Ai giudici e alle altre podiste e partecipanti al concorso.
Grazie.
Le citazioni in corsivo sono © di Oscar Wilde, tratte da: Il
ritratto di Dorian Gray.
Sabaku
[Move
to wind]
Temari era sempre vissuta nel deserto che
circondava il villaggio di Suna.
Era abituata alla
sabbia che il vento accavallava in morbide dune; ai riflessi del sole su di
essa; al mutare costante e continuo del paesaggio.
Da piccola aveva
avuto paura del deserto. Crescendo, aveva imparato a rispettarlo.
Ma mai – mai – avrebbe pensato che potesse essere
bello.
Gli occhi verdi, allenati a scorgere anche il minimo
movimento nel deserto, individuarono subito il gruppo di ninja che procedeva
rapido verso le porte di Suna.
Sorrise soddisfatta nel notare la divisa nera a disegni
rossi del prigioniero che portavano con loro. Il fatto che avessero catturato
uno di quei bastardi – se poi fosse stato proprio quello – avrebbe, se non altro, contribuito a migliorare il suo
altalenante umore che da giorni si manteneva molto spesso al livello terra.
Saltò giù dal muro di cinta che proteggeva il villaggio (più
dalle intemperie del clima ostile che da eventuali invasori; per loro bastava
il deserto), correndo verso la pesante porta d’ingresso.
Ordinò ai ninja guardiani di aprire al drappello che stava
arrivando.
Ansiosa, attese il fratello – finalmente di ritorno – sulla
soglia.
Si trattenne dal corrergli incontro. Era pur sempre una
kunoichi, nonché sorella maggiore del giovane ninja che, adesso, tornava
vittorioso dalla missione che il consiglio gli aveva affidato.
Inoltre, Temari non era mai stata molto bendisposta a
dimostrare il proprio affetto in pubblico. Era considerata una donna forte;
severa e intransigente.
Fino a qualche tempo prima non aveva avuto problemi a
mantenere inalterata l’immagine da “dura” che occupava nell’immaginario
collettivo. Tuttavia, dal giorno in cui l’akatsuki aveva attaccato Suna, era
sempre più difficile per lei controllare la propria rabbia e il proprio dolore.
Alla morte della madre, aveva giurato di difendere i fratelli;
di proteggerli da ogni male; di prendersi cura di loro.
La morte di Gaara e le ferite di Kankuro erano la
dimostrazione lampante del suo fallimento. Come kunoichi – perché non era
presente a difendere il villaggio -; come madre e, soprattutto come sorella.
Adesso, Kankuro era vivo. Non grazie a lei, bensì a Sakura
Haruno, quella kunoichi di Konoha cui, quando si erano conosciute, non aveva
prestato la minima attenzione.
Per Gaara, invece, non c’era stato nulla da fare.
Il team di ninja di Konoha era riuscito solo a recuperare il
corpo che, dopo la cremazione, era stato disperso nella sabbia del deserto,
come quello degli altri kazekage e ninja che avevano dato la vita per salvare
il villaggio.
I giorni
successivi al decesso di Gaara, Temari non aveva avuto abbastanza tempo per
pensare al proprio dolore.
C’era Kankuro da consolare; il funerale andava preparato e
si doveva eleggere il nuovo kazekage.
Alla fine, la scelta del consiglio era caduta su di lei. La
faccenda, non l’aveva entusiasmata, ma aveva raccolto l’eredità del fratello
minore, giurando a se stessa che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere
per vendicarne la morte.
Aveva organizzato una squadra di ottimi ninja, disposti ad
affrontare l’akatsuki.
Tutti volontari; tutti desiderosi di vendicare il precedente
kazekage.
Si era quasi commossa nel vedere il numero di persone di cui
Gaara era riuscito a conquistare l’affetto e il rispetto. Quasi, perché non si
era ancora permessa di piangere. Non finché il bastardo che aveva ucciso il suo
fratellino era ancora in circolazione
Ma finalmente lo avevano preso. Tra qualche giorno sarebbe
tutto finito. Tutto.
«È lui?»
Domandò a Kankuro, dopo un breve scambio di sguardi.
Questi annuì; Temari ne studiò il sorriso triste e la luce
rabbiosa che ne illuminava gli occhi.
La morte di quell’uomo non avrebbe placato il dolore della
perdita; la vendetta non avrebbe dato soddisfazione a nessuno di loro; non
avrebbe fatto tornare Gaara.
Però avrebbe arrecato sollievo, questo sì. Avrebbe placato
la rabbia; avrebbe permesso alle lacrime di scorrere.
Sì.
Finalmente, avrebbe potuto piangere.
Il contrasto delle
opinioni suscitate da un’opera d’arte indica che l’opera è nuova, complessa,
vitale.
Temari entrò nella cella di massima sicurezza.
Il processo si era svolto senza la presenza dell’imputato.
Non ce ne era bisogno, in fondo. Si era trattato solo di una mera formalità,
come sempre quando si giudica un mukenin di livello S, il cui bando di cattura
è: vivo o morto.
Immobile, al centro della stanza, stava il prigioniero.
Circondato da fili di chakra che gli impedivano di muoversi;
spogliato della palandrana a nuvolette che segnava la sua appartenenza
all’Akatsuki; i lunghi capelli biondi sciolti. In disordine. Perfino sporchi.
«Ehi, tu!»
Chiamò Temari, fissando la patetica figura di fronte a sé.
Il prigioniero alzò appena il capo, dirottando l’attenzione dell’occhio destro
sulla kazekage.
Il sinistro era coperto da un ciuffo di capelli che ne
impediva la visuale, ma quell’occhio di un ceruleo chiaro – quasi color
ghiaccio – rideva di lei.
«Quale onore – esordì, accennando col capo ad un formale
inchino. – la kazekage in persona che viene a farmi visita. Non pensavo di
essere così importante.»
Temari lo ignorò, limitandosi ad emettere un ringhio basso e
contenuto.
Studiò attentamente il prigioniero. La tentazione di
colpirlo su quel volto graffiato; cancellare il sorriso sarcastico dal suo
volto… Kami, quando era forte.
Ma si trattenne. Cancellò il proprio turbamento e alzò il
capo per affrontarlo.
«Lo hai ucciso tu.»
Era un’affermazione, non una domanda.
«Il piccoletto coi capelli rossi, intendi? – tentò di alzare
il braccio. Si morse il labbro inferiore, al sentire il filo di chakra
graffiargli il polso. Rinunciò. – No. Non l’ho ucciso io.»
«Bugiardo!»
Deidara sorrise ancora, sardonico. Osservò la rabbia che la
kazekage tentava di contenere trasudare da ogni poro della sua pelle. I muscoli
del viso si contraevano leggermente, nel tentativo di restare impassibile;
imperturbata.
«Oh no. Io mi sono limitato a catturarlo e ad aiutare a
svuotarlo.»
Stavolta, lo schiaffo partì.
L’impronta rossastra di cinque dita rimase impressa sulla
gota del mukenin.
Lievemente spaesato, Deidara ci mise qualche secondo a
riacquistare la propria espressione beffarda.
«Cosa cambia se sono stato io ad ucciderlo o meno? – altro
sorriso. Temari sentì il proprio odio aumentare. – Niente. Tanto ormai è morto.
Passato. E, bisogna dirlo, la sua fine non è stata per niente artistica.»
«Di sicuro avere tra le mani il suo assassino, mi darebbe
una certa soddisfazione.»
Ringhiò la kunoichi. Deidara fece spallucce.
«Torna domani, kazekage. Forse, avrai qualche informazione
in più sulla morte del rossino. Per oggi, non parlerò più.»
Rivelare l’arte
senza rivelare l’artista è il fine dell’arte.
Temari tornò il giorno successivo.
Nulla era cambiato nella cella. Sempre le solite pareti
spioventi senza neanche una fenditura; sempre la luce azzurrina del chakra dei
fili che bloccavano Deidara ad illuminare il buio della camera; sempre il sorriso
sarcastico sul volto del prigioniero.
«Allora?»
«Buongiorno, kazekage. – Deidara fissava il soffitto,
sorridendo. – Anche tu da queste parti?»
«Mio fratello. Avevi detto…»
C’era una nota ansiosa nella sua voce. Supplicante.
Deidara si leccò le labbra, soddisfatto.
La kunoichi parve avvertire il godimento dell’uomo nel
vederla così spaesata. Lo maledì. E maledì se stessa per la propria
trasparenza.
Si stava facendo prendere dalla fretta. L’ansia di sapere come era morto Gaara e chi lo avesse ucciso, la stava spingendo
ad agire senza riflettere.
No, decisamente non poteva farsi prendere dal panico. Doveva
trattare. Doveva riuscire a far parlare quel maledetto, fargli sputare il sacco
sulla morte di Gaara e su dove poteva trovare gli altri assassini.
«Che cos’è per te l’arte?»
Temari sgranò gli occhi, spaesata dalla domanda.
Si sarebbe aspettata un racconto – magari anche un po’ sui
toni del patetico e del vittimista – sullo scontro con Gaara; o una dettagliata
e truculenta descrizione del modo brutale in cui era stato ucciso (brutale? E
poi perché, visto che sul corpo non erano presenti segni di violenza?)… ma non
una dissertazione sull’arte!
Forse, fu proprio per la sorpresa provata che,
istintivamente, rispose.
«Non ne ho idea.»
Effettivamente, non ci aveva mai riflettuto.
Era un tipo pratico, diretto; le astrazioni non la
interessavano, a meno che non fossero strettamente collegabili al
combattimento.
L’arte, pertanto, la reputava inutile ed obsoleta. Certo,
poteva essere piacevole interessarsene, se eri un civile, ma un ninja non deve
avere tempo per certe frivolezze.
«Male. Torna quando avrai una risposta.»
E non parlò più, per quel giorno.
Coloro che
scorgono cattive intenzioni nelle belle cose sono corrotti senza essere
interessanti. Questo è un difetto.
«L’arte non esiste.»
Asserì Temari, entrando nella cella con cipiglio severo.
Aveva trascorso giorni a trastullarsi sulle mura di cinta di
Suna, cercando invano una risposta a quell’assurda domanda; maledicendosi,
insultandosi e arrovellandosi le meningi per trovare una soluzione che fosse
una.
Alla fine, dopo circa una settimana, la sua mente razionale
aveva deciso: se non si può definire qualcosa, vuol dire che l’oggetto preso in
esame non esiste.
«Che risposta priva di gusto.»
Commentò Deidara, con una smorfia.
«È una risposta. Fattela bastare.»
Temari incrociò le braccia; gli occhi verdi scrutarono,
severi, il proprio interlocutore.
«Non discuto con chi pecca così tanto di sensibilità
artistica.»
A quel commento altezzoso, la kazekage non ci vide più.
Lo colpì con un pugno sul volto. E ancora allo stomaco. E
ancora. Ancora, fino a sfogare tutta la rabbia accumulata.
Dopo, lo colpì di nuovo.
Perché non era giusto che quell’uomo fosse vivo e Gaara no.
Non era giusto che si rifiutasse di parlarle delle ultime ore di suo fratello.
Non era giusto che…
«…è per te stessa che mi stai colpendo, kazekage.»
Altro pugno. Altro calcio. Altro…
«Hai paura di ammettere il tuo fallimento. Non lo hai saputo
proteggere. Non sei stata tu a catturarmi. Non comprendi le motivazioni della
sua morte, sebbene tu sappia che per un ninja la fine arriva prima che per gli
altri. Semplicemente, non sei in grado di
comprendere.»
«Stai zitto! Stai zitto! Stai…»
Singhiozzò ad ogni nuovo colpo. Le lacrime scendevano ormai
libere sul volto di Temari, rigandone le gote piene. Deidara sorrise.
«Ora! Ora sei artistica, kazekage. Ora!»
L’artista è il creatore di cose
belle.
Rivelare l’arte
senza rivelare l’artista è il fine dell’arte.
L’artista non ha
preferenze etiche. Una preferenza di tal genere costituirebbe per un artista un
manierismo stilistico imperdonabile.
L’artista non è
mai morboso. L’artista può esprimere tutto.
Il vizio e la
virtù sono per l’artista materia d’arte.
Ogni arte è nel
tempo stesso realistica e simbolica.
Chi varca i limiti
di tale apparenza lo fa a proprio rischio e pericolo.
L’arte in verità
non rispecchia la vita, ma lo spettatore.
I criminali a Suna venivano seppelliti nella sabbia dopo
avergli sigillato il chakra, in modo che non potessero liberarsi.
A quel punto, spettava al deserto decidere il tempo e il
genere di morte.
Poteva morire per soffocamento durante una tempesta; di
caldo; di fame; di sete… potevano arrivare prima gli avvoltoi a beccargli il
cranio fino ad ucciderlo…
Non era quello l’importante. Ciò che contava veramente era
la fede degli abitanti di Suna nelle capacità mortali del deserto.
Temari attese, finché il corpo di Deidara non fu
completamente sepolto e solo il capo spuntò dalla sabbia rovente.
Godette della propria altezza; nel guardarlo dall’alto in
basso. La faceva sentire grande, potente.
«Non è molto artistica come morte.»
Commentò il mukenin, alzando lo sguardo sulla kazekage.
«La morte non deve essere artistica. Comunque, se
preferisci, posso prendere a calci il tuo brutto muso finché non arriva. Giusto
per renderla più interessante.»
«“La morte non deve
essere artistica”… - Deidara le fece il verso – La morte è sempre artistica. Perfino questa. È nel
momento della morte che assapori di più la vita. Come un’esplosione.»
«Non ne vedo la bellezza. Morire nel deserto… non c’è niente
di più orribile e incostante di questo.»
Il mukenin sorrise. Temari non lo vide, impegnata a scrutare
con aria preoccupata il vento che soffiava tra le dune.
Già. Il deserto non le era mai piaciuto. Lo rispettava; lo
ammirava… ma non lo amava.
«È artistico. Tutto ciò che muta lo è. Cosa c’è di bello in
qualcosa che rimane sempre uguale a se stesso? Nulla. – Deidara appariva come
infervorato da quella discussione. Una strana luce brillava nel suo unico
occhio ceruleo. – Forse è per questo che la vita è speciale: tutto cambia. Io,
tu… chiunque. Ogni essere vivente è come una sublime opera d’arte che raggiunge
l’apice della bellezza nel momento della morte. E lo sai qual è la cosa meravigliosa,
in tutto questo, kazekage?»
«No.»
«Che continuiamo a cambiare anche dopo l’esplosione. Quindi,
ora, cos’è l’arte?»
Temari si decise ad abbassare nuovamente lo sguardo. Studiò
il capo biondo che emergeva dalla sabbia rossiccia; l’occhio di ghiaccio che la
fissava.
Deglutì.
«Muori e basta.»
Sentenziò, voltando i tacchi e rientrando all’interno di
Suna.
Tutta l’arte è
completamente inutile.
Temari era sempre vissuta nel deserto che
circondava il villaggio di Suna.
Era abituata alla
sabbia che il vento accavallava in morbide dune; ai riflessi del sole su di
essa; al mutare costante e continuo del paesaggio.
Da piccola aveva
avuto paura del deserto. Crescendo, aveva imparato a rispettarlo.
Ma mai – mai – avrebbe pensato che potesse essere
bello.
Ora sì.
Note dell’autrice
Questa cosa a me continua a non
piacere, anche se sono stata lusingata dalle votazioni.
Diciamo che l’ho scritta perché – dopo due fanfiction che
non volevano saperne di starsene buone nel raiting arancione del concorso –
arrivata al giorno della consegna, era l’unica cosa che mi veniva in mente.
Così l’ho scritta. È un’idea che avevo in cantiere da due
anni: doveva essere più lunga; più ricca; i personaggi – a mio parere –
meritavano una maggiore accuratezza e tanti altri piccoli dettagli che non sono
riuscita a curare.
Però è piaciuta. E questo, stavolta, non riesco a
spiegarmelo davvero. Di solito non pubblico una storia che, secondo i miei
criteri di giudizio, non è valida. Questa, purtroppo, è tra quelle che non
considero tali.
Non rientra tra le mie preferite, neanche dopo una bella
rilettura. È scritta in fretta; non dà l’impatto che volevo, né tratta in modo
appropriato di ciò che volevo trasmettere.
Odio i personaggi stereotipati e mi sono usciti in questo
modo. Odio le storie inconcludenti (a meno che non siano davvero nosense) e questa lo è.
Insomma, non mi soddisfa. Penso che si riscatti un poco sul
finale. E basta.
Però, come tutte le storie, ha delle persone cui deve essere
dedicata:
Ainsel: perché
alla fine la storia di cui non sono soddisfatta è arrivata anche per me,
esattamente come mi avevi predetto ridendo e scherzando.
Suzako: perché
questa storia è stata concepita discutendo di crack pairing e sei stata tu a
mettermi casualmente in testa l’idea per una TemariDeidara.
Kei_saiyu: perché
senza la sua infinita pazienza (e il suo pc), non avrei mai avuto il tempo per
scrivere. Grazie per avermi sopportato un’intera domenica mentre ti ignoravo
per partorire questo lavoro.
Rei: suppongo
perché ho il sospetto che vedermi dar ragione a Deidara possa darti fastidio
XD! Motivo per cui la dedico anche a te!
That’s all.