giusto qualche occhiata
per trovare gli alberi in questione, portavano ancora i segni del loro
passaggio. Si sentivano quasi onnipotenti a incidere i loro nomi
ovunque con il
coltellino di Allen, che bei tempi.
Non l’aveva forse perso proprio quel giorno, il coltellino, mentre
correvano alle bici? Dai meandri della memoria sbucava qualche flash
della
faccia affranta di Allen che diceva “domani torno là e lo cerco”.
Chissà se
l’aveva ritrovato, poi. Chissà come se la passava.
Chissà se era vivo.
«Hai fatto troppo rumore arrivando, i morti non gradiscono»,
disse la stessa vocetta del giorno prima, riuscendo di nuovo a
coglierlo di
sorpresa. Attorno l’unico rumore era quello del vento, possibile che
non
l’avesse sentita arrivare?
«Ti muovi in modo molto silenzioso», borbottò Daniel
ruotando il capo. Gli occhi color pece della bambina lo fissarono
penetranti e
lo fecero vacillare per un istante.
Indossava la stessa felpa giallo brillante, e si dondolava
sui piedi sempre con le mani infilate nella tasca.
«Ovvio, noi morti esistiamo su un altro piano di realtà,
decidiamo noi cosa tu puoi o non puoi percepire».
«Potrei provare con un ceffone e vedere se ti percepisco
oppure no», sbottò Daniel. Forse non avrebbe dovuto, in fondo lui era
pur
sempre un adulto e quella una mocciosa sconosciuta, ma gli ricordava
troppo
Emily quando aveva quell’età ed era un capriccio dopo l’altro.
La bambina rise, e in risposta Daniel corrugò la fronte. Si
aspettava tutto fuorché quella, di reazione.
«Sei passato a trovarmi, vero?», continuò la bambina,
esaurita la risata «I miei vicini hanno detto di averti visto. Sai,
loro non
possono allontanarsi come faccio io, però sono attenti osservatori».
«Cristo, ragazzina, mi metti l’angoscia. Come ti chiami?».
«Te l’ho già detto. Ariel West. Vuoi vedere l’etichetta
della maglia? Mamma mi ha cucito il nome su tutto, per il campo estivo».
Qualcosa dentro Daniel si alleggerì. Ovviamente non le aveva
creduto nemmeno per un secondo, però ora si sentiva comunque più
tranquillo.
Doveva fare qualcosa per questa estrema suggestionabilità,
non era da lui.
«Dubito che nel 1915 qualcuno portasse vestiti come questi» disse,
accennando un mezzo sorriso «Sicuramente non quei pantaloni».
La bambina rise di nuovo «Allora sei passato davvero a
trovarmi! Potevi almeno portarmi dei fiori».
«Lo sanno i tuoi genitori che passi le giornate qui da
sola?», chiese Daniel glissando sull’argomento bambina
morta «È pericoloso, potresti farti male».
(Potresti scomparire
nel nulla come April)
«Non sono da sola», rispose la bambina. Daniel batté gli
occhi e si guardò attorno per avere conferma che sì, non era ancora
così fuso
da essersi perso qualche altra forma di vita.
«Se ti riferisci agli altri morti, beh, ti pregherei di
smetterla perché non-».
«Mannò, loro non sono molto di compagnia. Parlo di Penny».
La bambina indicò col capo qualcosa alla propria sinistra –
peccato solo che non ci fosse niente.
Cristo.
«Scusa, rettifico. Lo sanno i tuoi genitori di questi
problemi che hai?».
La bambina rise nuovamente. Estrasse la mano sinistra dalla
tasca, afferrò l’aria e di nuovo fissò Daniel con i suoi angoscianti
occhi
nerissimi.
«Sei tu che non vedi Penny», scandì lentamente, seria,
riducendo poi la voce a un sussurro «Forse sei tu che
hai dei problemi».
Daniel avrebbe voluto replicare qualcosa, ma gli morirono le
parole in gola.
«Ci vediamo! Ti saluta anche Penny», squittì la bambina. Si
girò su se stessa e si allontanò, sempre afferrando l’aria con una
mano, e
Daniel rimase fermo come un ebete ad osservarla andare via.
Troppe cose strane, troppo casino, troppa stanchezza.
Il suo cervello cominciava a dare segni di resa.
*
Se c’era una cosa che a Daniel
mancava, nel suo appartamento
in centro a Pittsburgh, era la sensazione rilassante che gli dava
sedersi in
veranda dopo cena. Certo, non sarebbe mai tornato a vivere in un
paesino
disperso come Ashland, i pro della grande città stravincevano senza
pensarci
due volte, ma la veranda, la panca con i cuscini morbidi e il caffè
dopo cena
nel silenzio della sera erano validi argomenti. Chiuse gli occhi e per
qualche
secondo si sentì meglio, poi il cervello cercò di spingerlo nel sonno a
tradimento, e Daniel si costrinse in una posizione più scomoda per
stimolare la
lucidità.
Non se ne parlava neanche di andare a dormire, non così
presto almeno. In cucina c’era caffè per assisterlo almeno almeno per
le
successive tre ore, poi avrebbe valutato il da farsi. In genere stare
attaccato
al portatile lo teneva sveglio, poteva essere un’opzione.
La porta di casa cigolò e Daniel fu raggiunto da una fetida
zaffata di fumo di sigaro, che ormai aleggiava attorno a suo padre come
un’aura. Ne precedeva l’arrivo anche a metri di distanza.
«Ehi, Dan», disse, la voce roca dei fumatori incalliti «Al
volo. La vecchia bisbetica vuole sapere se ad Emily piacciono ancora le
conserve, domani andiamo da Adele a fare scorte. Per le torte in
beneficenza,
sai. Quando era piccola andava matta per quella ai lamponi, vero?
Ricordo
bene?».
Daniel corrugò la fronte, non ne aveva idea. Ma davvero era
importante?
«Sì, sì, le piaceva», mentì «Le piaceva un sacco».
«Okay per i lamponi!», urlò suo padre verso l’interno della
casa, poi tornò a fissare Daniel «Perché non porti anche Emily, la
prossima
volta? È un po’ che non la vediamo».
«Venite voi a Natale,
piuttosto. Sono certo che Emily ne sarebbe molto felice».
Suo padre rise, intervallandosi con colpi di tosse e qualche
rantolo.
«E chi ci arriva a Natale?», disse, e tornò dentro casa
sempre con un’allegria fuori luogo.
«Almeno mamma, spero!», esclamò Daniel, poi aggiunse un
debole “Io no di certo”. Piegò indietro la testa, poggiandola sullo
schienale
della panca, e si concesse un sospiro e qualche altro istante ad occhi
chiusi.
Si svegliò di soprassalto, tirando su la testa così
bruscamente da sentire male al collo e rimanere stordito per un attimo.
Il fetore di sigaro era stato sostituito da quello
ammorbante dell’incenso, e nel buio della notte la chiesa di Centralia
era
illuminata da candele e lumini disposti lungo tutta la navata, uno
all’altezza
di ogni panca, e poi tutti attorno all’altare, in cerchi concentrici.
«Dan!».
Daniel aprì gli occhi e sollevò cauto il capo. Sua madre gli
poggiava una mano sulla spalla e lo osservava, una luce di
preoccupazione negli
occhi.
«Dan, tesoro, ti sei addormentato. Vai a farti una dormita
decente, hai delle occhiaie terribili».
Daniel boccheggiò e annuì, incapace di formulare una
risposta sensata.
Si alzò in piedi, allungò e ruotò il collo per sciogliere i
muscoli – era da folli sentirli ancora doloranti, vero? – e si diresse
in
camera da letto dopo una buonanotte frettolosa.
Non erano nemmeno le undici e già crollava dal sonno,
peccato che non si sentisse per niente pronto.
Forse poteva resistere almeno un altro paio d’ore.
Anticipò la sveglia sul cellulare di mezz’ora, alzando il
volume per precauzione, e recuperò dalla valigia uno dei libri che si
era
portato dietro – una vecchia edizione de “L’isola del tesoro”, in preda
al trip
di nostalgia gli era venuta voglia di rileggerlo.
Daniel si rese conto di non essere solo già qualche istante
prima di svegliarsi. Un brivido gli attraversò il corpo e socchiuse gli
occhi
lentamente, con circospezione, stringendo i pugni su quello che doveva
essere
il legno duro della panca.
L’odore di incenso era penetrante, inebriante, e le luci
soffuse dei lumini riempivano di ombre le sagome umane che popolavano
la
chiesa.
Trattenendo il respiro, Daniel si costrinse a ruotare il
capo.
Non sapeva se sentirsi più
sollevato o inquietato dal fatto che ciò che gli era seduto accanto
fosse un
manichino. Non uno di quelli da negozio di vestiti, magari;
era un manichino da BLS, quegli affari da migliaia di
dollari su cui si era esercitato decine di volte nelle manovre di
rianimazione,
ed erano disseminati un po’ per tutta la chiesa, tre o quattro in ogni
panca.
Il manichino accanto a lui era seduto
in modo composto, la schiena poggiata allo schienale e il capo piegato
leggermente indietro a fissare il soffitto. Il suo petto si alzava e
abbassava
regolarmente, accompagnandosi di tanto in tanto con un battito degli
occhi, ed
esaminandogli il collo Daniel avvertì la carotide pulsargli sotto i
polpastrelli. Si aspettava quasi di sentire, da un momento all’altro,
la voce
metallica di qualcuno uscire dal manichino e simulare una vecchietta
con un
misterioso dolore al petto, o un giovane caduto da cavallo, o un
vecchio con la
tosse, qualsiasi cosa – ma il manichino continuava a respirare nel suo
modo
impercettibile, in silenzio.
Avrebbe voluto staccarlo, ma i
cavi che solitamente si trovavano sul fianco non c’erano.
Non era possibile che funzionasse
da solo, così, senza corrente.
«Sto peggiorando», disse Daniel,
e lo ripeté a voce più alta, cercando di infrangere quel silenzio
opprimente.
Si asciugò le mani sudate sul camice e si alzò in piedi con movimenti
cauti,
perché il manichino doveva essere in equilibrio precario (come
diavolo faceva a stare seduto? Ne aveva mai visto uno seduto?)
e se fosse scivolato gli avrebbe fatto venire un infarto.
Si guardò attorno, spostandosi intanto al centro della
navata. Gli altri manichini erano simili, con la foggia di un uomo
adulto,
tutti senza cavi e con gli occhi vuoti fermi a fissare chi il soffitto,
chi
l’altare, chi le pareti.
Ti prego, fa che non
facciano come negli horror, si ritrovò a pensare Daniel. Si strinse
nelle
braccia e indietreggiò con attenzione lungo la navata, un passo dopo
l’altro
verso l’uscita.
(Dio, fa che non si
voltino verso di me)
Quando sentì la schiena battere contro qualcosa di solido,
si girò e spalancò la porta lanciandosi fuori. Corse fino a metà della
scalinata e lì si fermò ansimante, aspirando boccate di nebbia (o vapore?) tanto fitta da sembrargli un
aerosol. Si aspettava di sentire un qualche rumore nel momento in cui
avesse
varcato la soglia, qualcosa tipo “stridio di decine di teste che si
voltano
verso di me”, ma l’unico suono erano stati i suoi passi sul selciato.
Tornò indietro di qualche scalino, giusto quelli che gli
bastavano per poter scorgere l’interno della chiesa, e poi qualche
altro passo
ancora fino a un paio di metri dall’ingresso. Vedeva le teste dei
manichini
sopra gli schienali delle panche, fissavano ancora l’altare o il
soffitto. Non
era cambiato niente, non si era mosso niente, c’era solo silenzio e
basta.
«Fanculo», sbottò sottovoce. Si fiondò di nuovo giù per la
scalinata e sempre a passo svelto si inoltrò per le stradine di
Centralia,
puntando deciso alla via principale. O almeno quella era l’intenzione,
perché
ora sorgevano edifici al posto degli appezzamenti brulli e quegli
edifici gli
bloccavano la visuale.
Erano esattamente come li ricordava, come li aveva visti l’ultima
volta, alcuni sul punto di crollare al primo soffio di vento e altri
che
parevano appena abbandonati. Qua e là svettavano residui delle
recinzioni in
legno; all’altezza di un vialetto d’ingresso era pure rimasta una
cassetta per
le lettere dalla vernice scrostata e con lo sportellino appeso triste
per un
cardine solo.
Il cielo da neve non offriva appigli per orientarsi, perciò
Daniel imboccò una stradina a caso e proseguì sempre diritto.
La nebbia (il vapore?)
era sempre stata così fitta? Ricordava certe giornate, soprattutto
d’inverno,
in cui il fuoco sotterraneo dava spettacolo ed enormi nubi di vapore si
levavano dalle crepe nel terreno, ma non certo in mezzo alle case,
erano le
basse colline attorno a diventare camini, e non a queste temperature.
(Da quanto non è più
freddo?)
Sotto le suole poteva sentire il terreno tiepido, erano
passati cinquant’anni e le fondamenta di Centralia non avevano ancora
smesso di
bruciare.
Nella nebbia qualcosa stridette e poi cadde a terra, e
Daniel sussultò e si voltò di scatto. Lo sportellino della cassetta per
le
lettere si era piantato nel terreno umidiccio, e all’interno l’azzurro
della
scarpetta di April risaltava con tanta forza da dare l’impressione di
brillare
di luce propria.
Forse era tutta una metafora, un modo intricato per dirgli
“sei condannato a girare in tondo e a tornare sempre da me”.
Il trillo della sveglia giunse ancora una volta come una
benedizione.
Daniel la spense con un lungo sospiro e rimase steso alcuni
minuti ad osservare il soffitto, mentre fuori dalla finestra la luce
mutava e
l’alba si affacciava timidamente fra una nuvola plumbea e l’altra.
Stava impazzendo, ne era certo. Forse era una psicosi da
stress, o un delirium, o una qualche forma di schizofrenia atipica, che
diavolo
ne sapeva! Melanie avrebbe potuto far luce, certo, in fondo era il suo
lavoro,
peccato solo che fosse una stronza.
Piuttosto che renderla partecipe, mille volte meglio la
pazzia – anche se la piccola parte di lui che insisteva per chiamarla e
farsi
aiutare diventava sempre più convincente.
*
Aveva diluviato per tutta la mattina,
ma nel primo
pomeriggio il tempo sembrava essersi accordato per una tregua ed erano
rimasti
solo un cielo di un grigio uniforme ed un vento gelido che sapeva già
di
autunno inoltrato.
Davanti alla chiesa di Centralia, Daniel si ritrovò a
tentennare. Allungò una mano verso la porta, la ritrasse, l’allungò di
nuovo e
alla fine optò per una via di mezzo, un bussare timido che aveva più da
educanda che da uomo maturo. Non ottenne risposta, come un po’
immaginava, e
allora provò spingerla e a tirarla ma niente, chiusa, e la cosa sotto
sotto non
gli dispiacque affatto.
Si voltò ad osservare Centralia, picchiettando la punta
dell’ombrello sul selciato. Non lo stupiva che non ci fosse un’anima in
giro;
gli era capitato di incrociare qualche curioso, nei giorni precedenti,
ma con
un tempo del genere solo una persona molto annoiata avrebbe potuto
darsi
all’avventura.
Molto annoiata o sulla via della disperazione come lui.
«Ciao, signor Strambo!», lo chiamò la voce di Ariel, per la
terza volta alle sue spalle. Come diavolo faceva ad arrivare sempre da
dietro,
pure quando aveva sott’occhio tutta Centralia?
«Da dove sbuchi, ragazzina?», chiese Daniel, e si voltò per
guardarla. Indossava ancora pantaloncini da maschio, mentre la felpa
era diversa,
dello stesso modello ma di un verde acceso, e sempre con una tasca
davanti in
cui la ragazzina teneva le mani.
Ariel corrugò la fronte «Mi prendi in giro? Secondo te?» e
indicò col capo dietro di sé, in direzione del cimitero.
Daniel rise, ma non riuscì a impedire che un brivido gli scorresse
fra le scapole.
«Certo che ti piace molto Centralia», continuò la bambina
«Cosa ci trovi di tanto interessante da tornare qui tutti i giorni?».
«Tu cosa ci trovi
di tanto interessante da passare il tuo tempo qua da sola?», ribatté
Daniel, e
questa volta fu Ariel a ridere. A differenza sua, la risata della
bambina
pareva sinceramente divertita.
«Mi piacerebbe andarmene, se potessi. Meno male che c’è
Penny, sennò mi sentirei davvero sola. Non mi hai risposto, signor
Strambo,
perché continui a tornare qui? Lo fai solo per venirmi a trovare?».
«Ma smettila», sbottò Daniel. Decise di continuare ad
ignorare qualsiasi implicazione paranormale, tanto non era così cretino
da
cascarci «Da ragazzo vivevo qui vicino e venivo spesso a Centralia, sto
solo…
ripercorrendo il passato, mettila così».
«Non mi sembri così vecchio da dover ripercorrere il
passato», sghignazzò Ariel «Conti in sospeso? Sei sicuro di non essere
morto
senza saperlo? Gli altri morti dicono che emani un’energia strana,
diversa da
quella dei vivi».
«Ma che dici?».
«Ah, non è a me che devi chiederlo» Ariel sfilò una mano
dalla tasca e l’agitò davanti al viso «Io non vedo quello che vedono
loro, sono
ancora troppo ancorata a questo mondo».
Come i morti di morte
violenta?, pensò Daniel, ma si sbrigò a scacciare l’idea con un
certo
fastidio.
Figurarsi.
«Succede che quando si è morti senza saperlo si torni a
visitare i luoghi in cui sono rimaste cose a metà, che ci legano,
tipo»,
continuò Ariel, fissandolo con i suoi occhi nerissimi e dannatamente
seri «Cosa
c’è qua che ti attira? Posso fare qualcosa per aiutarti, forse. Non
saresti la
prima persona che guido dall’altra parte».
«Sono vivissimo», disse Daniel stizzito. Gli venne spontaneo
controllarsi il polso, per sicurezza «Sono vivo, i miei genitori mi
parlano da
giorni e no, prima che tu lo dica, non sono fantasmi anche loro.
Cristo, non so
neanche perché spreco tempo con te».
Ariel gli rivolse un mezzo sorriso e piroettò su se stessa,
indietreggiando al contempo di qualche passo «Oh, come te la prendi.
Arrabbiati
con i morti se proprio vuoi sfogarti su qualcuno, io faccio solo da
tramite.
Però credo che abbiano ragione, hai qualcosa in sospeso?».
«Non ho niente in sospeso», sbottò Daniel «Dì ai morti che
possono farsi i fatti loro».
Impugnando l’ombrello come una mazza scese la scalinata, e
solo all’ultimo gradino si gettò un’occhiata indietro. Ariel era
rimasta in
cima, le mani sempre in tasca, e lo fissava in silenzio. La felpa verde
brillante risaltava contro il bianco della chiesa alle sue spalle e il
cielo
grigio sopra di lei.
Daniel sentì lo stomaco stringersi e non riuscì a capirne il
motivo.
«Tornatene a casa», borbottò. Suonava poco convinto perfino
a se stesso.
Ariel in tutta riposta gli rivolse un mezzo sorriso «La
prossima volta che torni ti presento Penny. Anche lei è rimasta
bloccata a metà
come me, ma non è stata abbastanza forte».
«Abbastanza forte per cosa?», chiese Daniel, ma Ariel era
già sparita trotterellando verso il cimitero.
*
Seduto alla sua vecchia scrivania con
il portatile acceso e
una brocca di caffè, Daniel si sentiva pronto ad affrontare la nottata.
Teoricamente, per lo meno, perché a livello pratico sapeva benissimo
che il suo
fisico non avrebbe retto una notte in bianco – e comunque non poteva
certo
sfuggire al sonno per sempre, al massimo prendere tempo.
Aprì la posta elettronica e selezionò l’indirizzo di
Melanie.
“Senti, devo chiederti
una cosa”, digitò, poi si soffermò a riflettere qualche istante e
cancellò
tutto.
“Ciao, mi serve un
parere per una faccenda. Ultimamente sto facend”.
Si fermò di nuovo. “Ultimamente sto facendo sogni strani”,
Cristo, quanto suonava cretino.
Chiuse il programma e attaccò il disco esterno. Tanto valeva
portarsi avanti col lavoro, anche se si era ripromesso di staccare
almeno per
quei pochi giorni.
Aprì gli occhi e si trovò di nuovo dentro la chiesa.
«Merda», gemette a denti stretti. Si era addormentato alla
scrivania? E, cazzo, la sveglia?
Voltò il capo verso la navata e sussultò, incrociando lo
sguardo del manichino. La posizione era sempre la stessa; ad essere
diversa era
solo la testa, ruotata verso di lui. Gli occhi finti lo fissavano
vuoti,
coperti brevemente da un battito di palpebre ogni venti, trenta secondi.
Con delicatezza Daniel gli ruotò il capo, orientandolo verso
il soffitto come il giorno prima, e gli sfuggì un sospiro di sollievo
quando,
guardandosi attorno, poté appurare che solo il suo compagno di panca si
era
voltato. Gli altri manichini continuavano a non degnarlo di attenzione.
Si alzò in piedi e una tasca del camice gli batté pesante
contro una coscia.
«Ma che cazzo vuoi da me?!», esclamò, cacciando la mano
nella tasca per estrarne quella dannatissima scarpetta. La sua voce
riverberò
per tutta la chiesa ed echeggiò lugubre, accompagnandosi con un
ondeggiare
delle fiamme dei lumini che non poteva essere normale.
I manichini ruotarono il capo, tutti nello stesso momento e
tutti per fissarlo. Non fecero altro, rimasero a guardarlo in silenzio,
come ad
accusarlo, e Daniel si sentì morire dentro.
Una sensazione simile a quando Melanie aveva tolto le sue
cose dall’armadio e dai cassetti e li aveva lasciati così, aperti e
vuoti, e
lui poi si era fermato a osservarli ed era stato come se qualcosa
dentro di lui
si fosse perso per sempre.
(E come Emily l’aveva
guardato, da quel giorno in poi)
(Anche i suoi occhi
avevano perso qualcosa)
Il cellulare trillò e Daniel quasi scivolò giù dalla
scrivania.
«Grazie al cielo», borbottò, spegnendo la sveglia. Lo
schermo segnava le sei e mezza, e dopo qualche attimo di riflessione
gli parve
appropriato anticiparla alle sei.
Si sentiva stanco, stanco, stanco. Aveva sonno, mal di
testa, la schiena gli faceva un male cane e gli occhi bruciavano e non
voleva
addormentarsi mai più.
«Dio, sto impazzendo».
Si spostò in bagno per una doccia – gelida, questa volta
aveva bisogno di uno scossone – e in qualche modo fece effetto, si
sentì un
poco rinfrancato. Doveva tornare alla sua razionalità solita,
riconquistare la
compostezza, altrimenti sì che sarebbe diventato matto davvero.
Si prese alcuni minuti per aggiustarsi la barba con cura,
rifinendo i baffi con le forbicine, poi soppesò la scatolina delle
lenti a
contatto e la rimise a posto, sentiva gli occhi troppo provati.
Tornò in camera per recuperare gli occhiali e scoprì con un
certo dispiacere che era passata solo mezz’ora; avvertiva un bisogno
folle di
chiamare Emily, ma a quell’ora si sarebbe beccato solo una valanga di
insulti.
Passando dal bagno alla camera da letto aveva sentito uno
sferragliare di padelle e utensili in cucina, quindi imboccò il
corridoio,
scese le scale e raggiunse sua madre, già ai fornelli nonostante l’ora.
E dire
che non aveva niente da fare, poteva pure concedersi un po’ di sonno in
più (e
magari regalargli qualche ora, non avrebbe disdegnato).
«Oh, ciao Dan», lo salutò con un sorriso, mentre rovesciava il
contenuto di una scodella in una teglia «Che faccia che hai, dormito
male?».
Daniel annuì appena «Mi prepari qualcosa di sostanzioso? E
mezzo litro di caffè, minimo».
«Ma certo, tesoro. Ho comprato la pancetta proprio ieri, ti
piace ancora?».
Non ungerla come fai
di solito o mi si tappano le arterie, avrebbe voluto dire Daniel,
ma lasciò
perdere. Si limitò ad annuire di nuovo.
Scoccate le dieci non riuscì più a trattenersi, teneva il
cellulare in mano da almeno mezz’ora e aveva controllato l’ora qualcosa
come
venti volte, ad aspettare ancora un po’ sarebbe andato fuori di testa
più di quanto
già non fosse. Digitò il numero e lasciò squillare a lungo, prima che
una voce
impastata rispondesse con un “pronto?” così biascicato da essere a
malapena
comprensibile.
«Sei ancora a letto?», disse Daniel. Certo, non aveva
pensato di cominciare la conversazione proprio così, ma certe cose
facevano
emergere prepotente la sua indole di rompipalle.
«Oh, Papi! No, cioè, mi stavo proprio
alzando adesso.
Perché mi chiami? Stai male? Sta male mamma? Mamma è morta?».
«Non è morto nessuno, anche i nonni stanno benissimo».
«Abbeh, okay. Avevi
bisogno di qualcosa?».
Daniel rimase un attimo in silenzio, la bocca socchiusa.
Aveva bisogno di sentirla e basta, non si era preparato grandi
argomenti di
conversazione.
«Nonno Abraham voleva sapere se ti piace ancora la
marmellata», improvvisò. Che tipo aveva detto? Qualcosa ai frutti di
bosco?
«Quella di… quella di lamponi, mi pare».
«Oh. Solo questo?
Grande, sì, mi piace tutto. Passi a trovarmi quando parti da Ashland? O
devi
tornare subito al lavoro come sempre?».
Amore, non sono certo
che per allora sarò ancora vivo, pensò, ma di nuovo lasciò perdere.
Non
aveva senso dirle una cosa del genere, non avrebbe capito.
«No, penso di potercela fare. Potresti presentarmi Kevin».
«Pffff, Kevin è già
acqua passata. Portami una crostata di nonna, già che ci sei! E fammi
sapere di
preciso quando arrivi, eh?».
«Va bene. Ci risentiamo».
«Ciao ciao papi!».
Emily riattaccò, e Daniel rimase fermo con il cellulare
all’orecchio per alcuni secondi.
Non ne capiva il motivo, ma dentro si sentiva peggio di
prima.
*
Questo suo continuo tornare a
Centralia aveva un che di
masochistico. Non che avesse molto altro da fare, ma la faccenda
tardava a
chiarirsi e cominciava a trovare sempre meno significato in quelle
gitarelle.
Gli doleva ammetterlo, ma c’era una particina di lui che
sperava di incontrare di nuovo la bambina.
Oltrepassata la chiesa e raggiunto il cimitero, ebbe la
soddisfazione non essere colto alle spalle, almeno questa volta. Ariel
era
seduta su una lapide, le mani nella tasca e lo sguardo fisso sulle
punte degli
scarponcini infangati, e indossava la stessa felpa verde acceso del
giorno
prima.
«Ciao, signor Strambo», disse, senza alzare lo sguardo.
Daniel non riuscì a non rimanerci male, pur se in modo un po’ infantile
sperava
di sorprenderla.
«Ti si sentiva da mezzo chilometro», aggiunse Ariel,
sghignazzando «Mi cercavi?».
«No, passavo per caso», borbottò Daniel. Finse interesse per
la statua rovinata di un angelo che sormontava una tomba ed aggiunse,
tentando
un tono indifferente: «Questo è un posto pericoloso per le ragazzine.
Ci sono
crepe più grandi di te».
Ariel rise «L’unica cosa pericolosa potrebbe essere un bravo
esorcista. Sei tornato perché volevi vedere Penny, vero?».
«Ma figurati».
«Non dire così, sei crudele. Per Penny è faticoso diventare
tangibile».
«Okay, bene. Dov’è questa Penny?».
Con una certa teatralità, Ariel estrasse dalla tasca la mano
sinistra e si indicò la testa.
Daniel si sentì mancare.
«Occristo», gemette, mentre il ragno più grande e peloso che
avesse mai visto si muoveva lentamente fra i capelli di Ariel. La
bambina
chiuse un occhio e il ragno le scese lungo la faccia in quelli che
dovevano
essere almeno dieci centimetri tutti di schifosità, le passò dalla
mandibola
alla spalla e poi si spostò dietro, forse dentro il cappuccio – ma
l’importante
era che fosse lontano dalla vista.
«Scusala, un po’ è timida e un po’ ha freddo», disse Ariel.
Si sistemò il cappuccio con una mano e sghignazzò di nuovo «Ti senti
bene?».
Dio Dio Dio Dio che orrore.
«Penny si offende se le chiedo di rimanersene nascosta?»,
borbottò Daniel. Già gli insetti gli avevano sempre fatto schifo e
questo gli
aveva reso l’infanzia un inferno, dato che tutti i suoi amici parevano
trovarli
divertentissimi; se poi c’era qualcosa che gli faceva venire i sudori
freddi,
questa erano i ragni. Aveva visto It a trent’anni suonati e poi non
aveva
dormito per una settimana.
(Quanto se l’era spassata
Melanie a prenderlo per il culo)
«Nah, figurati. Le basta la compagnia. Te l’ho già detto,
no?, è facile sentirsi soli, gli altri morti sono di poche parole e più
il
tempo passa più scompaiono. C’era anche qualche bambino, un po’ di
tempo fa, ma
loro scompaiono più in fretta».
«Penso che fra un po’ ti troverai da sola, allora», disse
Daniel scettico «Non muore più molta gente, qui».
«Già. Anche Penny sta pian piano passando del tutto
dall’altra parte» Ariel si fissò le punte degli scarponcini con
un’espressione
triste che pareva sincera, e Daniel sentì un mezzo impulso di
consolarla. Aveva
mosso un passo verso di lei e stava per aprir bocca, quando la bambina
disse
una cosa tanto agghiacciante da lasciarlo congelato a metà del
movimento.
«Pochi anni fa è morta una bambina, qui, sai?».
Daniel riuscì a boccheggiare un “assì?” e basta.
«Non saprei dirti quanto tempo fa di preciso», continuò
Ariel, spostando lo sguardo dalle scarpe al cielo «Era più piccola di
me. Ho
spiato tutta quella gente dei paesi qui attorno che la cercava, era
figo vedere
così tante persone tutte in una volta! Ovviamente non l’hanno trovata».
«Ovviamente?», chiese Daniel con un filo di voce, e Ariel
annuì.
«Non avrebbero certo potuto, è sì morta qui ma il corpo era
finito mooolto lontano, da qualche parte fra le colline. Avrei voluto
avvertire
tutti, ma ai tempi non riuscivo ancora a passare da questa parte così
bene.
Davvero non ne hai mai sentito parlare? Sei davvero della zona o
menti?».
«Sì, sì, sono- è che mi hai… mi hai confuso. Hai detto
“pochi anni fa”, ma è stato… ne sono passati più di quaranta».
Ariel sgranò gli occhi e arcuò le labbra in un “oh”
silenzioso.
«Ma dai, così tanti? Sembrava l’altro ieri l’ultima volta
che ho visto April gironzolare qua attorno. Spero che non sia scomparsa
e
basta, magari qualcuno ha trovato il suo scheletro e l’hanno sepolta e
quindi
ora riposa in pace».
«Non-» Daniel accennò un colpo di tosse, per schiarirsi la
gola. Forse era la stanchezza accumulata, ma cominciava a sentirsi poco
bene
«Non sono… non sono aggiornato sugli ultimi risvolti. Mi informerò».
«Poi dimmelo, eh! Ho sperato tantissimo che non finisse
anche lei dispersa chissà dove».
(Anche lei?)
«Non capisco però tutto quel tempo che hanno passato a
cercarla nelle crepe, quando poi la sua scarpa era da tutt’altra
parte»,
continuò Ariel, e Daniel si sentì ancora peggio. Un’intensa nausea lo
pervase e
mentalmente ringraziò il venticello fresco, perché cominciava ad
avvertire un
caldo soffocante.
«L’hanno cercata nelle crepe perché è caduta in una crepa»,
mormorò. Le parole gli suonarono amare in bocca e parvero prosciugargli
la
saliva – sentiva a livello fisico che qualcosa non tornava e che
mancava
qualche tassello, e dopo essersi sentito parlare la sensazione si fece
ancora
più forte.
Ariel lo fissò corrucciata, le guance lentigginose
increspate da rughette lievi.
«No, proprio no, ma non so cosa sarebbe stato meglio per
lei, sai?».
Sì, gli mancava qualcosa di importante.
Daniel si passò la manica della camicia sulla fronte e si concesse
qualche secondo per riprendersi, ad occhi chiusi; Ariel rimase in
silenzio,
forse a fissarlo, perché gli sembrava quasi di sentire le sue iridi
nere
piantate addosso.
«Sai dove hanno trovato la scarpa?», le chiese.
«Ovvio», trillò Ariel con tono supponente «Ti faccio
vedere».
Cacciò una mano nel cappuccio per prendere la schifezza ad
otto zampe e mettersela in tasca, poi si incamminò verso la chiesa e da
lì giù
per le strade di Centralia.
Daniel la seguì – anzi, le arrancò dietro – cercando di
memorizzare la strada. Aveva però l’impressione che questo scrupolo si
sarebbe
rivelato superfluo.
«Eeeera qui, ecco», disse Ariel. Indicò con la mano sinistra
un’area di terreno uguale alle altre, terra brulla, poca erba e un
albero o
due; l’unica differenza era un mazzetto di fiori secchi poggiato in un
angolo.
«Ogni tanto viene qualcuno a portare dei fiori o una
candela. Forse dei parenti di April, boh».
«Grazie», borbottò Daniel, e senza aggiungere altro si
allontanò a passo svelto, puntando alla macchina. Sentiva il bisogno
impellente
di allontanarsi da Centralia, da quella bambina e da tutti i fantasmi
che
aleggiavano lì – fantasmi di cose dette fra le righe e che non capiva
del tutto,
che lo perseguitavano e gli appannavano il cervello.
A pochi metri dalla macchina dovette fermarsi a vomitare.
*
Daniel ebbe bisogno un bagno di
un’ora abbondante prima di
trovare il coraggio di aprire il portatile.
Googlò il nome di April con angoscia crescente, una lettera
alla volta, e al momento di scrivere “Centralia” sentì per un attimo
tornargli
la nausea. Poi il senso di malessere si trasformò in fastidio
per il malessere, spinse invio con forza e finalmente gli
si rivelò il tassello mancante.
Potendo tornare indietro, forse avrebbe preferito rimanere
nell’ignoranza.
Dopo cena tentò di entrare nel discorso con sua madre.
«Perché non mi hai detto di April, quando l’hanno trovata?»,
disse, cogliendo la donna di sorpresa in modo palese.
«Cielo, caro! Ormai eri grande e all’epoca la cosa ti aveva
traumatizzato così tanto che non mi sembrava il caso», gli rispose lei,
e
subito dopo spostò il discorso su una fiera che si sarebbe tenuta a
giorni
chissà dove.
Razionalmente Daniel non le faceva una colpa, ma non poté
trattenere un moto di irritazione.
Si svegliò un’altra volta nella chiesa, e la prima cosa che
gli balzò all’occhio fu l’oscurità. Dalla porta socchiusa, diversi
metri dietro
di lui, entrava solo uno spiraglio di luce bianca; le finestre parevano
essere
state oscurate e i lumini non bruciavano più, forse spenti o forse
consumati.
Tutti i manichini erano scomparsi, con l’eccezione di quello
accanto a lui. Giaceva inclinato su un lato, con il capo piegato in
avanti e le
palpebre di plastica chiuse sugli occhi finti. Il petto non si muoveva
più, e
pur senza controllare Daniel era certo che non avrebbe trovato nemmeno
il
polso.
Si alzò in piedi con movimenti cauti e passò oltre, verso la
porta. Fuori era tutto come sempre, il solito silenzio e
l’impenetrabile cielo
da neve, ma c’era anche qualcosa di diverso, un senso di desolazione e
solitudine più accentuato, che Daniel non avrebbe saputo spiegarsi;
eppure lo
sentiva distintamente, una via di mezzo fra una morsa gelida e una
carezza.
Scese la scalinata e chiuse gli occhi, poi continuò a
camminare. Non ricordava la strada, figurarsi, ma dentro di sé sapeva che era lì che doveva andare e
che lì sarebbe arrivato. Era solo istinto, e con la mente a brandelli e
ogni
cosa razionale ormai priva di senso era l’ultima cosa che gli restava.
Riaprì gli occhi solo quando si ritrovò a sbattere contro
quello che poi si rivelò essere un residuo di steccato.
Per la prima volta le cose sembravano essere andate come
aveva previsto, si trovava nel giardino in cui avevano rinvenuto la
scarpetta e
ne era certo perché lo ricordava.
Nonostante la nebbia che gli offuscava la visuale ricordava bene
l’aspetto di
quella casa abbandonata, e gli sovvenne pure qualche dettaglio in più
di quel
pomeriggio. Era uno di quei giorni all’insegna del “esploriamo i
ruderi”, Mark
aveva trovato un gigantesco coltello da caccia e Thomas si era fiondato
infastidito sul lato della casa, cercando di raggiungere per primo la
malandata
casetta in legno che doveva esser stata un deposito degli attrezzi.
Praticamente sulla scarpa c’era inciampato.
Lo avevano osservato volare a terra con ilarità, e sempre
ilarità aveva suscitato in loro la sua fantasiosa bestemmia. Poi Thomas
aveva visto, tutti loro avevano visto
e l’ilarità era diventata gelo in
un secondo.
Daniel avanzò nella nebbia con passi lenti, attraversò il
prato e costeggiò l’edificio fino al fianco, dove la casetta si ergeva
nell’esatta
replica di quel giorno. A terra giaceva qualcosa, a poco più di un
metro di
distanza, e riuscì a metterlo a fuoco solo quando gli fu appresso.
Era un altro manichino, questa volta con la foggia di un
bambino, disteso prono nell’erba umida. Grazie al cielo indossava i
tipici
pantaloni e maglietta semplici e le giunture erano ben evidenti ad una
rapida
occhiata, o lo stomaco invece che fargli una capriola gli sarebbe come
minimo
uscito dalla bocca.
«Mi dispiace», borbottò. Si inginocchiò accanto al manichino
e lo girò con delicatezza, tenendolo fra le braccia. Anche lui era
spento come
l’altro, gli occhi chiusi e il petto immobile.
«Non so davvero se tutto questo delirio sia un modo per
obbligarmi a chiudere questa faccenda, dato che in fondo l’avevamo
iniziata in
parte noi», disse ancora. Le sue parole risuonavano come attutite nella
nebbia
– era davvero così fitta anche poco fa?
(Sempre che sia
davvero nebbia e non il fuoco che arde sotto Centralia)
«Non lo so, non ci capisco niente. Era qui che dovevo
arrivare? Era questo che dovevo fare? Ha un senso, almeno?».
Il manichino aprì gli occhi e Daniel sentì l’intero corpo
paralizzarsi.
«Quand’è che torni a
casa?», disse il manichino con la voce bianca di una bambina «Mi manchi».
«Non capisco», gemette Daniel.
«Non mi dici le bugie,
vero? Fra qualche giorno torni? Andrà tutto bene? Io-».
Per la prima volta Daniel maledisse il trillo della sveglia.
Avesse tardato anche solo trenta secondi, forse avrebbe fatto la
differenza.
*
Ariel lo aspettava seduta sugli
scalini davanti alla chiesa.
Aveva di nuovo cambiato felpa, ora ne indossava una rossa sempre dello
stesso
modello.
«Ciao, signor Strambo!», lo salutò, sfilando la mano
sinistra dalla tasca e agitandola a mezz’aria «Ma ti senti bene? Ogni
volta che
ti vedo hai una faccia sempre più da zombie».
«Ho cercato su internet», rispose Daniel, sorvolando
sull’ultima affermazione. Voleva arrivare al punto e farlo in fretta
«Quello
che è successo ad April».
«Oh!» Ariel poggiò il viso alla mano e si sporse in avanti
«Illuminami».
Daniel perse d’improvviso tutta la grinta. Già non si era
sentito bene a leggerle, quelle notizie, figurarsi ora a ripeterle.
«Tu… tu sai com’è morta», disse, una via di mezzo fra un’affermazione
e una domanda.
Ariel annuì «Ho visto alcuni momenti, sì».
«Bene» così si risparmiava dettagli agghiaccianti «Quindi, ecco…
sì, l’hanno trovata. Un… dieci, quindici anni fa, quando quell’uomo
è morto».
Daniel fu interrotto da un attacco di nausea e per un attimo
gli si oscurò la vita. Non avrebbe saputo dire se si trattava della
stanchezza
che continuava ad accumularsi inesorabile, oppure il solo ricordare ciò
che
aveva letto. Tempo tre o quattro giorni ancora e sarebbe stato da
ricovero,
poteva giurarci.
«Dopo la sua morte, un parente ha trovato i suoi diari»,
riprese, asciugandosi la fronte con una manica «Lì c’era scritto tutto.
Anche…».
«Anche dove l’aveva portata?», lo precedette Ariel, e Daniel
confermò con un cenno «Meno male, almeno so che riposa in pace. Grazie,
signor
Strambo».
«Però tutto questo non ha senso!», sbottò Daniel, allargando
le braccia di scatto. Ariel sussultò e si alzò in piedi.
«Che cosa non ha senso?», chiese, spostando un piede sul
gradino alle sue spalle.
«Cose!».
Daniel scese gli scalini e li risalì un paio di volte. Gli
veniva da vomitare, gli girava la testa e non ci capiva più un cazzo di
niente.
«Quella cazzo di scarpetta l’abbiamo trovata io e i miei
amici, quarant’anni fa», sbottò, fermandosi ad un passo da Ariel e
fissandola
truce «Questo non l’avevi visto?».
La bambina arricciò il nasino e sorresse lo sguardo con
quegli occhi color pece che parevano due buchi neri. Rimase immobile,
le mani
nella tasca, e per un istante il rosso della sua felpa diventò
abbagliante e
saturò tutto il campo visivo.
«Ho visto dei ragazzini», disse piano, con voce dura e
posata «Come ti ho detto ieri, non pensavo fosse passato così tanto
tempo.
Cos’è che non ha senso?».
«Tutto. Mi fa male la testa», borbottò Daniel. Si portò una
mano alle tempie e prese diversi respiri profondi.
Cominciava a crollare e la cosa lo spaventava da matti.
«Non capisco quello che dici», borbottò Ariel «Dovresti
tornare a casa e dormire un po’».
«Magari potessi dormire!», esclamò Daniel, scattando col
torso in avanti. Ad Ariel sfuggì un gridolino e cercò di
indietreggiare, ma
colpì con lo stivaletto il bordo del gradino e si sbilanciò indietro.
D’istinto Daniel allungò le mani e l’afferrò per le braccia
un attimo prima che cadesse, salvandola da una probabile capriola lungo
gli
scalini. Rimasero qualche istante immobili, a fissarsi in silenzio, poi
Ariel
ritrovò l’equilibrio e Daniel capì che c’era un motivo se finora
l’aveva vista
sempre con la mano destra in tasca.
Ariel intercettò il suo sguardo, si osservò la mano e mosse
i moncherini delle falangi, sfiorandoli poi uno per uno con il pollice
intatto.
«Non mi hai mai chiesto come sono morta», disse, sollevando
appena gli occhi «Vuoi saperlo?».
Daniel rimase immobile, congelato. Sentiva ogni muscolo come
se fosse stato di marmo.
«È stato un bel po’ di tempo fa, ovviamente, quando le
miniere lavoravano a pieno regime. C’erano anche un sacco di pozzi e
condotti
abbandonati, credo di essere ancora in uno di quelli – sempre se il
fuoco non
si è portato via tutto. Era mooolto più pericoloso che adesso, chi vuoi
che si
stupisse della scomparsa di qualche bambino? Oltretutto avevo tipo
sette-otto
fratelli e i miei genitori erano poveri in canna».
Ariel ruotò su se stessa e salì fino alla cima della
scalinata, forse per poter guardare Daniel dall’alto. Da parte sua, lui
si
limitò a seguirla alzando la testa quel tanto che bastava.
«Non so bene come mi abbia preso, le immagini in quel punto
sono un po’ fumose, ma ricordo benissimo quando mi sono svegliata e mi
sono
trovata in gabbia. In gabbia davvero, non è una metafora, ed era una
gabbietta
minuscola, riuscivo a malapena a stare seduta. E non ero sola, c’erano
almeno
altre quattro o cinque bambine in altre gabbiette e la più vicina era
Penny.
Allungando le mani riuscivamo a toccarci, mi ricordo che quando ce ne
siamo
accorte è stato molto bello.
L’uomo che ci aveva catturate non stava bene per niente di
testa. Ci dava da mangiare poco e niente, ci lasciava nel nostro sporco
e ogni
tanto si divertiva a tagliare le cose.
Con Penny tipo aveva cominciato dai piedi, con me è arrivato
all’indice».
Con un mezzo sorriso cupo, Ariel allungò la mano dalle dita
monche verso Daniel, poi la ritrasse e la rimise in tasca.
«Si è fermato solo perché un giorno gli è venuto un infarto
ed è morto lì, in mezzo a noi. E noi siamo rimaste là sotto, chissà
dove, senza
nessuno che ci potesse sentire e con la sete e la fame che ci
distruggevano. Io
ero l’ultima arrivata e la più in forma, sono morta per ultima. Ho
tenuto le
dita appoggiate a quelle di Penny finché non ha smesso di respirare, e
per
fortuna dopo poco sono morta anch’io.
La mia lapide è lì tanto per, non c’è niente sotto, però ho
apprezzato. Mi dà un punto fisso a cui appartenere, e qui dietro è
sempre
meglio che le miniere abbandonate. Qui poi passa un po’ di gente,
almeno posso
fare due chiacchiere».
Daniel rimase in silenzio. Gli fischiavano le orecchie,
cominciava a sentire tutto ovattato.
«E ogni tanto aiuto qualcuno a fare chiarezza. Con te,
signor Strambo, c’è ancora un bel po’ da lavorare» Ariel sghignazzò e
agitò la
mano sinistra in segno di saluto «Se hai bisogno, sai dove trovarmi».
Si allontanò con passi tranquilli, e Daniel la seguì con lo
sguardo.
D’improvviso sentiva di nuovo voglia di vomitare.
Il risveglio questa volta fu in posto diverso. L’aria era
calda e umida, odorava di terra e di chiuso, e l’oscurità lo avvolgeva
soffocante.
Poteva scorgere una debole luce, in lontananza, e la
raggiunse a carponi, con movimenti stanchi.
Il terreno e i sassi gli scorticavano le mani e le
ginocchia, l’aria stantia gli rendeva difficile ogni respiro. E, dentro
la
tasca, la scarpetta gli rimbalzava contro in modo ritmico.
Chissà che sarebbe successo se fosse svenuto – cosa che si
sentiva sul punto di fare; magari si sarebbe svegliato, o magari
sarebbe
rimasto addormentato per sempre.
Magari non sarebbe cambiato niente.
La fonte di luce si rivelò essere un lumino rosso adagiato
in un contenitore di vetro, simile a quelli che aveva visto in chiesa
le altre
volte. Lo prese in mano e lentamente si alzò in piedi, per potersi
guardare
attorno.
Si trovava in un cunicolo alto poco più di lui e largo tre o
quattro metri di cui non vedeva né l’inizio né la fine. Era un lungo
corridoio
che si gettava nel buio ad entrambe le estremità, e pur muovendo il
lumino non
riusciva a guadagnare che pochi centimetri inutili.
(Cristo, le miniere)
Aveva senso forzare il suo corpo a pezzi lungo l’oscurità?
Era certo, lo sentiva nelle viscere, che avrebbe solo girato in tondo
all’infinito, quindi si sedette a terra e chiuse gli occhi.
C’era qualcosa di diverso anche nel silenzio. Concentrandosi
avvertiva un rumore basso quasi impercettibile, continuo, che non
riusciva a
localizzare. Forse era il fuoco sotto Centralia che ora bruciava tutto
attorno
a lui.
Su questo rumore di fondo risaltava di tanto in tanto un
ticchettio, come di qualcosa che picchiettasse contro le pareti.
Risuonava
distante e con un ampie pause di silenzio fra un suono e l’altro, ma
Daniel
aveva come l’impressione che, mano a mano che passavano i minuti, si
facesse sempre
più rapido e vicino.
La sveglia lo riportò con fatica alla realtà, e Daniel sentì
lo stomaco accartocciarsi quando si accorse che era stata la seconda ad
averlo
ridestato; la prima non l’aveva sentita per niente.
*
È una cosa
difficile
da spiegare, ticchettò Daniel sulla tastiera del portatile. La luce
bassa
del tramonto gettava ombre lunghe nella stanza e la semioscurità gli
affaticava
gli occhi, ma si sentiva troppo stanco per alzarsi e accendere la luce.
Aveva
passato tutta la giornata così, seduto su una sedia scomoda a bere
caffè e a
battere al computer, intervallandosi solo con una breve pausa per il
pranzo e
per andare in bagno. In qualche modo era riuscito a passare dall’altra
parte, a
sentirsi talmente stanco da non riuscire ad addormentarsi neanche
volendo.
Scrivere una sorta di diario-testamento gli era sembrata la
cosa migliore da fare, peccato solo non fosse mai stato portato per
l’ambito
letterario.
Credo diventerò matto,
continuò, Da come mamma mi guardava poco
fa, penso non abbia chiamato Melanie solo per una sorta di
risentimento. Non ci
capisco niente.
Se dovessi finire in
coma, rimarrei intrappolato là dentro per sempre?
Sta degenerando.
Temo che arriverà
davvero un momento in cui la sveglia non sarà più sufficiente.
Aprì gli occhi e si ritrovò di nuovo nel tunnel. Doveva
essersi addormentato alla scrivania, e sperò con tutto se stesso di
aver ceduto
ad un paio di ore al massimo dalle sveglie.
Era seduto con la schiena contro una delle pareti rocciose,
e fra le mani stringeva ancora il contenitore di vetro con il lumino.
Lo
stoppino si era consumato di almeno un quarto, segno che doveva
sbrigarsi a
trovarne un altro – e se fosse rimasto al buio? Se fosse rimasto al
buio per
sempre, lì sotto terra, circondato dal rumore (ne era
certo) delle fiamme?
Appoggiando l’orecchio alla parete la sentì tiepida e
avvertì con chiarezza un rombo continuo e indistinto, e quel ticchettio
ora più
vicino e regolare che riverberava per il tunnel.
Che diavolo era quel ticchettio?
Ricordava le gocce di pioggia sui vetri, ma non poteva
certamente trattarsi di acqua; aveva un che di vibrante, di
vivo,
(Cristo)
e col passare dei secondi sembrava sempre più vicino.
(Sono ragni)
Alzò il lumino con le braccia che gli tremavano, ma non
c’era niente né sulle pareti né per terra.
Però quel tic tic tic
continuava ad avvicinarsi e si faceva sempre più confuso, sovrapposto,
come una moltitudine di zampette di una moltitudine di
insetti che correva correva e correva, però nella luce non si vedeva
niente,
forse rimanevano nascosti nell’ombra e quando il lumino si fosse spento-
Daniel si strinse il contenitore al petto e indietreggiò di
qualche passo, per poi voltarsi ed incamminarsi lungo quel corridoio
infinito.
Sentiva i muscoli rigidi e doloranti, la vista gli si appannava e gocce
di
sudore gli rotolavano lungo la schiena, appiccicandogli la camicia alla
pelle, ma
non vedeva altra soluzione se non camminare.
Si svegliò con il trillo sgraziato della seconda sveglia che
gli perforava un timpano. Era steso sul letto e non aveva idea di come
ci fosse
arrivato, forse si era mosso nel dormiveglia.
Il cellulare segnava le sei del mattino e fuori il cielo
cominciava appena a rischiararsi.
Scorse la rubrica fino a trovare il numero di Melanie. Aveva
già un dito sul “chiama”, ma un po’ l’orgoglio e un po’ l’ora lo
spinsero a
desistere. Ponderò qualche istante se mandarle un messaggio, poi decise
di
lasciar perdere e gettò il cellulare in un angolo del letto.
*
Erano le quattro di notte e Daniel
non aveva intenzione di
cedere al sonno, ma non sapeva come fare. Sentiva la testa pesante e di
tanto
in tanto gli occhi si chiudevano a tradimento, ed in quei momenti era
solo il
terrore per ciò che l’avrebbe aspettato dall’altra
parte a dargli la forza per riaprirli e resistere.
Se sedersi davanti al computer si era rivelato fallimentare,
allora forse gli rimaneva solo l’opzione opposta, ossia muoversi.
Indossò una giacca pesante, scese le scale nel modo più
silenzioso possibile e rubò una copia delle chiavi di casa appese
all’ingresso;
con il cellulare in tasca, utile sia come torcia che nel caso non
scontato in
cui si fosse perso, aprì la porta di casa e fronteggiò il mondo esterno.
Il quartiere era buio e silenzioso, com’era logico che fosse
a quell’ora, e di tanto in tanto un lampione mezzo oscurato dalle
chiome degli
alberi tentava di rischiarare il marciapiede.
Daniel si incamminò, concentrandosi sui propri piedi per non
inciampare in una di quelle malefiche radici che si facevano strada fra
le
mattonelle, e lasciò che fossero le gambe a guidarlo a caso lungo le
stradine
del piccolo paese.
Si ritrovò a voltare l’isolato e a imboccare la strada verso
il parco giochi dove passava i pomeriggi da piccolissimo, prima che lui
e i
suoi amici fossero abbastanza coraggiosi da avventurarsi a Centralia.
Si
aspettava di vederlo trasformato, sostituito da un parcheggio o
qualcosa del
genere, e invece lo trovò ancora più verde di come lo ricordava.
C’erano
altalene, una di quelle giostre fatte apposta per vomitare, uno scivolo
e una
struttura cubica di sbarre, e panchine ben tenute tutt’attorno.
Daniel puntò un’altalena e riuscì a sedercisi al pelo. Le
corde di anelle gli premevano in modo quasi doloroso sulle cosce ma non
gli
importava, era sopportabile, e dondolarsi nell’aria fredda della notte
gli
sembrava ora la cosa più gradevole dell’universo.
La sensazione che avvertiva nelle viscere era insolita –
come essere braccato da qualcosa. Era simile a quello che aveva provato
tanti
tanti anni addietro quando John Fowler aveva avuto la brillante idea di
attaccar briga con gente più grande di loro; quella stretta gelida in
ogni
parte del corpo mentre fuggivano terrorizzati, e poi il dolore in ogni
centimetro non appena si erano sentiti al sicuro – un dolore che pareva
quasi
dirgli “in realtà non siete al sicuro da nessuna parte” – ecco,
identico.
Peccato solo che ora la lotta fosse impari, non poteva certo fuggire in
eterno.
Si poggiò gli occhiali sulle ginocchia per passarsi le mani
sulla faccia e poi fra i capelli. Doveva cedere e chiamare Melanie, al
diavolo
l’orgoglio – eppure lo sapeva bene che non era solo quello a frenarlo,
quanto
più un misto di rassegnazione e paura, perché in fondo al cuore era
terrorizzato all’idea che nemmeno Melanie potesse aiutarlo e che quindi
in
realtà non ci fosse niente da fare.
Con uno sforzo di volontà, tornò in piedi e riprese a
camminare. Si diresse per qualche centinaio di metri verso il centro,
poi ci
ripensò e tornò sui propri passi, puntando alla periferia. Non gli
andava di
incontrare gente, e le aree più esterne erano certamente meno
trafficate.
C’era qualche posto che avrebbe voluto rivedere? Cercò di
stilare una lista mentale, se non altro era un modo per distrarsi. Uno
era lo
spiazzo poco distante in cui giocavano a baseball; lo raggiunse in
alcuni
minuti, e non si sorprese granché nel trovare al suo posto una
villetta.
Cos’altro c’era? la vecchia scuola elementare? Ma davvero gliene
fregava
qualcosa?
Continuò a girovagare a vuoto, ed intanto attorno a lui il
mondo cominciava a risvegliarsi. Per primi gli uccellini sugli alberi,
con i
loro cinguettii fastidiosi, poi un ragazzo che gli sfrecciò accanto in
bicicletta, lanciando giornali con un certo sprezzo del pericolo. Il
cielo si
schiarì gradualmente, lasciando presagire una giornata cupa e grigia,
pur con
qualche sprazzo di azzurro a perforare il manto uniforme di nubi.
Incrociò alcune macchine e ricambiò saluti di persone che
uscivano di casa, chi per lavoro, chi per il giornale – non conosceva
nessuno,
ma loro lo salutavano e gli veniva spontaneo rispondere con un gesto
della
mano.
Già, chissà come se la passavano i suoi amici di un tempo.
Aveva saputo della morte di Mark quando ancora era al college, John era
entrato
nell’esercito e Thomas si era trasferito in una qualche grossa città ed
era
passato a trovarlo alcuni anni prima. Allen e Philip gli risultava
invece che
vivessero ancora a Centralia, se fossero andati via – dal paese o
dall’esistenza – probabilmente sua madre gliel’avrebbe detto.
Forse.
Non gli aveva detto di April, quindi chissà quante altre
cose aveva tralasciato. Ma che importava? Non aveva niente da fare e
necessitava distrazioni, poteva andare a controllare. Ricordava bene
dove si
trovassero le loro case, aveva percorso quelle vie miliardi di volte.
Ora, al momento doveva ammettere di essersi un pochino
perso, dato che da almeno mezz’ora camminava senza prestare attenzione
alla
direzione, però sarebbe bastato farsi indicare la via per il centro per-
«Mamma, che palle! Ce l’hai con i tacchini, per caso?».
A Daniel si mozzò il respiro.
Quella voce.
Cristo.
«Amore, poche storie. O quello o l’aria».
Sentiva i muscoli paralizzati e ruotare il collo gli costò
una fatica immane.
«Ma un’insalata di pollo, tipo? Sempre pennuti sono».
C’era Ariel, dall’altra parte della strada, in piedi sulla
soglia di un’abitazione. Indossava la felpa gialla che aveva la prima
volta e
teneva la mano destra in tasca, mentre con la sinistra agitava un
sacchetto del
pranzo. A pochi passi da lei, una donna dai capelli rossi impugnava
delle
grosse cesoie da giardinaggio.
«Ribadisco, amore. O il sandwich o l’aria».
Ariel sbuffò e fece per voltarsi, e in quel momento i loro
sguardi si incrociarono. La bocca della bambina si distorse in una
gigantesca O
muta, poi come un fulmine si tuffò in casa, chiudendo la porta dietro
di lei.
«Ariel, porca put-», le gridò dietro Daniel lanciandosi in
strada, la voce una via di mezzo fra una giusta furia e un’ilarità
immotivata.
Si fermò con un po’ troppa enfasi contro il cancello d’ingresso,
ricevendone un
contraccolpo tale da mozzargli l’imprecazione e fargli salire una
nausea
improvvisa.
La donna fece uno scattino indietro e boccheggiò un attimo
perplessa, ma ritrovò subito la padronanza di sé – e Daniel ebbe la
certezza
che non fosse nuova a certe scene, perché invece di picchiarlo a sangue
con le
cesoie si voltò verso la casa e tuonò un “Ariel, di nuovo?!” che
lasciava poco
adito a dubbi.
Daniel la guardò in silenzio, sempre poggiato contro il
cancello e la bocca semiaperta come un deficiente, e la donna ricambiò
con un’occhiata
color pece che avrebbe fatto ammutolire il Presidente.
«Mi scusi», gli disse, aggiungendo poi un sorriso a
stemperare lo sguardo. Si tolse uno dei guanti da lavoro e si aggiustò
un
ricciolo dietro un orecchio «Qualsiasi cosa sia successa, voglio
innanzitutto
assicurarle che in realtà Ariel è una brava bambina e noi stiamo
facendo del
nostro meglio. Qual è il suo nome?».
«Daniel», borbottò lui, e con disappunto notò che la voce
gli era uscita più alta di quanto volesse.
Cercò di recuperare un po’ di contegno con qualche colpo di
tosse.
«Daniel North», aggiunse, e il viso della donna si illuminò.
«Oh cielo», disse lei, sghignazzando «Non ci credo. Daniel
North, ma dai! Ti ricordi di me? Sono Cassandra Temple, abbiamo fatto
il liceo
insieme».
«Cass- oh!».
Cristo, la sciroccata.
Cielo, se la ricordava bene. Certa gente si sognava la notte le sue
occhiate da
matta e i suoi deliri su morti, fantasmi, maledizioni e tutto il
pacchetto.
Cominciava a capire molte cose.
«Certo, non eravamo proprio nello stesso gruppo di amici, ma
abbiamo parlato spesso. Sì, okay, la metà delle volte per insultarci,
ma i
ragazzi son pur sempre ragazzi, no?».
«Mi ricordo, mi ricordo» Daniel si raddrizzò e le porse una
mano, che Cassandra strinse con un risolino «È un piacere rivederti, ti
trovo
bene».
Cassandra rise di nuovo «Vorrei poter dire lo stesso.
Problemi di salute?».
«Insonnia», borbottò Daniel, poi indicò la casa e sentì la
risolutezza di qualche istante prima vacillare «E, ehm, Ariel…».
Ariel è viva?,
avrebbe voluto chiederle, ma si sentì cretino solo a pensarlo.
«Dio, Daniel, spero non abbia fatto niente di grave»,
sospirò Cassandra, portando una mano al viso «L’hai incontrata a
Centralia? Non
ha cercato di estorcerti qualche spicciolo, vero?».
«No, no, è solo che… c’era la… tomba?».
«Oh, cielo santissimo. Di nuovo la storia della bambina
morta? Da quando ha scoperto quell’omonimia non la conteniamo più,
anche con lo
psicologo è la stessa storia. Ma ti prego, entra almeno per un caffè,
così mi
spieghi per bene che è successo».
Daniel tardò qualche istante a rispondere, impegnato com’era
a sentirsi un demente. Era ovvio che non potesse esserci niente di
vero, come
diavolo aveva fatto a lasciarsi abbindolare così?
«No, tranquilla, non… non è…», boccheggiò, poi scosse la
testa «Accetto volentieri il caffè».
L’arredamento del salottino gli mostrò in modo lampante come
Cassandra non fosse poi molto cambiata, dai tempi del liceo. I due
divani e la
poltrona erano rivestiti da una fodera rosso scuro, una via di mezzo
fra il
colore del sangue e quello del vino, e sul tavolinetto di legno
dall’aria
antica erano posati incensi, un posacenere a forma di teschio e alcune
riviste
dall’aria inquietante. Daniel approfittò del momento in cui Cassandra
si recò
in cucina per curiosare; gli bastò scorgere i titoli per confermare
l’impressione, perle come “Esoterismo e affini” e “I misteri della
terza
dimensione” parlavano da sé.
In mezzo c’era anche un catalogo di bare.
«Oh, quello è di mio marito», squittì Cassandra
comparendogli accanto dal nulla – un’altra caratteristica familiare «Le
pompe
funebri West, ricordi? Mi pare fossero già in attività ai tempi del
liceo».
«Oh, certo, capisco», borbottò Daniel. Sì, davvero, capiva
sempre più cose.
Cassandra sorrise e gli porse il caffè «Dammi un minuto e
recupero Ariel. Anche perché fra poco deve andare a scuola e per uscire
deve
per forza passarmi davanti».
«Davvero, non-».
«Ariel!», tuonò Cassandra, voltandosi verso le scale «Ariel,
ti do dieci secondi per scendere da sola, poi vengo a prenderti!».
Contò davvero fino a dieci, muovendo le labbra in silenzio.
«Dieci! E se ti sei chiusa a chiave in camera sfondo la
porta, ti avverto!» Cassandra raggiunse le scale, si voltò per un
sorridente
“torno subito” e poi risalì gli scalini due a due e scomparve al piano
di
sopra.
Daniel si concentrò sulle ampie librerie, soffiando sul
caffè per raffreddarlo e cercando di ignorare le urla incomprensibili
che
provenivano dall’alto.
Si aspettava un’intera parete di volumi dedicati a Satana,
fantasmi e cose del genere, invece c’era un po’ di tutto, dai
romanzetti rosa
alle enciclopedie. Ricordava come al liceo Cassandra fosse ossessionata
dal
sovrannaturale, doveva aver ridimensionato quella passione smodata ad
un hobby.
Probabilmente era una persona da seduta spiritica del venerdì sera, ma
rispetto
a quei discorsi deliranti sulle energie negative e gli spiriti dei
morti di
quarant’anni prima il miglioramento era netto.
Sorseggiò il caffè e si voltò verso le scale solo quando le
urla cessarono. Un attimo dopo comparve Ariel, seguita dalla madre che
la
fissava torva.
«Eddai, mamma», pigolò la bambina «Devo proprio?».
Cassandra non disse niente, si limitò ad arricciare appena
le labbra.
«Ossignore», sospirò Ariel. Trotterellò fino al divano, la
testa bassa per non incrociare lo sguardo di Daniel, e borbottò uno
“scusa”
poco convinto e ancor meno sentito.
«Ariel», la richiamò Cassandra, e la bambina sospirò di
nuovo.
«Scusa», ripeté, alzando gli occhi «Non volevo prenderti in
giro»
Si mordicchiò le labbra, era palese che stesse pensando
tutto il contrario e si stesse trattenendo a fatica.
«Non ti darò più fastidio. E dì a mamma che abbiamo solo
chiacchierato un po’, non ti ho rigato la macchina o che so io. Pensavo
stessi
al gioco».
Quant’era surreale.
«Io non-», borbottò Daniel, poi accennò un sorriso stanco e
si passò una mano fra i capelli «Fa niente, è tutto a posto. Scusami
tu, non
volevo arrabbiarmi».
Ariel gli rivolse un’occhiata scettica.
«Ora va meglio», disse Cassandra «Quando torna tuo padre
facciamo un discorsetto tutti assieme, comunque. Ora vai a scuola o
farai
tardi».
«Okay. Mamma, non so dove ho lasciato il sandwich, guardi se
l’ho lanciato là fuori?».
Cassandra rise «“Lanciato là fuori”, solo tu. Controllo».
Nel momento in cui la madre aprì la porta d’ingresso, Ariel
fissò Daniel seria e gli si avvicinò.
«Io vado a Centralia come al solito, nel pomeriggio», disse
sottovoce «Se vuoi posso dirti le cose senza filtri».
Senza dare a Daniel il tempo di formulare un minimo accenno
di risposta, Ariel recuperò lo zaino ed uscì di casa con aria allegra.
Quella bambina aveva indubbiamente grossi problemi, ma ora
più che mai sentiva il bisogno di parlarle a quattr’occhi e non ne
capiva il
motivo.
Daniel rimase a chiacchierare dei tempi andati con Cassandra
per quasi un’ora, poi tornò a casa a mangiare qualcosa nonostante non
avesse
fame, solo per rimettersi un po’ in forze, e si incamminò subito verso
Centralia.
Avrebbe voluto prendere la macchina, ma temeva di
addormentarsi al volante.
*
Aspettò Ariel dove l’aveva vista
l’ultima volta, sui gradini
della chiesa. Chiudendo gli occhi poteva assaporare il silenzio dei
posti
abbandonati circondati dalla natura, del vento e degli uccelli che
svolazzavano
in giro, così diverso da quello opprimente dell’altra Centralia.
Così lontano dal rombo delle fiamme e dal ticchettio.
Concentrato com’era sui suoni attorno a lui, avvertì subito
l’avvicinarsi di passettini veloci.
«Per prima cosa, detto fuori dai denti, sei uno stupido»,
disse Ariel, alzando l’indice sinistro. A Daniel sfuggì uno sbuffo
divertito,
c’era qualcosa di tristemente comico in tutta quella situazione.
«Insomma, mica sono una sadica, se ti davo fastidio potevi
dirmelo. Pensavo ti divertissi, visto che tornavi di continuo. Secondo»
e alzò
anche il medio «Ma tu, di preciso, che problemi hai?».
«Potrei farti la stessa domanda», rispose Daniel con un
sorriso stanco, e Ariel agitò la mano in modo stizzito.
«Non cambiare discorso. Hai la faccia di uno pieno di
pensieri e ieri sei sbroccato dicendo cose a caso. E poi, cacchio, ma
davvero
mi hai creduto? O sei disperato o sei tipo mamma ai tempi del liceo. Le
altre
persone a cui racconto la storia della mia morte in genere mi
rispondono che
guardo troppi CSI. Che è anche vero, tra parentesi».
«Cos’hai fatto alla mano destra?», chiese Daniel. Ariel si
strinse nelle spalle.
«Un incidente da piccola. Aggiunge un tocco di gore ai
racconti e certe volte è funzionale, ma non mi piace che si veda e non
volevo
la vedessi, quindi dimenticala, okay? E smettila di cambiare discorso.
Sai che
mi sembri? Uno che fugge».
A Daniel sfuggì un risolino quasi isterico.
«Touché».
«Senti, ti propongo questo», disse Ariel raggiungendolo
sulla scalinata. Rimase in piedi qualche gradino più in basso, le mani
in tasca
«Ora, noi non ci conosciamo granché. Il mio giudizio su di te te l’ho
già dato
e non dovrebbe interessarti molto, credo. Mi dispiace se ho peggiorato
i tuoi
evidenti problemi mentali, quindi per farmi perdonare mi offro come
ascoltatrice commentante. Volevi dirmi qualcosa, no? O non saresti
venuto qui.
Approfitta del fatto che siamo estranei e disturbati entrambi».
Daniel ridacchiò di nuovo «Tu devi essere una dannazione di
figlia. Quanti anni hai? Prima o poi finirai male».
«Dodici. E no, non sembra ma non sono cretina, capisco le
persone al volo. Per quanto tu abbia dei problemi sembri innocuo,
signor
Strambo, quindi finché non sbrocchi di brutto sono tranquilla. Perché
sei
tornato a Centralia? Davvero volevi solo rivedere i posti della
gioventù e
basta? È un pensiero abbastanza da vecchio, okay, ma non mi sembri del
tutto
sincero».
«Sono tutte cose che non hanno senso», borbottò Daniel
«Lascia perdere».
«Metà delle cose che mi dice mamma non hanno senso, e pure
metà di quelle che penso io. Non hai figli, vero? Perché come padre
devi essere
davvero un rompipalle».
Questa volta la risatina che sfuggì a Daniel fu sincera. Gli
sembrava di sentir parlare Emily quand’era adolescente.
«Ho passato un mese a fare lo stesso sogno tutte volte che
mi addormentavo. Nel sogno mi svegliavo in una stanza senza uscite e
dalla
finestra vedevo Centralia. Non com’è adesso, vedevo la Centralia di
quand’ero
ragazzo e venivo a giocare qui con i miei amici. Pensavo che sarebbe
cambiato
qualcosa, se fossi fisicamente tornato in questi luoghi, peccato che le
cose
siano peggiorate e basta».
«Senti», disse Ariel, e partorì il suggerimento più ovvio e
sensato «Ma vedere uno psichiatra?».
«Non ho molta simpatia per la categoria», ammise Daniel
«Oltretutto la mia ex-moglie è una psichiatra, non-».
«Okay, okay», lo interruppe Ariel «Ho capito bene che tipo
sei. Cosa intendi con peggiorate?».
Daniel tacque alcuni istanti. Le parole gli avevano lasciato
un retrogusto amaro sulla lingua.
«Sono peggiorate nel senso… è cominciato con la scarpetta di
April. Non ti ho mentito, l’altro ieri, davvero l’abbiamo trovata noi,
e all’epoca
fui devastato dagli incubi per una settimana. Le cose però sono
cambiate solo
dopo aver incontrato te» lanciò ad Ariel un’occhiata severa, ma lei non
parve
impressionata e si limitò ad alzare un sopracciglio «Se prima ero
ancora dentro
la stanza, le notti successive mi sono trovato fuori dalla chiesa, poi
dentro
con dei manichini, poi un manichino di bambino mi ha detto cose
inquietanti
tipo “quando torni?”, e dopo la tua bella storiella del rapitore con
l’hobby
delle mutilazioni gli ultimi due incubi li ho passati sotto terra, da
solo, e
con migliaia di ragni pronti ad assalirmi nel buio. E ho solo una
candela che
prima o poi finirà, come cazzo faccio a dormire? Non voglio vedere cosa
succederà dopo» Daniel si sfilò gli occhiali e si passò le mani sulla
faccia
«Non voglio essere assalito dai ragni».
Rimasero entrambi in silenzio per un po’, finché Ariel non
se ne uscì con un “Ehi”.
«Penserai che sono matto», ridacchiò Daniel. Guardò la
bambina e fu sorpreso nel vederle un’espressione più che altro
corrucciata.
«No. Penso tu sia molto suggestionabile», disse Ariel «La
cosa dei ragni ti è uscita dopo aver visto Penny?».
«Mi fanno venire l’angoscia, i ragni. Davvero si chiama
Penny?».
Ariel annuì «Ho preso il nome dal mio libro preferito, “It”.
Presente il clown, Pennywise? Dato che Penny è femmina, mi pareva
appropriato».
«Cristo, odio quel film».
«Quel film fa cagare!», sbottò Ariel «Non c’entra niente col
libro. Sei sempre stato così suggestionabile, signor Strambo? Eppure
non
sembri».
«Da ragazzo, forse. Mi sono sempre ritenuto troppo razionale
per queste cose».
Ariel si portò la mano sinistra al mento, persa in chissà
quali pensieri. Daniel la osservò in silenzio, gli doleva ammetterlo ma
si
sentiva appena appena più leggero.
«Dimmi, coso. Che cosa fai tu nella vita vera?».
“Coso” ancora gli mancava.
«Sono un medico di medicina interna a Pittsburgh».
«Sarebbe? Tipo dottor House?».
A Daniel venne di nuovo da ridere «Non proprio, lascia
perdere».
«Comunque sei un medico, uhm. A parte gli ovvi problemi con
l’ex moglie che si vedono lontano un miglio, ti sono successe cose
stressanti
di recente? Ti è morto qualche paziente?».
Daniel si strinse nelle spalle «Probabilmente non hai
presente il tipo di pazienti che abbiamo in medicina interna. Per la
maggior
parte sono vecchi, hanno migliaia di malattie e prendono miliardi di
farmaci, e
spesso entrano quando sono già critici. Non sono eventi rari,
tutt’altro».
Ariel si avvicinò, raggiungendo un gradino che mettesse i
loro occhi alla stessa altezza. Per l’ennesima volta non ne capiva il
motivo,
ma Daniel sentì lo stomaco fargli una capriola.
«Non sei difficile da inquadrare», disse Ariel, e come due
giorni prima la sua voce si fece bassa, seria e posata, quasi ipnotica
«C’è qualcosa
che hai fatto per cui ti senti in colpa?».
«No», rispose Daniel senza nemmeno pensarci, corrugando la
fronte «Figuriamoci».
«Forse qualcosa che non
hai fatto, allora?».
«No!», esclamò di nuovo «Ammetto che magari ho qualche
problema nei confronti di Melanie, ma non ho mai-».
Si interruppe, rimanendo con la bocca aperta e lo sguardo
perso negli occhi neri di Ariel.
Sì, invece, qualcosa forse c’era.
«Una donna», disse con un filo di voce «A marzo. Ma non c’è
niente per cui dovrei sentirmi in colpa, ho fatto tutto quel che avrei
dovuto
fare».
«Sai che? Missà che tu questa cosa te la ripeti di
continuo», trillò Ariel, riportando la voce su toni più bambineschi.
Piroettò
su se stessa, salì gli ultimi gradini e gli si sedette accanto.
«Che è successo a questa donna? Immagino sia morta».
Daniel annuì, fissando l’orizzonte «Si è suicidata. Avevo
richiesto un consulto psichiatrico, ma non è arrivato in tempo».
«Oh», disse Ariel «E come si chiamava?».
«Dorothy East. Era entrata per una polmonite e l’avevamo ricoverata
perché i risultati degli esami
sono molto ambigui, è
necessario eseguire alcuni approfondimenti» Daniel sfogliò la cartella
e si
picchiettò il mento con la penna «Sarò sincero, signora East, alla luce
della
sua storia clinica non possiamo escludere una ripresa di malattia».
La donna sbarrò gli
occhi, ma non disse niente. Daniel le aveva letto in faccia il dubbio
non
appena l’aveva vista, era certo che lei per prima avesse già
considerato quella
possibilità.
«Per ora non azzardiamo
conclusioni affrettate. Nel caso TC e PET risultino positive, vedrà che
verrà
comunque avviata lungo il percorso migliore».
Di nuovo, la donna non
disse niente. Abbassò il capo e cominciò a piangere in maniera
sommessa, e
Daniel la salutò con un blando incoraggiamento e passò al paziente
successivo.
«Immagino che poi sia uscito che era malata davvero.
Metastasi, tipo?», chiese Ariel.
«Era stata operata due anni prima di tumore al seno»,
rispose Daniel, lo sguardo sempre fisso sull’orizzonte «La PET ha
evidenziato
metastasi al polmone e alle ossa, un quadro terminale. E penso che lei
e suo
marito fossero già indebitati fino al collo.
Mi ricordo che ha pianto per quasi tutto il tempo del
ricovero. È una reazione normale, figuriamoci; quando poi sono venuti a
trovarla il marito e la figlia si era calmata ed era sorridente».
Daniel chiamò il
marito fuori dalla stanza, per poter ripetere anche a lui la situazione
e le
opzioni terapeutiche senza che la bambina sentisse. Davanti si ritrovò un
uomo distrutto dalla compostezza ammirabile; stava sicuramente facendo
di tutto
per non far pesare la situazione alla figlia.
La bambina invece la
intravide solo per pochi minuti, e gli sembrò più conscia della
situazione di
quanto i genitori non credessero.
Cercava di rallegrare
la madre raccontandole cose che a lei dovevano sembrare molto buffe,
quello che
aveva mangiato col padre, i cartoni visti in tivù e tutto quello che le
passava
per la testa. Solo al momento di andarsene si fece più preoccupata ed
insistente e chiese
«Cristo», si interruppe Daniel, portandosi una mano alla
bocca «Il manichino del bambino, quello che mi ha detto…! Erano le
stesse cose
che chiedeva quella bambina. “Quando torni?”, “andrà tutto bene?”, non
ricordo
le parole esatte, ma il senso era quello. Forse ho-».
«L’hai assimilata ad April?», chiese Ariel, e Daniel annuì.
«Non si assomigliavano per niente, la bambina era di colore,
ma più o meno l’età era la stessa. Cristo».
«Poi? Cos’è successo dopo?».
«Dopo la visita Dorothy ha ricominciato a piangere e ho
iniziato a preoccuparmi. Ho richiesto un consulto psichiatrico urgente,
per il
giorno dopo almeno, me l’hanno accordato e ho considerato chiusa la
faccenda.
Non mi sento in colpa, ho fatto quello che era il mio dovere. Non era
passata
nemmeno mezz’ora da quando avevo riattaccato il telefono che è
cominciato il
delirio».
«Dottor North!», gridò un’infermiera,
spalancando la porta
della sala medici «Dottor North, Dio! Venga subito!».
Daniel sobbalzò e si
precipitò in corridoio, abbandonando la lettera di dimissioni che stava
ultimando.
«Ci ha chiamate la
signora Hill, della camera 18. Dio, dottor North, non potevamo… non
pensavamo…!».
Davanti alla stanza in
questione si era radunato un gruppetto di persone, fra infermieri,
pazienti e
parenti curiosi e un paio di altri medici. Daniel si fece largo ed
entrò, per
poi paralizzarsi all’ingresso.
La finestra era aperta
e si potevano intravedere la città ed il cielo limpido che la
sovrastava. Il
venticello che entrava era delicato e fresco, sapeva di smog e
primavera.
Le pantofole di Dorothy
erano accanto al letto, allineate con cura.
«Wow», commentò Ariel, ottenendo in risposta
un’occhiataccia.
«Cioè», tentò di correggersi «Intendo dire che capisco
perché sei complessato».
Daniel sfilò gli occhiali e si massaggiò la faccia «Però continua
a non avere senso. Te l’ho detto, non mi sento in colpa, nessuno poteva
prevederlo e abbiamo fatto tutto quello che era nelle nostre
possibilità. E
comunque è successo a inizio marzo, il casino degli incubi è cominciato
ad
agosto».
«Dai, smettila di dirti balle», disse Ariel, mollandogli una
gomitata in un fianco «È palese che ti senti in colpa, se ne avessi
parlato con
la tua ex avresti risolto la cosa in due giorni. E vedrai che qualcosa
che ha
scatenato tutto c’è, lo dicono sempre in Criminal Minds. Cos’hai fatto
il
giorno in cui hai avuto il primo incubo? Prova a chiudere gli occhi e a
ripensarci, fanno sempre così i profiler».
«Ma figuriamoci! Secondo te me lo ricordo? Non ho idea
nemmeno di che giorno della settimana fosse».
«Tu provaci, rompipalle».
Daniel sbuffò scettico, ma chiuse comunque gli occhi.
«Fammi pensare. Credo… credo di aver dato la colpa del sogno
strano ai fumi dell’alcool, quando mi sono svegliato. Poteva essere una
bevuta
dopo lavoro, o forse ero in ferie».
Strizzò gli occhi, massaggiandosi le tempie.
«Abbiamo giocato a biliardo e bevuto birra da Henry… sì,
dev’essere stato quando mi sono preso quei quattro giorni di ferie».
«Biliardo e birra, bene. Dettagli inutili» disse Ariel con
voce dura «Prima che hai fatto?».
«Il pomeriggio… l’ho passato a casa. Probabilmente ho
lavorato un po’ e letto qualcosa, niente di insolito».
Daniel si prese qualche secondo per riflettere in silenzio.
Questo esercizio gli sembrava una cazzata, ma in effetti più ripensava
a quel
giorno, più dettagli gli tornavano in mente.
«Ho letto un libro nuovo. Ed era nuovo perché l’avevo appena
comprato, già».
«Vedi che ce la puoi fare?», lo incoraggiò Ariel aggiungendo
un’altra gomitata, più delicata «Quindi la mattina sei stato in
libreria?».
Daniel annuì «La libreria di un centro commerciale».
«Ci sei andato solo per i libri?».
«No. No, ho girato anche per altri negozi, sono sicuro.
Dovevo… ah! Dovevo comprare il regalo di compleanno di Emily. Emily è
mia
figlia, ha vent’anni».
«Stava per compiere gli anni, quindi?».
«In realtà li fa a metà ottobre, mi piace comprare i regali
per tempo».
Ariel lo colpì con un’altra gomitata e sospirò «Tu devi
essere il tipo che compra i regali di Natale a novembre, eh? Va avanti».
Daniel ridacchiò, poi tornò serio per concentrarsi meglio.
Purtroppo non gli veniva in mente molto altro.
«Le ho preso una borsa di una marca costosetta che le piace
molto. Poi… poi ho preso un caffè. E dopo.. che diavolo, non mi
ricordo! Non
c’è niente di strano!».
«Non ti lamentare e concentrati di più. Dopo?».
«Forse ho fatto un giro per i negozi. Sì, ho comprato
qualcosa per me… una camicia e una cravatta, credo. E un dolce da
portare da
Henry. Dolce che ho quasi rovesciato, tra l’altro, perché appena fuori
dalla
pasticcieria una bambina-».
Si bloccò e spalancò gli occhi.
Si stava rimettendo il
portafoglio in tasca quando una figuretta minuta gli si schiantò
addosso,
colpendolo sul fianco. La torta gli scivolò di mano, ma nonostante le
sporte
che lo ingombravano riuscì ad afferrarla prima che si ribaltasse.
«Fa’ attenzione»,
disse, spostando lo sguardo in basso.
Una bambina di colore
lo fissò in silenzio per qualche istante.
«Mi dispiace!», si
scusò, e trotterellò oltre. Fece una decina di passi, poi si voltò ed
esclamò
un “ciao” agitando una manina, e di nuovo ripartì di corsa.
A Daniel sfuggì un
breve sorriso, osservandola allontanarsi nel suo vestitino azzurro.
«Una bambina?», chiese Ariel, ma ci arrivò prima che Daniel
aprisse bocca «Aspetta! Era la figlia di Dorothy?».
«Non l’ho riconosciuta», mormorò Daniel «Lei ha riconosciuto
me, invece io non l’ho riconosciuta. Non consciamente, almeno. Cristo».
Si voltò a guardare Ariel, che ricambiò con un sorrisetto
saccente.
«Penso tu abbia comunque un sacco di lavoro da fare, ancora»,
sghignazzò, e Daniel la colpì alla nuca con un coppino – cosa che
avrebbe
voluto fare fin dal primo momento in cui l’aveva vista.
«Può darsi», ammise. Un buon inizio poteva essere chiamare
Melanie e raccontarle tutto, ad esempio «Ma non sono l’unico».
Ariel sbuffò «Guarda che ci vado già dallo psicologo. Ci
facciamo un sacco di risate, sono soldi di certo ben spesi. Quanto ti
trattieni
ancora, signor Strambo?».
«Un paio di giorni, credo», rispose Daniel «Forse quattro.
Dipende, se stanotte ho un altro incubo e mi si spegne il lumino penso
che
rimarrò in questo posto per sempre».
«Che pessimista! Se domani pomeriggio sei vivo, comprami un
gelato quando esco da scuola».
«È questo che intende Cassandra quando dice che estorci
soldi ai turisti?».
Ariel sghignazzò e dondolò la testa, divertita, poi si
bloccò di colpo e guardò Daniel con aria mortalmente seria.
«Già!», esclamò «Tu com’è che ti chiami?».
Piegandosi in avanti, Daniel si lasciò andare in una risata
che aveva un sapore liberatorio.
Si svegliò ed era nel letto. Dalla finestra entrava
l’intensa luce del sole, fuori qualcuno tosava il prato ed il cellulare
segnava
le undici passate.
La notte era passata in un lampo, tranquilla e senza sogni.
Grazie davvero per essere giunti fin
qui. Non è stato facile
barcamenarmi fra esami, mattine in reparto e lezioni, ma in qualche
modo sono
riuscita a terminare e ne sono felice – specie perché erano mesi che
non
scrivevo e anni che non finivo qualcosa.
Grazie a –Tsunade- e Ino;Chan per l’intrigantissimo contest,
mi sono innamorata dell’idea e ci tenevo davvero tanto a finire in
tempo.
Un paio di piccole precisazioni: per quel che riguarda l’aspetto
geografico, i luoghi citati sono tutti realmente esistenti; non sono
proprio
abilissima nelle descrizioni, ma ho cercato di rendere al meglio
l’atmosfera di
Centralia guardando foto su foto e leggendo qualche reportage di
turisti.
Gli accenni all’ambito sanitario USA sono molto random; non
essendo un’esperta ho cercato di non scendere nel dettaglio per evitare
castronerie.
Spero che ciò che avete letto vi sia piaciuto.
Probabilmente ho messo in entrambi i protagonisti un
pochetto di me.
(E infine grazie
soprattutto a te, mon amour, che mi hai incoraggiato dal primo momento
fino all’ultimo
giorno del contest)
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