Atto
Primo: Unswefn
Scena Prima
So two nights passed:
the night's dismay
Saddened and stunned
the coming day
Sleep, the wide
blessing, seemed to me
Distemper's worst calamity.
Correre.
Correre a perdifiato
attraverso un bosco di cui non riusciva a intravedere la fine. Correre
finché i
polmoni sembravano non avere più neanche la forza di continuare a
respirare.
Correre fino al punto di sentire il cuore in gola e le tempie che
pulsavano
così intensamente che la testa pareva scoppiargli. Correre.
E
John, a dire tutta la verità,
detestava correre.
Eppure
doveva farlo, perché non era
solo e il suo inseguitore era molto più forte di qualsiasi nemico che
avesse
mai affrontato. Si girò per un attimo per guardare indietro, rischiando
quasi
d'inciampare nei suoi stessi passi. Il drago nero torreggiava sulla
foresta, le
ali spiegate al vento e gli occhi gialli fissi sulla preda sottostante.
Inutile
dire che John era la preda designata: piccolo nel suo metro e
sessantanove,
alto ad occhio e croce quanto l'unghia di quell'enorme mostro che lo
stava cacciando
da un tempo indeterminato. Finché fosse rimasto in mezzo agli alberi,
avrebbe
avuto una qualche protezione. Ma gli alberi sarebbero finiti. A pochi
centinaia
di metri da dove si trovava – schivò la quarta buca e, di seguito, il
quinto
cespuglio di rovi – sapeva benissimo che il bosco sarebbe terminato e
che i
larici, gli abeti e i pini avrebbero lasciato il posto ad una radura
con erba
secca e nessun nascondiglio.
Non
poteva neanche tornare indietro
John. Qualsiasi strada avesse deciso di percorrere, l'avrebbe portato a
quella
spianata e, di conseguenza, dritto nelle fauci del drago.
Se
solo riuscissi a razionalizzare...
Non
che John non ci avesse provato a
razionalizzare, a trovare una via d'uscita da quella situazione, ma più
tentava
di farlo più il suo subconscio lo spingeva nella direzione opposta. E
il drago
si faceva più grande e sul sentiero tracciato nel bosco apparivano
paludi e
sabbie mobili nelle quali si affondava fino alla vita, rallentando
irrimediabilmente la sua corsa. E il drago si avvicinava.
Peccato
che non esistessero draghi, né
boschi, né paludi, né radure e che quello fosse solo un fottutissimo
incubo da
cui non riusciva a svegliarsi. John lo comprendeva benissimo, eppure
non era in
grado di uscirne.
Evitando
il millesimo masso ricoperto
di muschio con un salto che lo fece atterrare violentemente sulle
ginocchia,
John fu costretto a fermarsi per un secondo.
Devo
razionalizzare. Svegliarmi.
Come
il tutto fosse cominciato non se
lo ricordava con esattezza. Non riusciva a rammentarsi di quando, un
giorno –
o, più precisamente, una notte, l'Apache che volteggiava nel cielo
terso
dell'Afghanistan si era trasformato in un drago nero. Un essere
scaturito dalla
sua fantasia, che non aveva ragione di esistere e che, invece, pareva
così terribilmente
reale. Allo stesso modo non si capacitava di come le distese desertiche
fossero
diventate querce, faggi, pini. Tutto ciò non aveva senso.
Poteva
capire gli incubi. La sua
psicoterapeuta lo aveva avvertito che la sua sindrome da stress
post-traumatico
generata dalla sua esperienza sul campo in Afghanistan lo portava a
fare sogni
quanto mai veritieri – e terrorizzanti – su ciò che gli era accaduto.
Questo
aveva imparato ad accettarlo. Quello che lo sconvolgeva era che il
drago non
era reale, il bosco non era reale. Ma gli sembrava che lo fossero, come
se la
sua esperienza, i suoi ricordi fossero stati sostituiti pur rimanendo
gli
stessi. Doveva razionalizzare, ma non ci riusciva.
Fece
un respiro profondo, il drago che
volteggiava sopra la sua testa per cercare il suo nascondiglio. Quando
un grido
acuto attraversò l'aria, John capì di essere stato individuato. Era
peggio
delle sirene del coprifuoco, peggio delle esplosioni distanti nella
notte.
Contro quelle John sapeva come difendersi. Contro un fottutissimo
drago, no.
Riprese
a correre, mentre le ginocchia
facevano male, mentre i muscoli gli chiedevano, lo supplicavano di
fermarsi, di
trovare una via d'uscita.
Svegliati,
John! Dannazione,
svegliati!
Il
grido nella sua testa rimase
inascoltato e lui si vide costretto a schivare l'ennesimo cespuglio
spinoso,
evitando al contempo di schiantarsi contro il tronco di un faggio che
si
stagliò improvvisamente di fronte a lui.
A
pochi metri dai suoi occhi apparve
la radura a cui non voleva arrivare, ma che era costretto a
raggiungere.
Secondo i suoi calcoli, lo spiazzo erboso doveva corrispondere a quello
che un
tempo – quando i suoi incubi erano ancora incubi realistici e non
un'accozzaglia di fantasie senza senso – era stato l'avamposto nel bel
mezzo
del deserto afghano dove era stato ferito. Era lì che tutte le sue
visioni
belliche si concludevano: una scarica di proiettili nella spalla e si
sarebbe
svegliato, grondante di sudore, nel suo miserevole letto, nella sua
miserevole
vita.
Peccato
che la raffica tanto familiare
di Zastava si fosse mutata in una fiammata rosso-oro che usciva dalle
fauci
dell'enorme mostro alle sue spalle e che il dolore, invece di essere
arginato
ad una sola parte del corpo, lo bruciava completamente, come se il
fuoco lo
avvolgesse davvero.
E
sono sciocchezze, perché i draghi
non esistono.
Il
risveglio era identico, se non per
un particolare. Quando ancora sognava di mitragliatrici e bombe e
esplosioni,
apriva gli occhi sollevato perché il tutto si era finalmente concluso;
ora
l'aprire gli occhi non gli dava più alcun sollievo.
Appena
la radura lo accolse, il drago
cominciò la sua immancabile picchiata. John tentò di schivare
l'affondo,
riuscendoci per pochi millimetri. La bestia si rialzò nel cielo plumbeo
e
riprese forza per un nuovo attacco.
“Aiuto!”,
urlò con quanto fiato gli
era rimasto in gola.
In
quel momento dagli alberi
dall'altro lato della radura apparve un uomo. Non era la prima volta
che faceva
la sua comparsa nei sogni di John, ma, generalmente, era apparso come
un'ombra indefinita,
sfumata. Stavolta, invece, la figura maschile era perfettamente chiara,
circondata da un'aura luminescente. Una lunga tunica biancastra,
sostenuta da
una cintura di corda, cingeva un corpo snello ma agile, lasciando
intravedere
soltanto mani e piedi; ricci neri circondavano un volto pallido e
stanco, al
centro del quale si stagliavano penetranti occhi di ghiaccio.
John
non sapeva chi fosse, né perché
apparisse casualmente nei suoi sogni, né perché quella notte fosse così
dettagliato.
L'uomo
si fermò alle soglie del bosco,
gettò una rapida occhiata a John e poi rivolse il suo sguardo verso il
drago.
Con maestria e delicatezza tracciò alcuni segni nell'aria e cominciò a
recitare
una litania che John non riusciva a comprendere.
In
pochi istanti il drago scomparve,
la radura scomparve, l'uomo scomparve. Rimase soltanto John, avvolto da
una
luce calda e protettiva.
Secondi
dopo aprì gli occhi, l'incubo
un vago ricordo di un passato remoto.
Atto
Primo: Unswefn
Scena
Seconda
Deep
into that darkness
peering,
Long I stood there,
wondering, fearing, doubting,
Dreaming dreams no
mortal ever dared to dream before.
Sherlock riaprì gli
occhi, mentre gli ultimi fumi del fuoco sacro s'intersecavano
all'interno
dell'abitazione fino a trovare la loro naturale uscita attraverso il
buco nel
tetto e la luce pallida del primo quarto di luna sbiadì per qualche
secondo
dietro quel velo perlato.
L'uomo tentò di
comprendere quello che era appena accaduto. Portate le mani giunte a
contatto
con le labbra, espirò, si spostò dal braciere e chiuse il mondo al di
fuori
della sua mente. Per prima cosa elencò le varie sostanze che aveva
bruciato:
resina di nocciolo, legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.
Nessun errore.
Poi considerò ciò che
aveva bevuto: birra con un infusione di foglie d'edera triturate.
Perfetto.
Eppure la visione
onirica non era stata quella corretta e la cosa lo faceva infuriare.
Per di più
quello strano fenomeno era già successo in precedenza. E questo – se
possibile
– lo rendeva ancor più nervoso.
Ripensò alla prima volta
in cui la sua arte aveva – senza nessuna ragione apparente – fallito.
Tutto era
cominciato esattamente due lune prima, quando suo fratello, il Walda
Mycroft,
lo aveva convocato d'urgenza, dicendogli che il Walda Moriarty, signore
del
villaggio confinante con il loro, stava portando una serie di attacchi
onirici
non solo nei suoi confronti, ma anche nei confronti dei guerrieri più
valorosi
del villaggio per fiaccarne la resistenza in battaglia.
Era, infatti, venuto a
galla che Moriarty avesse assunto al suo servizio uno dei migliori
Swefnesdræfend – un cacciatore di sogni – che si potesse trovare in
circolazione: Moran. Sherlock se n'era convinto alla prima occasione di
scontro. Considerando il fatto che lui era, a detta di tutti, il
miglior
Swefnesweriend che il suo clan avesse mai avuto, si era stupito quando,
nel
sogno di suo fratello, si era imbattuto nelle creature create da Moran:
subdole, oscure, letali. Aveva dovuto metterci tutta la sua conoscenza
nelle
arti magiche, negli incantesimi e nello sciamanesimo che praticava fin
dall'infanzia per sconfiggerli e regalare, così, a Mycroft la prima
vittoria.
Col tempo gli attacchi
si erano fatti sempre più potenti e il suo continuo valicare il confine
labile
tra i sogni e la realtà lo aveva portato ad uno stato perenne di
agitazione e
nervosismo: mangiava a malapena e il sonno era diventato sconosciuto al
suo
stile di vita. Nonostante ciò, grazie al suo costante lavoro, il
villaggio
continuava ad essere protetto dagli attacchi di Moriarty, sia di
giorno, grazie
ai valorosi guerrieri al servizio di Mycroft, sia di notte, grazie alle
sapienti – e sempre più precise – arti magiche di Sherlock.
Una luna prima,
tuttavia, dopo aver preparato i materiali per il fuoco sacro e aver
bevuto
l'intruglio consacrato, si era trovato non nel sogno di suo fratello o
in
quello di qualche guerriero, ma in un posto sconosciuto. Nei suoi primi
anni di
pratica da Swefnesweriend gli era capitato di comparire in qualche
sogno che
non riusciva a classificare o riconoscere, ma l'esperienza aveva del
tutto
cancellato quella possibilità. Eppure quella volta era apparso – non
fisicamente, ma solo mentalmente – in un luogo che non gli era in alcun
modo
familiare.
Le distese boschive
della Britannia erano scomparse per lasciare posto ad un paesaggio
desolato,
fatto di sabbia e di piante riarse. In questo ambiente inospitale aveva
visto
qualcosa che lo aveva lasciato sconvolto per alcuni secondi. Nel cielo
volteggiava quello che gli era parso un uccello senza ali, ma che aveva
sulla
schiena delle pale nere, simili a quelle che aveva visto solo una volta
attaccate ad un mulino a vento; ma, se quelle del mulino erano disposte
verticalmente, quelle dell'animale – perché non poteva essere
nient'altro –
erano disposte orizzontalmente e sembravano mantenerlo in posizione,
permettendogli di volare. Anche il colore – un verde palude – era
inusuale per
un uccello e le dimensioni erano quanto mai spaventose: ad occhio e
croce era
lungo come dieci uomini ed alto circa tre. Nulla gli era mai sembrato
così
terribile.
Inizialmente aveva
pensato ad un inganno di Moran, ad un modo che lo Swefnesdræfend aveva
trovato
per incutergli timore. Per questo motivo, facendo ricorso a tutto ciò
che aveva
imparato nel corso degli anni, aveva cominciato a modificare il sogno
in modo
da farlo combaciare con le conoscenze che possedeva. L'uccello enorme,
a
fatica, era stato trasformato in un drago nero – l'unica creatura tanto
temibile che poteva combaciare con quell'essere – e un altro paio di
formule
magiche gli avevano permesso di cambiare la distesa di sabbia a lui
ignota
nella verde foresta che circondava il suo villaggio.
Poi, però, era comparso
un uomo che scappava dal drago che lo inseguiva. Capelli biondi e abiti
mai
visti prima, correva facendosi strada tra gli alberi con aria confusa.
Sherlock
aveva tentato di associarlo ad uno dei guerrieri del villaggio, ma
senza
successo. L'uomo gli era sconosciuto. Nelle prime occasioni in cui lo
aveva
visto fuggire, era riuscito ad interrompere il sogno senza difficoltà,
lasciando l'uomo al suo destino. Ultimamente, però, aveva cominciato a
liberarlo dal suo incubo. Anche perché – e questo lo lasciava stupito
più di
qualsiasi altra cosa – aveva sentito la necessità
di salvarlo.
Nel corso dell'ultimo
mese il sogno si era fatto ricorrente: l'uomo, lo strano uccello, la
distesa
sabbiosa comparivano ad intervalli regolari di due o tre giorni e lui,
spinto
da un bisogno incomprensibile, continuava a salvare lo sconosciuto dal
drago
che lui aveva creato.
Quella notte non aveva
fatto eccezione, se non per un particolare apparentemente
insignificante e che,
invece, lo stava preoccupando seriamente: per la prima volta aveva
assunto
forma completa all'interno del sogno. E sapeva bene quanto fosse
pericoloso.
Immerso nei suoi
ragionamenti, si accorse in ritardo che nel salone non era più solo.
Suo
fratello Mycroft era apparso sulla soglia e lo stava osservando con
occhi di
fuoco.
“Fratello mio!”, esordì
il Walda “Cosa è successo? Le creature oniriche-”
“Lo so.”, tagliò corto
Sherlock, il pensiero fisso sugli occhi dell'uomo biondo all'interno
dei suoi
sogni.
“E, dunque, cosa è
successo?”, inquisì Mycroft.
“Il solito.”, sbuffò
Sherlock “Quel sogno.”
“Sai che non possiamo
permetterci di perdere. Ne va delle nostre vite. Non c'è un modo per
evitare
che quel sogno s'insinui nella tua testa?”
“Non si possono
controllare i sogni fino a quel punto, Mycroft.”, disse spazientito
Sherlock
“Posso solo entrarvi e, come ben sai, non posso neanche scegliere il
sogno. Posso
solo accettarlo.”
Fece una pausa e si mise
ad osservare le braci che lentamente annerivano.
“Mi fa infuriare!”,
sbraitò, rompendo il silenzio che era appena calato “Questo sogno,
quell'uomo,
l'idea di non sapere cosa sia, il tarlo che possa essere un contorto
piano di
Moriarty! E adesso!”, aggiunse con voce sempre più irata “Ho persino
preso
forma completa!”
Gli occhi di Mycroft si
spalancarono per lo stupore.
“Come?”, chiese
titubante “Forma? Ma è-”
“Pericoloso. Stupido.
Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”
Sherlock passò la mano
tra i riccioli neri, come per cercare di dipanare la massa dei suoi
tumultuosi
timori. Il fratello sembrò comprendere il suo disagio e lo guardò con
occhi
pieni di comprensione, nonostante le sue stesse paure.
“Nei sogni entriamo
in un mondo che è interamente nostro.”, tentò di confortarlo
“E tu ne sei
il più esposto. Che ci sia una qualche connessione con l'uomo dei
sogni?”
“Nessuna, che io sappia.
Non so chi sia, non fa richieste, chiede solo aiuto. Ed io sento il
bisogno di
salvarlo, un bisogno impellente e a cui non posso sottrarmi.”
Mycroft gli diede
un'ultima occhiata prima di voltarsi.
“Devi scoprire chi sia e
cosa voglia, Sherlock.”, lo redarguì “Non ne vale solo della tua sanità
mentale, ma della salvezza del nostro intero villaggio.”
Detto ciò, uscì dal
salone, lasciando Sherlock da solo.
Come se non fosse già
quello il mio obiettivo. Come se non stessi già pensando come fare.
Era giunto ormai il
momento di tentare qualcosa mai tentato da atri Swefnesfaran: prendere
forma –
e voce – completa e parlare con l'uomo. Era estremamente pericoloso, ma
aveva
bisogno di risposte. Risposte che solo il biondo era in grado di dargli.
N.d.A.
Unswefn: parola in inglese
antico che significa, alla larga, “incubo”.
“So
two nights
passed: the night's dismay…Distemper's worst calamity.”: i primi quattro versi
della terza e
ultima strofa del componimento “The Pains Of Sleep” (“I Dolori Del
Sonno”) di
Samuel Taylor Coleridge. Barbaramente tradotti come: “E così
due notti passarono:
lo sgomento della notte/intristì e sconvolse il giorno successivo./Il
sonno,
quella grande benedizione, mi sembrò/la peggior calamità del cimurro.”
“Deep
into that
darkness peering…dared to dream before.”: i primi due versi della
quinta strofa della poesia
“The Raven” (“Il Corvo”) di Edgar Allan Poe. Barbaramente tradotti con:
“Scrutando
nel profondo di quell’oscurità, stetti fermo a lungo, domandandomi,
temendo,/dubitando, sognando sogni che nessun mortale aveva osato
sognare
prima.”
Resina
di nocciolo,
legno d'ontano e foglie d'alloro essiccate.: le prime due piante citate
(il nocciolo e
l’ontano) sono piante considerate sacre nella tradizione celtica e
significative anche nelle culture pagane anglo-sassoni che
conquistarono
l’isola a partire dal V secolo d.C. L’ontano, infatti, è un albero
associato
all’acqua e, insieme ad essa, aiuta il corpo e lo spirito ad eliminare
le
energie negative; inoltre questo rapporto ontano-acqua è considerato
fondamentale per mettere in comunicazione questo mondo con l’aldilà e i
guerrieri costruivano spesso scudi con questo legno. Il nocciolo,
invece, è
considerato l’albero della conoscenza, delle scienze e delle arti: i
druidi,
infatti, per invocare i loro incantesimi utilizzavano bastoni di
nocciolo e gli
dei avevano una grande considerazione per questa pianta. Per queste ragioni ho
deciso di utilizzare specificamente queste due
piante da bruciare nel braciere. Invece, per l’alloro la storia è un
po’
diversa. L’alloro essiccato, infatti, veniva utilizzato dalla Pizia (la
sacerdotessa/profetessa dell’Oracolo di Apollo a Delfi) che ne
inspirava i fumi
per ottenere le visioni sul futuro. L’alloro è, tuttavia, una pianta
tipicamente mediterranea e difficilmente rintracciabile in Gran
Bretagna in
quel periodo. Nonostante ciò, mi sono concessa una licenza “poetica” e
ho finto
che Sherlock, dall’alto della sua intelligenza, abbia studiato anche le
tradizioni di altre civiltà come, del resto, probabilmente aveva fatto
anche
Moran.
Birra con un
infusione di foglie d'edera triturate: a quanto pare, dalle mie
ricerche, i druidi celtici
(e anche altre popolazioni germaniche) si servivano di questo intruglio
per
creare allucinazioni che permettessero loro di fare previsioni sul
futuro.
L’edera, essendo una pianta velenosa, veniva usata in combinazione con
la birra
ottenendo quasi una specie di droga.
Walda: in inglese antico
significa
“Signore”. Era uno dei titoli con cui poteva essere designato il capo
di un
villaggio anglosassone.
Swefnesdræfend:
parola
composta da due termini in
inglese antico “Swefn” (al caso genitivo “Swefnes”), sogno, e
“Dræfend”,
cacciatore. Il termine significa tendenzialmente “Cacciatore di Sogni”.
Swefnesweriend: sempre dall’inglese antico.
“Weriend” significa
“Difensore”. Da cui ne deriva che Sherlock è un “Difensore di Sogni”.
“Nei
sogni
entriamo in un mondo che è interamente nostro.”: citazione casuale (dico
“casuale”
perché mi è assolutamente venuta in mente per caso) da “Harry Potter e
il
Prigioniero di Azkaban”.
Swefnesfaran: ancora
inglese antico. “Faran” è il
nominativo plurale della parola “Fara” che significa “Viaggiatore”.
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