STRANGE NIGHT HANGER

di Alvin Miller
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4: A Strange Weapon


Saltellò sul posto un paio di volte, ebbro d’entusiasmo.

Sapeva di non potersi sbagliare quando credeva di aver intravisto un altro camerino nella stanza di Rarity. Aveva sentito da lei che qualche tempo prima ne aveva fatto installare uno nuovo per provare sul momento qualche abito in fase di sviluppo.

Lo stesso camerino Spike era certo di averlo notato la prima volta nel momento in cui era entrato per cercare Opal, sebbene non si fosse preso la briga di verificare con attenzione.

Fatto stava che l’intuizione era giusta, e che ora poteva prendersi un secondo di fiato mentre ragionava in tutta serenità sul modo migliore per salvare Twilight e Pinkie.

Scostando la tenda dello stanzino, era certo di piombare in una stanza vuota, dove i suoi nemici portati alla vita avevano abbandonato la loro naturale collocazione per prendere il posto nelle schiere della Mimic; immaginatevi quindi la sua sorpresa quando, riaperti gli occhi dopo lo schiamazzo iniziale e messo piede al di là della tenda, si rese conto di essere in realtà circondato da un congrega smisurata di abiti e manichini, che puntavano dritti la loro attenzione su di lui.

Il perché non li avesse notati fin da subito era da impuntarsi al fatto che era troppo abituato a concepirli come parte dell’arredamento, e non come una minaccia che potesse ledere severamente alla sua vita.

Fosse stato più prudente, sarebbe rientrato mogio, mogio e al sicuro all’interno dello stanzino, e avrebbe ritentato l’esperimento dirigendosi questa volta verso una via più sicura, invece…

Tentò lo stesso di tagliare la corda, ma prima di riuscirci, venne afferrato con violenza da un manichino ed estratto a forza dalla nicchia.

La creatura quadrupede lo lanciò contro un lato della stanza, facendolo urtare contro vari elementi dell’arredo mentre per terra si riversavano strumenti da sartoria dallo scopo più disparato.

Gemette di dolore quando alcune grucce appendiabiti di metallo – fredde e pungenti – gli caddero sulla testa costringendolo a riprendersi dalla confusione iniziale. Allora si rimise in piedi, indolenzito e con le orecchie che gli fischiavano come l’eco di un canto di sirena particolarmente stonato.

Vide che i posseduti gli si stavano stringendo intorno, con passo lento e risoluto, ormai certi che il draghetto non avesse altra via di scampo.

In quella situazione, se voleva uscirne illeso, capì di dover vendere care le proprie squame, e per farlo doveva servirsi dei suoi rinnovati poteri, che a questo punto nessuno poteva mettere in dubbio che avesse.

Ma la domanda che ancora lo affliggeva fu: come?

Si osservò intorno con la rapidità di un suricato che sorveglia il territorio, in cerca di qualsiasi elemento potesse adoperare per levarsi dai guai, ma più era alto il tempo che sacrificava nella ricerca, maggiore era il vantaggio che ai posseduti era concesso per avvicinarsi al rettile.

Impugnò la prima cosa che gli capitò a tiro – una spazzola per criniere – e senza pensarci due volte la lanciò con fare deciso verso un gruppo di completi che si stavano pericolosamente affacciando alla sua sinistra.

Quel che successe fu che l’utensile scostò il vestito ai bordi del tessuto, e la sua traiettoria terminò la corsa a ridosso dell’imponente baldacchino, lasciando Spike con un nulla di fatto e una minaccia ancora più incombente farsi via, via più vicina.

Cos’ho sbagliato?!” Si domandò ansiosamente, schiacciandosi con le spalle contro il muro. “Perché stavolta non ha funzionato?!

Si picchiò la testa per smuovere gli ingranaggi della ragione, e ad un tratto capì. “Fantasia, Spike! Usa l’immaginazione!”

Era vero! Che stupido era stato!

Ora, tutta la scena vissuta fino a quel momento si era svolta nell’arco di non più di una decina di secondi, e anche un solo istante di esitazione in più gli avrebbe costato la libertà (o peggio), quindi si affidò nuovamente al suo istinto, augurandosi che questa volta la sua prossima mossa avesse funzionato.

Prese in mano una delle grucce con cui la sua capoccia aveva da poco avuto uno spiacevole contatto ravvicinato e si stupì nel constatare la particolare forma che l’oggetto richiamava a sé, se concedeva alla sua mente il permesso di divagare nella creatività: quella sagoma triangolare, con l’apice ad uncino che si stringeva da un’estremità verso il centro, mentre una linea verticale (od orizzontale, a seconda di come la si guardava) univa i due vertici dalla parte opposta, gli ricordarono così tanto la forma di un arco che decise di stringerla tra le sue braccia nel medesimo modo cui avrebbe fatto con l’omonima arma.

I suoi assalitori nel frattempo avanzavano in barba ai suoi intenti, per nulla colpiti dagli ultimi sviluppi, e questo gli ricordò che oltre all’arco aveva bisogno anche di alcune frecce.

Ma la solita domanda tornò a punzecchiarlo: cosa?

Si guardò di nuovo intorno, col tempo che stringeva come una morsa sul suo spazio vitale, finché non incappò in un puntaspilli a forma di cuscino riverso sul pavimento che sembrava aspettare non altro che di prestargli soccorso.

Da esso Spike staccò un grosso ago appuntito che afferrò per la cruna, e che quindi portò al centro della sottile base metallica della gruccia, allineandolo con essa e tendendola (incredibilmente) con la stessa facilità che si sarebbe aspettato da una corda di arco.

Non era fondamentale quanto sensata fosse l’azione che stava compiendo, purché si convincesse che la stava compiendo nella maniera giusta. I poteri della Mimic avrebbero poi fatto il resto.

Quando dunque accettò la logica dell’azione, e rilasciò la corda permettendo così all’arco di proiettare la sua freccia dritto sul bersaglio che aveva di fronte, l’ago fluttuò nell’aria a gran velocità ricoperto da una sottile patina di aura magica, che gli conferì a tutti gli effetti l’aspetto di un dardo. Esso quindi si conficcò nel pieno petto di un manichino, che come privato improvvisamente della sua “essenza vitale”, si accasciò a terra tornando ad assumere le reali posizioni della sua forma d’origine.

Gli abiti e le altre figure equine a quel punto trasalirono, avendo finalmente compreso che il piccolo drago aveva scoperto come difendersi.

Spike si mosse più in fretta, stringendo in un unico pugno una manciata di spilli con una destrezza resa possibile soltanto dall’emozione; li lanciò uno dopo l’altro con la sua gruccia verso ciascuno dei posseduti attornianti, mirando nei punti in cui presumeva si sarebbero trovati i loro “organi vitali”, stendendoli in questo modo uno per volta senza dar loro il tempo di fare qualunque cosa, fino a che nella stanza non rimase altri in piedi al di fuori di lui.

Alla fine del contrattacco aveva calcolato tredici scocchi, che si erano conficcati nei corpi di tre manichini e almeno una decina tra capi d’abbigliamento e completi d’alta classe, che ora tornavano ad essere solamente un’esanime massa di tessuti, plastica e polistirolo.

Finalmente salvo, il drago si mosse con circospezione verso i corpi, tendendo la gruccia saldamente puntata contro di loro.

Ne calciò alcuni con il piede, non ricevendo alcuna risposta, e quindi si rilassò.

Era stanco e con il cuore in subbuglio. I polmoni che annaspavano in cerca di ossigeno.

Il suo primo pensiero al termine di quel bizzarro combattimento fu di cercare seduta stante un modo per andarsene da lì, quando un’obbiezione lo fece tornare con i piedi per terra.

“No! Twilight e Pinkie hanno ancora bisogno di me! Devo tirarle fuori in qualche modo!”

In fondo era lui il responsabile di tutto, aggiunse, ed era suo il dovere di rimediare.

Guardando con intensità la gruccia mentre la stringeva solidamente, ora capì di avere tra le mani sia il modo che i mezzi per farlo, e che altro non gli serviva se non di capire come congiungere le due cose.

Cominciò a rovistare in giro – sebbene la violazione degli spazi di Rarity lo rendesse titubante e restio – in cerca di qualsiasi strumento gli potesse tornare utile per l’operazione di salvataggio.

I cassetti in legno erano quasi tutti scoperti e svuotati, ma in qualcuno vi si trovava ancora delle cose, e da uno di essi Spike recuperò una piccola borsetta da viaggio con un’applicazione a forma di diamante sulla chiusura, che indossò a tracolla.

All’interno v’infilò di tutto, dagli oggetti più ovvi alle intuizioni più folli, provando ad immaginarsi i mille  possibili usi per ciascuno dei materiali che recuperava.

La stanza del caos organizzato di Rarity era sì stata una pessima scelta strategica per darsi alla fuga, visto il quantitativo spropositato di capi che la unicorno era solita stiparvi giorno dopo giorno, ma di contro, di tutto il negozio era anche il luogo migliore per rifornirsi dell’equipaggiamento che gli serviva per la missione.

Arraffato tutto l’occorrente (cioè quanto la capienza della borsetta gli aveva consentito; ormai non c’era più spazio neppure per infilarci una monetina), Spike prese al fine una matita per il trucco e si traccio due righe di nero sulle guance, per suggellare in tal modo che era pronto a dar battaglia al nemico.


In fondo alla rampa di scale per il piano terra la discesa era resa impraticabile dalla presenza di un abito femminile in canottiera a maniche corte e gonnellina, che faceva da palo dandogli le spalle.

Tentare di aggirare quel blocco avrebbe richiesto più tempo di quanto non ne avesse, e un tiro con l’arco da una tale distanza avrebbe certamente rischiato di concludersi a vuoto, gettando alle ortiche la sua speranza di un approccio pulito (dopotutto non era un tiratore professionista), spingendo così il posseduto a darsi alla fuga; Spike invece doveva agire d’astuzia, quanto più ne era in grado.

Per fortuna aveva una soluzione, a patto che il vestito non fosse abbastanza sveglio da accorgersi del tranello: nella camera di Rarity c’era un rotolo il cui colore era quasi della stessa sfumatura violetta del draghetto, quindi si mise la gruccia di sbieco sul collo e tornò indietro a recuperarlo.

Una volta tornato, lo fece rotolare bruscamente sui gradini, fissando con intensità il tessuto mentre questi si dispiegava; immaginò in tutta fretta di tuffarsi sulla superficie di un limpido mare tropicale, in cui avrebbe potuto liberamente sguazzarvi per scendere al livello inferiore.

Detto ciò, possiamo riassumere quanto successe nella seguente maniera:

Spike vi scomparve all’interno – letteralmente – dopo essersi accertato di avere portato con sé tutto l’occorrente.

Nel frattempo il rotolo arrivava al piano inferiore passando da sotto la gonna del vestito, che a quel punto sobbalzò allarmato. Esso di principio vide il cilindro di cartone disfarsi e fermarsi contro la parete, e quindi si voltò verso le scale in stato d’allerta.

Quando vide che in cima alla rampa non c’era nessuno, si prese la libertà di abbassare la guardia, e si mise a tastare con puerile curiosità il tessuto, ma fu proprio questa serenità, alla fine, a costargli il prezzo maggiore: due mani squamate emersero dalla tela afferrandolo per le pieghe della canottiera, mentre una lo tirava a sé e l’altra brandiva saldamente una lima per zoccoli (neppure così affilata, a voler essere onesti).

L’abito fu trascinato all’interno della stoffa, dentro la quale si tenne una breve ed imprecisata lotta dalla quale ne emerse solo Spike, affaticato ma trionfale.

Durante la zuffa aveva perduto la lima, ma in borsa aveva sufficiente materiale per sopperire a qualunque necessità futura.

Si scrollò di dosso alcune fibre di tessuto viola come fossero perline d’acqua e avanzò lungo il percorso una volta accertatosi che nessuno lo stesse osservando.


Proseguire nel corridoio gli causò non poca inquietudine.

Era lì che aveva avvistato l’insolito soprabito volante durante le prime ore della serata (e a questo proposito, chissà che ora si era fatta?), ed era sempre lì, in quello sgabuzzino laggiù, che aveva rinchiuso un’indemoniata Opal prima di comprendere la reale entità della situazione (e a questo proposito: era ancora là dentro? Stava bene? Non è che sentisse freddo?!)

“Oh, ma a chi accidenti importa?! Ho problemi più seri ora!”

Stretta tra le mani la gruccia, carica, tesa e pronta a scoccare alla prima avvisaglia di pericolo, mentre lui avanzava a passo felpato passando davanti allo sgabuzzino, udì distintamente i soffi isterici della gatta che strillava e grattava sulla porta dandogli per lo più la certezza che l’animale era ancora intrappolato all’interno.

Aveva completato metà del percorso quando gli parve di udire un eco di zoccoli rimbalzare lungo le pareti.

Immediatamente svoltò l’angolo, e trovò riparo proprio in prossimità di quel varco oltre il quale si celava il predatore dalla pelliccia bianca, il quale forse accortosi del suo arrivo, iniziò ad emettere lamenti e schiamazzi ancora più rintronanti.

«Insomma, vuoi startene un po’ zitta, stupida… » “gatta?!” Disse a sussurri, ma s’interruppe all’improvviso quando qualcuno imboccò il corridoio iniziando pericolosamente ad avvicinarsi.

Sporgendo la testa per sbirciare al di là, vide un altro di quegli inquietanti manichini seguito a ruota da un elegante completo, che lui riconobbe come uno di quelli facenti parte del guardaroba personale di Rarity: era giallo canarino con drappi che si schiarivano sull’estremità inferiore, una gemma levigata ad ovale sul colletto e un ampio cappello a larghe tese con rose e fiocco azzurro che levitava sostenuto al di sopra della veste, come sorretto da una qualche testa invisibile che lo indossava.

La gatta non si sarebbe quietata in nessun caso, e le due figure quasi sicuramente stavano intervenendo per indagare sul baccano, pertanto Spike era in trappola… salvo che non fosse stato lui primo ad attaccare la coppia.

Preso un altro spillo dalla borsetta, stringendolo tra il dito medio e l’anulare, mentre con il pollice e l’indice tendeva la gruccia, decise che avrebbe puntato per primo al manichino, essendo tra i due l’avversario più pericoloso. Così facendo, con la giusta distanza e un po’ di fortuna avrebbe superato incolume anche questo nuovo ostacolo.

Respirò a fondo e provò a rilassarsi. Le braccia gli dolevano ora come non mai, ma non era quello il momento per lasciarsi distrarre da futili lamentele.

Rimase in attesa che i posseduti avanzassero ancora di qualche metro, abbastanza da assicurarsi un tiro sicuro, e quando fu convinto della sua azione, uscì allo scoperto scoccando a bruciapelo il primo dei dardi.

Un istante dopo, tre metri più in là, una serie di spasmi e il manichino fu messo fuori gioco, centrato sul collo dall’ago, cui l’aura magica ora si spense.

Spike passò dunque il secondo ago tra le dita e lo lanciò verso l’abito, che invece di lasciarsi colpire, lo evitò con gran beffa compiendo un’agile mossa ondulatoria nell’aria.

Il drago non se l’aspettò, e per poco non ci rimise le squame quando l’avversario gli scagliò a sua volta il cappello, alla maniera di un frisbee.

Per scansarlo dovette sdraiarsi a terra, mentre il copricapo si piantava sull’angolo alle sue spalle come l’affilata lama di un disco rotante.

Mentre rivolgeva lo sguardo ad esso, con il cuore che si gonfiava a mille mila nel petto, il posseduto si defilò dalla direzione di provenienza andando probabilmente a richiamare i rinforzi, o peggio ancora, avvisare la Mimic della sua posizione.

“Tanti cari saluti all’approccio Stealth, congratulazioni Spike!” si rimproverò da sé intanto che si rialzava da terra.


«Piano con quello!… Muoviti con cautela!… sciocco, stai spargendo l’olio su tutto il pavimento!… No! Cautela ho detto!!»

A nulla valsero gli avvertimenti della gemma stregata: la latta di lubrificante che il manichino tentava di stringere con impaccio tra gli zoccoli anteriori, per oliare le cerniere dello scrigno vetusto, finì per scivolargli di zampa rovesciandosi il contenuto su tutto il lastricato.

La Mimic imprecò, affondando una gamba di divano sul suolo macchiato di grasso. «Inutili abomini! Ma perché non vi producono con le corna, perché?!»

Pensò allora di doversi rivolgere a un altro dei suoi serventi, una canotta bianca di candida seta: «tu, vieni qui! Prendi il suo posto!»

La veste sussultò esterrefatta: sebbene allietata dall’opportunità di accontentare la sua sovrana, il compito che le venne richiesto si rivelava impraticabile dal semplice fatto che essa in realtà NON possedeva le maniche, e quindi nessun modo per brandire la tanica.

«Come non detto, lascia perdere!» Grugnì avvilita. «Dovunque mi volto sono circondata da idioti!»

Poi aggiunse dell’altro sottovoce. «Quando me ne andrò, farò in modo di rifilarvi tutti ad un banco dei pegni! È una promessa!»

In quel momento la porta del laboratorio si spalancò ed entrarono in processione il tubino insieme ad una truppa dei restanti posseduti.

«Portami buone notizie almeno tu: dimmi che l’avete trovato e che ora si trova di là con voi!»

Sfortunatamente per lei, la risposta fu negativa.

La Mimic ruggì con un verso che era in parte di bestia e in parte di lamiera corrosa. «È possibile che di cinquanta individui non siate in grado di mettere insieme un solo cervello?!»

Il secondo in comando dei posseduti incassò la critica in devoto contegno.

«D’accordo. Andrà a finire che quando avrò i miei pieni poteri, lo cercherò da me.»

A un fianco della stanza, un trio di tuniche da cerimonia stava tracciando con delle penne d’oca alcuni simboli rituali, sopra una pedana rialzata sulla quale le due pony stavano dormendo nell’ignavia di ciò che le circondava.

«Voi, laggiù, quanto altro vi occorre per quelle rune?!»

Di questi, uno rivolse alla gemma dei gesti sgraziati, che si potevano tradurre parafrasandoli con: “manca ancora un po’ ”

«Siete più lenti a concludere voi che un giaccone invernale ad asciugarsi al coperto! Vedete di sbrigarvi, per cortesia!»

Chissà cosa avrebbero ribattuto le tuniche, se avessero avuto il dono della parola.

«E per quanto riguarda voi… » minacciò ora la schiera del tubino: «Tornate fuori e vedete di restarci! Non voglio rivedervi fino a quando il drago non sarà in manica vostra, e assicuratevi che rimanga legato, stavolta!»

La porta si spalancò di nuovo, e l’abito giallo fluttuò davanti a tutti con movenze scombinate, come se a sospingerlo vi fosse una violenta bora autunnale.

Oltrepassò con poco garbo anche il suo Generale in lustrini, e rivoltasi alla gemma acquamarina, prese a mimare gesti inconsulti davanti all’attenzione sgomenta dei presenti.

«Adagio, adagio! Che cosa è successo?» Chiese la Mimic nell’intento di capirlo.

Ma lui continuò, come se non avesse recepito la domanda.

«Un momento, vai con calma! Ripeti tutto dopo: “manica sollevata sinistra”.»

L’abito giallo allora sollevò e poi abbassò la manica, quindi ripeté – stavolta con più enfasi e meno clamore – le gestualità di ciò che tentava di comunicare; in sostanza: un sunto riassuntivo dell’incontro ravvicinato con il drago fuggiasco.

La Mimic annuì e mormorò, attendendo la fine.

«E così il piccolo Spike è pieno di sorprese, eh? Chi lo avrebbe immaginato. Il confronto si fa dunque interessante.»

Dietro la veste gialla, il tubino si stava sfregando le maniche con impazienza.

Lo guardò e gli disse semplicemente: «Sai cosa fare.» E lui confermò con un sicuro cenno di assenso.

Uscì dal laboratorio portandosi appresso i suoi, e la porta si richiuse da sé.

La frenesia nel laboratorio divenne totale: qualcuno che usciva per dare manforte ai serventi di fuori, qualcun altro che rientrava per adunarsi tra le guardie della Mimic.

E la sovrana al suo posto, superba e magnifica, sorrideva pregustandosi di già lo spettacolo imminente.

«Caro, piccolo eroe, la tua tenacia rende giustizia alla tua stoltezza, ma vedremo ora se i tuoi trucchi avranno la stessa efficacia sul campo aperto. Io nel frattempo me ne starò qui, e ti attenderò con pazienza… » la sua espressione si congelò in un ghigno tronfio ed aberrante, di cui si sarebbe potuto narrare per i secoli a venire «in fondo, sono abituata ad attendere.»


Si dice che il cuore dei rettili non riesca mai ad ossigenare ben bene il loro organismo, colpa forse della struttura del ventricolo che non ne garantisce una corretta areazione dei tessuti.

Poteva darsi che era questa la ragione dell’affanno che stava sentendo Spike, oppure, poteva trattarsi della più banale paura, che lo costringeva come in una gabbia gettandogli negli occhi flutti di confusione.

“Ho riposto troppa fiducia nelle mie capacità e nei poteri dalla Mimic?” Si chiedeva mentre avanzava. “Sono davvero pronto ad affrontare quello che mi attende dall’altra parte?”

La borsetta a tracolla gli provocava fitte sulla spalla, a metà tra un torcicollo e un crampo muscolare, e le dita costantemente strette sul filo della gruccia piangevano e lo supplicavano di lasciarle rilassare; e dove non bastavano i segnali del suo corpo, ci pensavano le emozioni, contrastanti, a persuaderlo di cedere.

Ma era ormai nel bel mezzo della partita, con premi e penalità troppo alti per decidere una strada diversa da quella che stava seguendo.

Davanti a sé poteva palesarsi la sua condanna oppure la redenzione, ma se si fosse rifiutato di avanzare, c’era un solo epilogo al quale avrebbe assistito.

E quindi si fece coraggio, tra sé e sé, mormorandosi frasi di conforto e sistemandosi alla bell’e meglio la borsa addosso; la gruccia allineata con il suo avambraccio.

Avanzò, oltrepassando quei pochi metri che separavano la codardia dalla dura realtà…


E lì li trovò, come se li sarebbe immaginati nel diorama più tetro del suo pessimismo.

Gli abiti, informati del suo arrivo, erano posizionati a macchie disorganizzate su tutto l’atrio, intervallati dai manichini che mai come adesso apparivano tutti così uguali e pallidi come spettri.

Vi vide, in quell’esercito, tutte le personalità che aveva incontrato nel corso di quella notte: gli abiti che avevano legato lui e le sue amiche, il Generale in lustrini blu armato di scialle, e con essi la stragrande maggioranza dell’intero guardaroba di Rarity.

Nessuno si mosse nel tempo intercorso durante quel momento, a parte un sospiro amareggiato di Spike, che con esso espirò tutto d’un fiato la nube venefica che componevano le sue ansie.

«D’accordo…» fece per innalzare la sua arma «se proprio dobbiamo combattere, così sia… »

Ma che successe all’improvviso?

Qualcosa lo afferrò da dietro! Qualcosa che le sue orecchie non avevano neppure captato, che la coda dell’occhio non aveva intravisto!

Il soprabito volante!

Le sue maniche si erano avvolte intorno alle sue braccia come le spire di un serpente. Lo sollevarono da terra, costringendolo ad abbandonare la sua preziosissima gruccia.

Lo condusse verso il centro della hall, in mezzo al più affollato assembramento dei posseduti.

Da questo Spike ne dedusse che non si sarebbe limitato a sganciarlo laggiù per poi lasciarlo alla mercé dei compagni; come in una rissa, esso lo avrebbe adagiato a terra trattenendolo, mentre gli altri si sarebbero divertiti con lui come meglio credevano, senza cedergli alcuna possibilità di difesa.

Sollevò allora il collo, cercando di rovesciarlo all’indietro quanto più gli era possibile, e sbuffò una timida fiammetta arancione sulla superficie interna del soprabito, sperando così di riuscire a bruciarlo. Ma non funzionò: troppo piccola era la vampata e molta la sua stanchezza, dopo una giornata trascorsa a pulire, ordinare… e scappare.

Sbracciando per liberarsi dalla presa dell’assalitore, si dondolò in tutte le direzioni fino a che non riuscì a liberarsi della manica destra, ed infilare rapidamente la mano all’interno della borsetta.

Ne venne fuori armato di una piastra per criniere, che sapeva benissimo come avrebbe utilizzato, avendone già pianificato lo scopo come di ciascuno degli strumenti contenuti in bisaccia.

Malgrado il cavo dell’alimentazione stesse penzolando inutilmente dall’estremità inferiore, al drago bastò immaginarsela accesa per far si che lo strumento si riscaldasse dall’interno. Rivolse allora la parte arroventata verso il tessuto, e lo sferzò impetuosamente brandendola come fosse una spada!

La piastra bruciò con la facilità di un panetto di burro l’estensione del soprabito, aprendo una linea obliqua che divise l’avversario in due parti, una delle quali utilizzò per paracadutarsi in sicurezza a livello del pavimento.

Quando atterrò, nell’atrio si accese un turbinio di caos. Non il tempo di un’esaltazione o di una qualche esclamazione ad effetto, che gli altri posseduti gli furono tutti addosso.

Spike brandì coraggiosamente la piastra, servendosene per affettare gli avversari ogni volta che tentavano di bloccarlo. Ma ero troppi, una legione inestinguibile dalle sue sole ed esigue forze.

Il puzzo di tessuto bruciato e il fumo gli colmarono il naso e gli occhi, facendoli lacrimare. Dopo un po’ poté già considerarsi fortunato se riusciva a respingere a malapena gli assalti più impetuosi.

Sprizzò del fuoco per allontanarli da sé, quindi rimise in borsa l’allisciacriniera, estraendo al suo posto il secondo dei tre oggetti più ingombranti dall’interno: un phon a batteria!

Lo accese, e puntando il bocchettone sul primo gruppo di avversari schiacciò la regolazione corrispondente al massimo grado d’intensità, investendoli tutti d’un poderoso gettito di plasma infiammato!

Il fascio termico si proiettò dalla strumento ed aprì buchi sugli aggressori, come fossero fogli di carta.

Spike ruotò poi su se stesso il phon di 360° gradi, e si aprì un varco nelle fila nemiche investendo i restanti con una spirale concentrica.

Questa mossa gli fece guadagnare qualche metro di vantaggio, ma non una rimonta, perché tanti erano gli abiti e i manichini che ancora erano sugli zoccoli, che le schiere dell’esercito si erano già rinfoltite di nuovi rimpiazzi.

Alcuni abiti corsero a spegnere le fiamme che stavano dipanandosi per tutta la stanza, e che rischiavano di dare fuoco all’intera abitazione, occupanti inclusi.

Da questo Spike fu costretto a convenire che un uso ulteriore del phon era da considerarsi fuori questione.

Corse a recuperare la gruccia, unica alternativa come arma a distanza rimastagli nell’inventario. Ma fu proprio allora che qualcosa gli piombò a pochi passi, scavando un alveare di piccoli fori asimmetrici nel bel mezzo del pavimento.

Alcuni abiti, più accorti degli altri sul netto vantaggio del drago sulle loro schiere, si erano muniti di scatole di applicazioni per cucito, bottoni e fibbie per cinturini, che ora stavano raccogliendo e lanciandogli contro a grappoli. Questi, per giunta, probabilmente alterati nella loro struttura per effetto della Magia, quando colpivano una qualunque superficie, agivano come le schegge di una bomba frammentaria, scavandovi in essa solchi profondi anche diversi centimetri.

Spike dovette sgambettare a zig zag come una gazzella per sfuggire alla pioggia di proiettili che gli stavano scaricando contro, e si rintanò rannicchiato dietro una pedana stringendo tra le mani la sua preziosa gruccia.

Parte dei frammenti riuscirono a beccarlo, causandogli dolori atroci sulla sua povera e ammaccata testa.

Si lanciò al contrattacco, rischiando di esporsi al fuoco nemico, e fu in grado di metterne al tappeto alcuni (principalmente manichini che cercavano di trottare verso di lui) scoccandogli addosso una manciata di dardi, ma per la maggior parte erano ancora tutti al loro posto. Anzi, nel giro di pochi secondi altri abiti si unirono ai lanciatori, portandosi appresso nuovo scatolame pieno di cianfrusaglie catapultabili.

“Così non va bene per niente, devo fare qualcosa!”

Per giunta la sua scorta di aghi stava andando esaurendosi.

Per avere una speranza di cavarsela, Spike dovette ricorrere ad una drastica soluzione, che fino all’ultimo si era augurato di poter evitare.

Le sue dita tastarono a fondo la borsa, estraendo stavolta una matassa e due rocchetti di filo da cucito.

Li srotolò uno ad uno di qualche centimetro, sperando di non sforare con le tempistiche, e quando ritenne di averne abbastanza, ne incendiò gli apici in simultanea con il suo fuoco lanciandoli alla cieca verso le postazioni nemiche.

Chiuse poi gli occhi e le orecchie, e si rannicchiò in posizione fetale aspettando che succedesse.


BOOOM!!

BOOOM!!

BOOOM!!


Tre esplosioni si susseguirono ad intervalli irregolari, accompagnati da crepitii di vetri infranti e mobilio che si sfasciava.

Il drago uscì allo scoperto, trovandosi nel bel mezzo di un pandemonio fatto di cocci di finestre, arredamento in macerie e stracci di abiti sparpagliati dovunque.

Il corridoio conservava ancora le sue quattro mura, ma ben poco del resto era rimasto integro.

“Ops… forse ho un po’ esagerato…”

Una testa mozzata di manichino poggiata diritta sulla sua base, lo fissava all’altezza del suolo con espressione piatta e monotona, ma dovunque fosse il resto del corpo, nessuno poteva dirlo.

“Rarity stavolta mi ammazza. Altro che Mimic…”

In quell’attimo, dal disordine scomposto dell’atrio, alcuni posseduti riemersero danneggiati, ma ancora frementi di vitalità. Non gli ci volle molto perché rinsavissero e tornassero alla carica del povero ed esaurito drago.

“Oh, ma andiamo!”

Spike ingaggiò lo scontro tranciandoli uno alla volta con la piastra per criniere, fino a che da un cumulo di stracci davanti ai suoi occhi non si materializzò la massima espressione del suo incubo peggiore, sottoforma di un acuto bagliore azzurro che oramai conosceva tanto bene quanto le sue unghie.

Rimasti da soli nell’atrio, Spike da una parte e il tubino di lustrini dall’altra, questi (che era sì un po’ bruciacchiato ma assolutamente in gran forma) prima lo accecò con i fulgori del suo decoro, poi utilizzò lo scialle per disarmarlo dalla piastra, che quindi getto lontano fuori dal campo di battaglia.

Infierì su di lui frustandolo con spietatezza, ogni qualvolta il drago non riusciva ad evitare una sua sferzata (ed erano molte, più di quante non riuscisse a scansarne; era così stanco che a malapena aveva le forze per provare dolore).

Dopo l’ennesima distrazione si ritrovò nuovamente disteso lungo a terra.

La sciarpa si avvolgeva sulle sue gambe e lo trascinava con sé, come un tentacolo di cefalopode verso il proprio becco.

Questa volta la stretta era fin troppo decisa perché bastasse scioglierla con le mani, e Spike non aveva alcun modo di liberarsi.

Ma un momento? Cos’era quella cosa sfavillante sulla quale i lustrini del completo si riflettevano nella maniera di un faro in una notte tempestosa? Bontà Celeste! Poteva forse trattarsi di…  ma sì! Erano senz’altro delle…

“… delle forbici!”

Non perdere tempo a pensarci, forza Spike, prendile e usale!

Quasi al cospetto – oramai – del diabolico tubino, il rettile estese il suo piccolo arto sulla direzione dell’utensile abbandonato e lo ghermì strenuamente, poiché dalla sua apparente insignificanza dipendevano le sorti di un intero regno.

Ma attenzione a questo: perché Spike non se ne servì nella maniera più ovvia, usandolo per dividere il cordone che lo univa al suo carceriere! Scelse invece di lanciarglielo contro, alla maniera di un tomahawk! No, aspettate! Non un tomahawk! Poiché essi non compiono quella volata a ferrò di cavallo quando vengono sferrati!

Se si volesse cercare una corrispondenza al moto ellittico che la forbice compì nel girare intorno alla stanza, quando poi tornò indietro conficcandosi sul dorso del vestito, allora quello fu proprio l’effetto che ci si sarebbe aspettato da un efficentissimo boomerang!

Ed era stata la sua scelta migliore, dato che a scagliarla nell’altro modo sicuramente il tubino avrebbe intercettato l’arma sul momento dell’arrivo e gli avrebbe così negato la sua unica possibilità di toglierlo di mezzo una volta per tutte.

Andò, invece, che il Generale delle truppe della gemma acquamarina fu colpito alle spalle da quell’abile lancio, e si spense di fronte a Spike accovacciandosi al suo cospetto, quando invece tale destino era serbato al drago.

Spike aveva vinto, o per meglio dire, aveva trionfato in quella battaglia, ma la sfida che lo attendeva nel laboratorio della boutique sarebbe stata ancora più temibile, ora che la Mimic era bene informata del suo valore.

Si ripulì di dosso la polvere e il lerciume incollatisi alle squame, cercando di non arrovellarsi per il putiferio indicibile che aveva provocato nella Hall dell’amica.

Le armi che si era perso per strada rientrarono al loro posto, e prima di proseguire, decise di fare tappa in una stanza adiacente, dove un conto in sospeso attendeva da diverse ore di essere saldato.


Cucina.

Aprì il frigo con una serietà nello sguardo che era quasi maestosa.

Il parfait di gemme che da tempo si era promesso di mangiare era lì, nella fedele raffigurazione del suo languorino più fastasticheggiante.

Prendere in mano la ciotola fu per lui come vivere un sogno, del quale però ne andavano deliziati anche l’olfatto e ben presto il gusto.

Spalancò le fauci così tanto che avrebbe potuto insinuarvi l’intero contenitore, fosse stato anch’esso scolpito nel diamante, e vi rovesciò dentro il contenuto gustandone appieno i sapori.

A questo rito dovette concedere solo pochi secondi, poiché altre faccende  richiedevano impellenti la sua attenzione, ma ciò non gli negò di distrarsi un po’, almeno per alcuni istanti, in quella deliziante consolazione.

Ingurgitò la cena con un filo di mestizia mentre gli scendeva in gola, e come atto finale adagiò il rubino intagliato a ciliegia sul palato, prendendo a succhiarlo come un lecca-lecca, nel frattanto che la sfida finale lo attendeva al di là, nel laboratorio principale.




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