Capitolo
2
Prologo
Il
corpo precipitò verso il richiamo delle acque, il calore di
quelle braccia estranee che mi stringevano, il vento, un tonfo, il
ticchettio del pendolo che scoccò le sei del pomeriggio.
Un
gran mal di testa.
Aprii
gli occhi molto lentamente, sentendo la punta di un pugnale immaginario
spingere sempre più in profondità da tempia a
tempia, finché non riconobbi il frusciare famigliare dei
drappeggi damascati attorno al letto e, poco più in
là, lo scroscio di una pioggerella sottile bagnare il
davanzale della finestra.
Rimasi
a fissare i vetri lucidi per qualche istante, poi distolsi lo sguardo e
richiusi gli occhi in un sospiro dolorante.
Ero
di nuovo a casa…?
O
forse, non ero mai partita? Che fosse stata un’allucinazione?
Così reale?
Scostai
via le lenzuola, scivolando sul pavimento accompagnata
dall’ondeggiare del pigiama in lino beige, dunque mi diressi
indolenzita verso la finestra e riagganciai l’uncinetto di
ferro al suo posto.
Una
volta messo a riparo il pavimento dalla pioggia, piroettai sui talloni
e m’incamminai verso il corridoio del piano, passando
velocemente davanti allo specchio.
Non
ricordavo di aver messo la mia camicia da notte di velluto color
lavanda, né d’esser andata a letto alle sei del
pomeriggio.
Uscii
nel pianerottolo tappezzato di quadri e porte, procedendo in punta di
piedi lungo il corridoio rosso, il volto rivolto verso le scalinate,
poggiai il piede sul primo gradino di marmo e il bisbiglio delle travi
cigolanti mi richiamò.
Analizzai
silenziosamente gli usci delle numerose camere vuote finché
una, in particolare, non accattivò la mia
curiosità. La riconobbi anche se ero lontana,
perché emanava un calore proprio, come se al suo interno
bruciasse costantemente un incendio fantasma. Deglutii, dunque girai i
piedi sul parquet e mi avvicinai alla porta, bloccandomi solo quando
fui a un palmo da essa.
Negli
ultimi tempi, stava diventando sempre più difficile
ignorarne il divampare rovente lungo le mura, fin dentro la mia stanza,
lusingandomi nel suo vortice con un richiamo antico, che sapeva di fumo
e nebbia nera tra i ricordi manomessi della mia infanzia.
Era
stato un incidente. Un inutile, maledettissimo incidente avvenuto
tredici Natali fa.
Ricordavo
che c’era tanta gente per casa, molti adulti e pochi bambini,
e che la sala era stata invaso dalle loro risate e i brindisi tra le
luci soffuse, un’enorme tovaglia rossa e le stelle natalizie
disposte sul camino scoppiettante.
A
giudicare dall’altezza dell’albero natalizio di
quell’anno, dovevo esser alta poco più di uno
scricciolo in abito rosso e rigonfio di pizzo bianco, con grandi occhi
profondi e un viso tondo della luna, già allora circondato
da un’aura stregante.
Buffo
a dirsi, all’epoca amavo che mi si facesse vestire come una
bella bambolina d’esposizione, fagocitata da tutti quei
fiocchetti legati tra i capelli fini e le calzamaglie candide, ma quel
giorno Erica aveva dato una particolare attenzione ai dettagli, per
presentarmi al meglio a quella massa d’individui nella sala
da pranzo di casa mia.
Non
ricordavo i loro volti oltre quelle interminabili colonne che erano le
loro gambe, tuttavia, c’era qualcosa nei loro sguardi che mi
faceva sentire preziosa, i loro occhi estranei che mi studiavano, le
bocche che bisbigliavano all’orecchio del vicino, perfino
quei bambini composti che non avevo mai visto prima d’ora mi
guardavano con aria di rivalità.
Ed
io, con animo puro e incontaminato, che li giustificavo e ricordavo a
me stessa che non avrei sminuito il giorno del mio compleanno per
inutili invidie.
Mia
madre voleva che ogni cosa andasse per il verso giusto, quella sera, ed
era visibilmente in ansia, tuttavia, dissimulava i suoi pensieri con
sorrisi laccati di rosso ciliegia e movenze lente del bicchiere di
spumante tra le sue dita pallide, osservando tacitamente le persone in
quella stanza come fossero uno sciame di vespe velenose.
Erica
prese a parlare di fronte ai presenti con il bicchiere colmo di
spumante quando oramai mancava poco allo scoccare della mezzanotte e, a
quel punto, la sala si sarebbe riempita dello scoccare assordante del
grande pendolo. Mentre i pesi d’ottone spostarono le lancette
sull’ultimo rintocco, io mi ero già rifugiata nei
piani superiori, tra le ombre tremule riflesse dai lampadari di
cristallo nell’ingresso.
Ricordavo
della carta damascata color crema, molto simile a quella nella stanza
di mia madre.
Una
porta laccata di bianco nascosta tra la finestra e il mobile.
Poi,
brandelli di una luce insolita, un gran dolore alla testa ,il tepore
accogliente della festa nel salone di casa.
Nessuno
sapeva cosa fosse successo nella stanza quella notte, né io,
né anima razionale.
Forse
un’ombra minacciosa proveniente dall’esterno, o la
rielaborazione esagerata di un rumore sinistro emesso dalle travi di
casa, rimaneva, comunque, che qualcosa i miei occhi l’avevano
davvero vista, ed era stato così terribile da far collassare
la mente in se stessa.
Passò
quasi un mese prima di ricollegare l’incidente al debutto
della schizofrenia.
Mia
madre era sconvolta. Non poteva perdonarsi per ciò che mi
era successo, si riteneva responsabile in qualche modo e
finì col chiudersi nella solitudine della sua stanza,
perfino la mia situazione catatonica non riusciva a farle prendere una
posizione di fermezza.
Per
quasi due anni io e mia madre fummo incapaci di riprendere il controllo
sulla nostra vita.
E,
quando mi risvegliai dal mio sonno, mi resi conto troppo tardi che lei
aveva già deciso ogni cosa al posto mio.
Non
mi fu più concesso andare a trovarla nel letto durante i
temporali invernali, né entrare in camera sua per cercare il
rossetto color ciliegia che metteva sempre, quella porta divenne il
capolinea oltre cui il mio corpo non poteva spingersi,
perché respinto da un’aura indecifrabile.
A
pensarci bene, non sapevo come avessi deciso di non tornare
più là dentro. Mi sembrava illogico aver paura,
perché, se non lo prendi sul serio, non può farti
del male.
Allungai
la mano molto lentamente, con l’ombra di un inquietante
presentimento sul collo, e pressai le dita sulla superficie liscia,
sentendo subito una strana pressione risalire lungo il mio braccio.
Attesi
qualche attimo e non accadde nulla, anzi, mi sentii abbastanza sciocca
da volermi allontanare subito, prima d’esser vista da
qualcuno, ma, non appena richiamai il braccio a me, sentii che le dita
erano rimaste incollate.
C’era
qualcosa, sotto i polpastrelli.
Tesi
il collo per analizzare lo strano liquido rossastro più da
vicino e avvertii subito un pungente odore di ferro infilarsi nelle
narici.
Sangue.
Tirai
la mano indietro e la porta lasciò andare volentieri le mie
dita, indietreggiai di scatto e andai a sbattere violentemente contro
il muro, spostando il quadro sopra la mia testa di qualche centimetro.
Portai
le dita all’altezza delle pupille dilatate e il mio cuore si
zittì all’istante.
Non
c’era niente sui polpastrelli. Neanche la benché
minima traccia di sangue, neppure sulla porta.
Sentivo
che il corpo tremava ancora tutto quando vidi la porta della stanza
aprirsi sul corridoio, facendo emergere la testolina bionda di mia
madre, così indaffarata con le rotelle della sua valigia da
non accorgersi che la stavo fissando.
Notai
che aveva un abbigliamento insolitamente sciolto, una camicetta rossa
dallo scollo accennato e un pantalone a vita alta che esaltava la sua
figura esile e muscolosa.
Erica
sollevò lo sguardo per un istante, incrociò il
mio volto pallido e immediatamente le sue dita divennero come di
ghiaccio, facendo cadere la valigia sul tappeto del corridoio.
–
Mamma…– sussurrai – dove stai andando?
Un
leggero panico le riempì gli occhi, poi si chinò
per raccogliere l’impugnatura della valigia e, sorpassandomi
con una piroetta perfetta, disse – C’è
stato un contrattempo, amore mio. La mamma deve partire prima, ma stai
tranquilla, tornerò prima della fine di questa settimana.
–
Settimana? – ripetei, andandole subito dietro sulle scale
– Ma i tuoi viaggi di lavoro non durano mai una settimana. E,
soprattutto, non vai a un congresso conciata così.
Mamma. Che sta succedendo?
–
Torna in camera tua. – mi ammonì e
cominciò a trascinare la valigia verso il portico.
–
Neanche per idea, non senza una dannata spiegazione! Avanti, cosa
è successo, perché stai scappando? Mamma!
Sbatté
la valigia in prossimità della porta.
–
Niente, niente, non è successo niente, Laura! –
sbottò, colpendo col suo tono rabbioso con abbastanza
precisione da lasciarmi ammutolita per qualche istante.
Era
evidente che qualcosa non andava, glielo si leggeva suo volto, ora
contorto in una rabbia ingiustificata, e sulle mani, rosse e nervose
mentre scorticavano la fronte, ma ciò che non vedevo era
quanto fosse spaventata in quel momento.
–
Ascoltami, ti prego... ho bisogno della tua comprensione. –
sussurrò sotto i capelli. – Rimani qui con Agata.
Continua a fare tutto normalmente e non chiederti dove sono,
né cosa sto facendo, nulla.–
singhiozzò. – Buonanotte, Laura.
–
Ma…ma dove vai? Mamma!
Cercai
di afferrarla per la manica prima che superasse la soglia di casa, ma
non fui abbastanza svelta e mi ritrovai con un pugno d’aria.
La
vidi salire su un fuoristrada verde muschio appostato lungo il
sentiero, parecchio distante da casa, quindi ebbi tutto il tempo di
vederla trascinarsi con la valigia, aprire la portiera e saltare sul
veicolo un attimo prima che il suo conducente sgommasse verso il bosco.
Da
quando mio padre l’aveva abbandonata, Erica non dava
più l’addio a nessuno, invece, augurava la
buonanotte, perché la notte, diceva, non può
durare per sempre.
Per
la prima volta, vidi davanti a me la notte più lunga di
sempre.
*
* *
Erano
passati cinque giorni da quando avevo lasciato che mia madre salisse su
quel fuoristrada parcheggiato lì da chissà quanto
tempo, l’avevo vista sparire su di esso mentre ero ancora
affacciata sulla soglia di casa e, la cosa peggiore, fu che non potevo
far nulla.
Mi
sentii tagliata fuori dalla sua vita, dalla nostra, e questo mi fece
sentire più sola che mai.
Quella
stessa sera, Agata arrivò a casa con il suo valigione,
sempre pronto per ogni partenza improvvisa della padrona di casa, e mi
trovò nel pieno dei miei esperimenti culinari, spesso tacita
valvola di sfogo per pensieri tarlanti che non avevano il coraggio di
esprimersi apertamente.
Durante
la nostra breve cena io non dissi molto e la suora, dal canto suo, non
tentò d’indagare sul mio umore neanche una volta;
più semplicemente, si limitò a sparecchiare e a
rifilarmi la compressa prima di andare a dormire.
–
E non osare mai più saltare l’assunzione,
signorina. Sai, preferirei non trovarti di nuovo svenuta
nell’ufficio, quando, invece, dovresti esser sulla lettura di
Hegel. Laura, sul serio. Non provarci mai più.
Anche
quel giorno, annuii meccanicamente, in una nauseata accondiscendenza
che aveva portato stanchezza, non quella tipica della lotta,
bensì era più simile ai dolori del prostrarsi ai
voleri di qualcun altro.
Fissavo
il rifratto della luce su quella piccola sferetta bianca, e pensavo,
sempre più stanca, sempre più avvilita, sempre
più incapace di capire quando fosse iniziato.
Quand’è
che avevo deciso di non lottare più?
Ma,
soprattutto, quand’è che mia madre aveva
cominciato ad avere dei segreti con me?
–
Dovresti impegnarti in letture meno frivole. Se non sbaglio, ti avevo
assegnato un passo dell’Antigone, perché leggi le
follie di quel romanzetto per bambini?
Sollevai
gli occhi dal libro azzurro poggiato sulle mie gambe, sapientemente
avvolte dal gonnellone nero, e sorrisi al profilo austero del suo naso
infilato in uno dei suoi saggi tascabili, quelli che sfilava dalla sua
veste ogni qualvolta avesse un po’ di tempo a disposizione.
–
Cos’hai contro Alice? – chiesi, fermando un segno
con il pollice.
La
donna scrollò le spalle con diffidenza. – Quale
ragazza seguirebbe un coniglio col panciotto dentro una tana un
po’ ambigua?
Sollevai
le spalle attraverso la blusa bianca.– Io lo farei. Giusto
per dare un’occhiata.
–
Laura, sul serio. È ridicolo.
Risi
a denti scoperti, poi tornai nella narrazione con una scrollata di
spalle. – Sarà, però,
chissà, la sorella maggiore di Alice mi ricorda una certa
suora…
Lei
esitò per un po’ sul mio volto con espressione
lievemente spazientita, dopo di che fece scivolare gli occhi in un
sospiro pensieroso, lasciando che facessi come mi pareva
Quel
pomeriggio, Agata aveva preparato un angolo lettura nel giardino sul
retro, sistemando un telo a scacchi rosso sul praticello fresco e
dispiegando un’enorme quantità di the, biscotti e
libri tutti sparsi attorno a noi come un tappeto di foglie gialle.
Molto
simile a un paradiso terrestre, il vivaio era stato edificato come un
parco monumentale di siepi ad arco e lunghi corridoi tappezzati di
fiori di ogni specie, dalle selvatiche rose canine alla soffice lavanda
nelle aiuole.
Star
lì mi faceva bene in quel momento, perché zittiva
il pullulare costante di quegli strani pensieri che si erano
impossessati della mia testa, sostituendoli, invece, con le vibrazioni
potenti della siepe, dell’erba, delle montagne, dei libri
distesi a pancia all’aria sul prato attorno a noi.
Almeno
in quegli attimi, sentivo il mio corpo fondersi con il cuore del
giardino e, con esso, anche la sofferenza si acquietava per un
po’. Era da un po’ che avevo smesso di prendere i
farmaci, e la cosa cominciava a pesarmi un po’.
Ultimamente,
mi sentivo malata. Davvero, malata.
–
Vado a prendere altri biscotti. – annunciò
d’un tratto la suora, alzandosi agilmente da terra mentre mi
chiedeva –Tu vuoi qualcosa in particolare, Laura? Cioccolata,
caffè…?
Scossi
la testa senza staccare gli occhi dalla lettura, quindi, sentendosi
ignorata, Agata si allontanò a passo mogio fino alla veranda
dell’ufficio, ove sparì per qualche minuto.
Alzai
la testa un po’ di sottecchi, cercando con lo sguardo la sua
figura grigia in qualche vetrata, poi sospirai e piegai la fronte sulla
carta profumata del libro, dove rimasi finché lo ritenni
opportuno.
Quel
ronzio, non voleva proprio cessare.
Sollevai
la testa con uno scatto deciso, dunque mi sporsi su un fianco e
cominciai a cercare tra la pila di libri accatastati a destra, nella
speranza di distrare la mia mente abbastanza da non sentirlo
più.
Rovistai
superficialmente le copertine lucide e così ben curate, che
finirono inevitabilmente col far risaltare un vecchio tomo verde tutto
consumato, che pareva quasi ammiccare sotto la catasta.
Ubbidendo
subito al suo richiamo, m’inginocchia sull’erba e
scartavetrai la superficie di volumi fino ad arrivare a vedere
“Il Milione” di Marco Polo, il primo compagno
d’avventure che ebbe mai il dono di trasportarmi dalla mia
stanza in luoghi lontani.
Avevo
letto, anzi, divorato quelle pagine, nella speranza di diventare io
stessa la carta tinta di mappe, terre e volti umani che avevano
decorato i diari dell’avventuriero veneziano, ma alla fine
dovevo sempre tornare nelle mie pallide membra umane.
Fu
una fortuna ritrovare lì quel libro, visto che Agata lo
aveva sottratto dalla mia libreria personale da diversi anni, e lo
presi come un segno del destino.
Iniziai
a sfogliare il bordo delle pagine con cautela, sentendo le immagini
riesplodere dietro i miei occhi riga dopo riga, le voci delle antiche
metropoli riprender vita e i possenti castelli riedificarsi nella mia
testa, ma la loro rinascita venne rasa al suolo da un piccolo,
seghettato dettaglio.
Una
pagina era stata brutalmente strappata dall’insieme,
lasciando orfano di un intero capitolo un piccolo appunto di poche
righe, probabilmente il finale di qualcosa di ben più
complesso e interessante.
Rimasi
per un momento a carezzare il taglio frastagliato a destra della pagina
così crudelmente amputata, immaginando chi mai avrebbe
potuto compiere un tale atto. La risposta mi colpì come un
fulmine violaceo dal cielo.
Agata
odiava quel libro, ma non avevo mai capito perché. Possibile
che fosse stata lei? E perché mai, d’altronde?
Bisognosa
di risposte, le cercai tra le righe sopravvissute. La descrizione
meravigliosa di un eden fiorito da qualche parte tra le montagne
siriane, lì dove si erigeva la rocca di un potente signore,
mago, teologo, mistico, che era riuscito ad affondare le radici di
un’antica setta nel lontano medioevo, era tutto
ciò che rimaneva su quel libro.
Nessun
nome, neanche un accenno sul luogo, ma solo un incerto interrogativo
che si espandeva attorno a quella mistica figura persa nel tempo:
“Il Veglio della Montagna”, lo chiamava Marco Polo.
Strinsi
le labbra in una smorfia insoddisfatta, muovendo il pollice sul bordo
per chiudere il libro prima del ritorno della suora dalla cucina,
quando qualcosa di viscido fece scivolare il polpastrello lungo la
pagina.
Notai
per la prima volta la presenza di un alone vischioso, lucido come
inchiostro rosso, maleodorante come una vecchia ferita lasciata a
cuocere sotto il sole. Chinai il naso sulla pagina, tirando un unico,
chiarificante respiro.
Il
petto tremò in un respiro mozzato, il mento si
alzò impettito ma gli occhi rimasero piegati in basso,
atterriti, increduli, curiosi.
Pigiai
l’unghia contro la macchia rossa, scorticandola molto
delicatamente.
In
quel preciso attimo, qualcosa di incredibilmente pesante
piombò sulla mia gonna e la bagnò di rosso vivo.
Non urlai, non mi chiesi nulla, solo lasciai che le braccia si
slanciassero a lanciare via il libro maledetto, che atterrò
qualche metro più in la sull’erba tinta di sangue
vivo.
Mi
portai una mano al cuore, sentii di dover guardare sulle mie gambe, ma
non ci riuscii.
–
Laura, va tutto bene?
La
voce di Agata riemerse come una macabra rielaborazione di un incubo e,
percependola come tale, non riuscii a strappare i miei occhi da
quell’incanto finché non sentii il ronzio nella
mia testa cessare definitamente.
La
suora era lì, davanti a me, con un vassoio di biscotti alla
vaniglia, e mi osservava con una velata preoccupazione.
Guardai
titubante qualche metro più in là, aspettandomi
di trovare un lago di sangue attorno al libro, ma le pagine avevano
smesso magicamente di sanguinare, anzi, non ve n’era la
benché minima traccia, né sulle mie gambe
né altrove.
Strinsi
le dita contro il tessuto della blusa, ma non riuscii a calmare il
respiro. Non me l’ero immaginato, le pagine
avevano… avevano preso a sanguinare.
Una
mano delicata carezzò la mia spalla, poi afferrò
anche l’altra, finché Agata non mi ebbe
intrappolato nel suo sguardo profondo e burrascoso, che premette sulla
mia pelle in un’espressione mortificante, di chi aveva
l’amaro in bocca per la frustrazione.
–
Che cosa stai combinando, piccola ingrata? –
sibilò a denti stretti – Cosa credi di dimostrare,
non prendendo più gli psicofarmaci, eh? Credi di essere
grande, così?
Sussultai
– N… no…
–
Pensi di essere così spavalda da poter gestire una cosa del
genere da sola?
–
Io…– deglutii con fermezza. – Senti da
che pulpito! Come osi farmi la predica quando tu stessa mi nascondi le
cose?
–
Di che stai parlando?
–
Mia madre, Agata! Mia madre è sparita da un momento
all’altro su un fuoristrada appostato fuori la magione, ed
è come se non fosse mai accaduto! È questo che ti
ha detto di fare? Di fingere che andasse tutto bene, che questo fosse
un altro dei suoi improvvisi impegni di lavoro?
–
Non dovresti fare queste domande, Laura. Lo sai bene.
–
Perché? – sbottai – Perché
no? Cosa c’è di così terribile da non
potermi dire?
–
Sei un’ingrata! – la sua voce scoppiò di
rabbia, ma la sua espressione era disperata, di chi aveva le spalle al
muro. – Ho votato la mia esistenza alla tua protezione,
ragazzina, per proteggerti, e tua madre… lei ha dovuto
affrontare scelte difficili, piene di sacrifici, perché non
sei abbastanza forte, e questo tuo comportamento ne è la
prova! Come possiamo proteggerti, se ti ribelli così?
–
Proteggermi da cosa? Dal mostro sotto il letto? Dalla
possibilità di rompermi il collo quando sono sul tetto? O
dal demonio che mi sta divorando il cervello, Agata! Da quello chi mi
salva? Voi? O quelle fottutissime caramelle al gusto di limone con cui
mi avete imbottito un’intera vita?
–
Basta così! Vai in camera tua, sei in punizione per il resto
della tua vita, mocciosa arrogante! – sputò e, con
quest’ultime parole, mi lasciò andare, puntando
risoluta l’indice destro verso casa.
Con
la gola ancora piena di rabbia e il cuore pesante, sgusciai via dal suo
sguardo arcigno, afferrai per un lembo il gonnellone nero e mi misi a
correre in direzione del suo braccio teso. Arrivai
all’entrata dell’ufficio rosso e per poco non
inciampai nei miei stessi piedi, allungai la mano verso la veranda.
Presi la maniglia con forza.
Un
colpo tremendo all’altezza delle gambe, poi comincia a
piegarmi sulle mie stesse ginocchia un istante troppo tardi per i miei
riflessi.
Le
braccia della suora arrivarono alle mie spalle come una folata di vento
improvviso, sorreggendomi forti mentre appendevo la testa in avanti,
spalancando la bocca in un singhiozzo spezzato a metà.
–
Laura! Laura, cos’hai?
Immobile
com’ero a mezz’aria, provai a spiegarle la dolorosa
sensazione di bruciore al centro della fronte, ma, non appena
focalizzai le parole, sentii di nuovo quel fastidioso ronzio
mordicchiarmi nei timpani.
Sentivo
che stavo per andarmene. Che da un momento all’altro il mio
corpo sarebbe schizzato fuori.
E
di questo se ne accorse con orrore anche Agata.
Con
uno strattone deciso, ella mi tirò su di peso e
allacciò prontamente il braccio attorno alla mia vita,
mentre, con l’altra mano, mi teneva il polso oltre le spalle.
Cominciò
a trascinarmi verso la veranda un saltello dopo l’altro,
tremando ogni volta che vedeva la mia testa penzolare in balia delle
vertebre distese, cercò di trascinarmi dentro
l’ufficio ma il peso legato alle mie caviglie divenne
talmente insostenibile da crocifiggerla sulla soglia, impotente e
frustrata.
A
stento riuscii a capire l’imprecazione che aveva lanciato
dalla bocca di una tale suora licenziosa, provando un leggero dolore
alle tempie quando, ridendo debolmente, abbandonai il capo contro la
sua clavicola destra.
–
Sai, adesso, me lo ricordo… – sussurrai.
La
donna mi guardò spazientita. – Cosa? Stai dando di
matto, ragazzina!
Feci
girare la testa contro la sua clavicola, socchiudendo gli occhi il
tempo necessario per vedere la sua espressione alla mia risposta.
–
Kadar. Aveva detto… di chiamarsi Kadar.
Poi,
il buio calò davanti ai miei occhi.
Finalmente,
il brusio era cessato.
*
* *
Percepii
qualcosa di caldo carezzarmi la guancia, poi, uno spiraglio si
aprì nel buio e lasciò che il calore stantio e
secco della camera trafiggesse il pulviscolo sulla finestra incrostata.
Le
gambe erano addormentate in posizione fetale e la faccia sprofondata
nel groviglio della mia chioma, le coperte bollivano del tempore
pastoso del sonno e non si udiva altro nell’aria se non il
mio dolce respiro.
A
riattivare i miei sensi fu la presenza di un profumo estraneo sul
cuscino, un misto di paglia e oli profumati, con un accento aspro,
chiaramente virile.
Faticai
a scollare le palpebre e ancor più a mettere a fuoco la
trama ruvida del guanciale su cui ero appoggiata, dunque, mi sollevai
pesantemente sui palmi e raccolsi la manica per strofinarla sugli occhi.
Mi
bloccai quando vidi steso sul mio braccio il tessuto sottile del lino,
ramificato lungo il mio corpo in una sottoveste pulita e perfettamente
aderente a ogni centimetro nudo del mio corpo, ad eccezione delle mani
e dei piedi, nudi e liberi.
Scesi
le gambe dal letto con molta circospezione, traballando un istante
prima di aggrapparmi al tavolo della toilettatura, smuovendo
l’acqua nella bacinella, per ritrovare una parvenza
d’equilibrio, ma non ero ancora soddisfatta, avevo bisogno di
alzare lo sguardo sulla stanza per capire che il mondo si era
letteralmente rovesciato sotto sopra.
Ero
evidentemente in un alloggio abitato, grigio e asettico nonostante gli
evidenti affetti personali del suo ospite, come un calamaio imbrattato
di nero sullo scrittoio, i vestiti che fuoriuscivano dalla bocca
socchiusa della cassapanca, un letto sfatto e imbottito di paglia.
Se
solo avessi avuto la prontezza nel reagire, probabilmente mi sarei
lasciata cadere di nuovo sul letto, ma non lo feci, ero paralizzata
sulle mie gambe.
Dove
mi trovavo?
Improvvisamente,
dalla finestra risalì il rumore di un corpo ferroso che
cozzava con qualcosa di sottile e veloce, in uno schema di colpi che
illuminò la mia mente come una lampadina.
Il
rumore di un combattimento.
Una
fitta alla tempia.
Un
mercato. Delle guardie, il fango, poi tanto bianco e sangue.
Un
risucchio, e la mia mentre rientrò nel corpo con un
sussulto.
Puntai
lo sguardo sulla finestra e non pensai molto prima d’imporre
ai miei piedi di scattare in quella direzione, spalancando le vetrate
impolverate con un colpo solo.
La
pressione del vuoto mi colpì sotto il naso senza alcun
preavviso, le orecchie vennero ferite dal grido di uno stormo di
uccelli in volto sopra la torre e gli occhi rimasero incantati dalla
maestosità di una catena montuosa, giganti a protezione
della vallata.
Fu
grazie alla traiettoria degli uccelli, che sorvolarono in volo i
profili delle antiche mura grigie, delle possenti file di bastioni,
delle torri e torrette di controllo, se trovai il coraggio di
percorrere tutta la magnificenza del castello in cui mi ero
risvegliata, ma ancora non ero in grado di dirmi sveglia o al centro di
un sogno medievale.
Di
nuovo, il rumore di spade che cozzavano risalì dal campo
diversi metri in basso e, inibita dalla vista, mi sporsi dalla torre
quasi dimenticandomi dell’altezza.
Oltre
la ramificazione di finestre e merlature, al centro di un modesto
recinto polveroso, alcune ombre pallide si addestravano con le spade,
gridando e grugnendo a ogni fendente che andava a segno o cascava nel
vuoto assoluto.
Notai
uno, in particolare, che gonfiava le sue spalle erculee e sfidava le
punte di ferro dei suoi avversari come un vero sbruffone.
All'improvviso,
qualcosa lacerò il buio nella mia testa, mandandomi indietro
sul bordo della torre, nell’aria statica e stantia
dell’alloggio.
Altaïr.
Mi
ricordavo di lui. Cosa voleva dire la sua presenza, lì? Che
mi avesse trascinato nel suo covo, tra la sua gente fantasma?
Mi
pulii gli angoli della bocca con un gesto della mano, adocchiai sul
pavimento un paio di sandali femminili accanto alla cassapanca e mi
precipitai a infilarli, portandomi davanti ai chiavistelli della porta
pesante con un fastidioso bisogno di risposte.
Mi
affacciai nell’androne del castello, scontrandomi subito con
l’odore dolciastro d’incenso e quello floreale
delle piante dentro i vasi, che facevano a gara con le grandi finestre
gotiche sull’altra sponda, arrivando con lo sguardo fino al
balcone affacciato sul giardino del castello.
Non
mi era ancora chiaro se fossi effettivamente in
un’allucinazione, ma per adesso non potevo far altro che
indagare con prudenza.
Sgattaiolai
lungo i muri, cercando di non far troppo rumore nonostante la
scomodità di quei dannati sandali, quando, giunta in
prossimità dell’arcata, udii gli schiamazzi di due
ragazzini provenire dalla gola del corridoio adiacente.
Feci
appena in tempo ad appiattire la schiena contro il muro che vidi i due
sparire sui gradoni di marmo delle scale, spingendosi e scherzando fino
a quando le loro voci riuscirono a rimanere a galla tra le viuzze della
rocca, dunque, tornò di nuovo la calma.
Se
quei due scapestrati erano così frettolosi, probabilmente
era perché volevano assistere a un po’ di sana
violenza, ragion per cui decisi di seguirli giù per le
scalinate, seguendo gli echi dei loro schiamazzi come un vecchio
marinaio col canto delle sirene.
Grazie
a loro, giunsi tra le librerie di un ufficio abbandonato con soli due
giri nell’ala ovest, dunque, lasciai che le mie guide ignare
mi precedessero verso la piazzola esterna, da dove proveniva un gran
baccano di voci e lame.
Arrivai
sotto il portale di pietra appena in tempo per assistere alla clamorosa
vittoria di Altaïr sui suoi due avversari.
Altaïr
aveva isolato ognuno di loro in un angolo del recinto, per affrontarli
singolarmente, e la cosa stava funzionando, perché, se il
più giovane col cappuccio grigio era paralizzato vicino alla
palizzata, quello più grosso era sfinito e boccheggiava col
sudore che grondava copiosamente giù per la mandibola.
Sapeva
che avrebbe perso entro tre colpi, per cui, l’omaccione
decise di provare un’ultima, disperata difensiva.
Tentò
di caricare un montante e Altaïr schivò il colpo
spostandosi agilmente a destra, il bestione grugnì rabbioso
e cercò di colpirlo il fianco, ma anche quella volta
riuscì a parare il colpo prendendolo solo
sull’avambraccio corazzato.
Una
volta assorbito l’impatto del pugno, senza perdere
l’equilibrio perfetto neanche un istante, Altaïr
cominciò a sommergere il suo avversario di colpi
all’altezza della testa, stordendo le orecchie di quello il
tempo sufficiente per lasciarlo inerme a un calcio sulla milza, che lo
mandò definitivamente a terra.
Dovevo
ammetter d’esser rimasta senza fiato per
quell’impressionante successione di agilità e
brutalità, ma capii ben presto che l’incontro non
era ancora giunto al termine. Difronte la sconfitta del più
vecchio, il ragazzo attaccò impavido Altaïr,
approfittando della guardia bassa per riprendere del fiato.
Per
un istante credetti che non sarebbe riuscito a schivare il colpo e,
invece, mi ritrovai di nuovo a sorprendermi quando lo vidi piroettare
indietro, ghermendo il braccio steso del rivale e storcendolo fino a
costringerlo con le ginocchia a terra.
Le
grida agghiaccianti del ragazzo arrivarono fin dentro il castello, ma
,un secondo dopo, vennero zittite del suo brutale avversario, che
piantò il gomito sulla sua terza vertebra con precisione
pressoché medica.
Il
giovane stramazzò sconfitto a terra, il combattimento si
concluse e i ragazzini accorsi lì per vedere inneggiarono il
vincitore con fischi e applausi.
Altaïr
si risollevò sullo sconfitto con un sorriso vittorioso e il
mento superbamente puntato in alto, si riempì della piccola
gloria di quel momento ma, allo stesso tempo, continuava a cercare con
lo sguardo il prossimo rivale, la prossima vittima da umiliare.
Era
come un animale addestrato per aizzarsi con il minimo pungolo al
fianco.
–
Cosa ci fai tu, qui, in questo stato, senza pudore! Avrebbe potuto
vederti qualcuno o, peggio, il Gran Maestro!
Qualcuno
arrivò correndo alle mie spalle, afferrandomi il polso
così rapidamente che rimasi completamente spaesata quando
incappai nel volto avvampato del giovane cenerino incontrato in
città, scioccato per qualche ragione.
Socchiusi
la bocca in un tremito viscerale, sentendo subito i miei sensori logici
vacillare sotto la presa di quella mano, così forte e calda,
ma non appena ricordai d’aver il polso bloccato esplosi in un
ringhio d’avvertimento.
–
Non toccarmi con quella mano, lurido omicida! – sbottai,
dando uno strattone forte, senza successo.
–
Dove pensi di andare in giro, con addosso solo l’intimo?
– replicò scioccato lui, arrossendo
così violentemente sotto il cappuccio da spingerlo a
distogliere lo sguardo e lasciare la presa.
Abbassai
lo sguardo con aria scettica. – L’intimo?
– ripetei, sbirciando sotto lo scollo della veste e
imbarazzandomi quando appresi d’esser totalmente nuda
lì sotto.
Lui
annuì nervosamente mentre controllava che nessuno
sopraggiungesse dalle scale, o fosse affacciato dai piani superiori.
– Sì, l’intimo! – insistette
– Cos’è, non l’hai mai
indossato una sottoveste, prima d’ora? Eppure,
l’abito che portavi a Damasco non sembrava così
differente!
–
Damasco? – sentii le braccia cadermi lungo i fianchi.
– Un attimo. Intendi… quella Damasco?Quella,
quella?
Lui
si voltò a guardarmi e piegò la testa di lato,
azzardando un’occhiatina innocente lungo tutta la mia figura
pallida, come quella di uno spettro notturno.
Osservandolo
adesso, mi resi conto che non era molto più alto di me, ma i
muscoli gonfi e la spada al fianco lo facevano sembrare decisamene
più minaccioso di ciò che era, forse anche troppo.
–
Non credo ci siano altre città in tutta la Terrasanta con
quel nome. – osservò ironico lui e stranamente la
sua postura si addolcì di poco – Suppongo che tu
sia confusa, adesso. Strano, credevo che sapessi almeno dove fossi
approdata.
Sollevai
gli occhi tra le rughe delle sopracciglia, chiedendo a fil di voce
– A… approdata? Ma come ci sono finita qui? Un
momento… sono… sono una prigioniera? Dove mi
trovo? È… è uno scherzo, vero? Suor
Agata vi ha assoldato per metter su questa buffonata, per farmi
spaventare?
La
sua bocca di dischiuse in un lieve imbarazzo. – Non ho idea
di chi sia questa suora, ma hai l’aria spaventata.
Tranquilla, qui nessuno ti farà del male, sei al sicuro.
Calmati.
Un
senso di spossatezza mi ghermì la bocca dello stomaco, presi
un intenso respiro, dunque tentai di far un po’ di ordine nel
pantano di domande che avevano ostruito i miei pensieri. Ci riuscii.
–
Cosa sei, tu? – chiesi.
Lui
aprì le braccia sui lati, dicendo – Ciò
che vedi. Un giovane uomo incappucciato con un insolito interesse per
la fanciulla in azzurro che guizzava via come una biscia nel disordine
di un’imboscata.
–
Imboscata? Parli di quei poveracci che avete massacrato come porci al
mercato?
Lui
fece una risata nasale. – Un fragile fiore come te non
dovrebbe intromettersi in argomenti così delicati.
Piuttosto, cosa sei tu? Sei una popolana? Una viaggiatrice? Una
pellegrina? – esitò. – Una puttana?
–
Come osi!
–
Perdonami. È che i tuoi abiti…sai, non dovresti
mostrare le ginocchia in quel modo. La prossima volta, potresti davvero
finire nelle gattabuie di qualche città.
Camuffai
la stizza con un broncio esemplare. – Adesso basta, ne ho
piene le tasche. Sputa il rospo, cappuccio grigio! Dove mi
trovo? Come ci sono finita qui, veramente? Chi diavolo siete,
voi?
Il
ragazzo rimase fastidiosamente impressionato dalla mia perseveranza.
– Ma guarda, sei un tipetto insistente, eh. Non ti hanno
insegnato da bambina a non molestare chi ha una spada? O forse, dove
sei stata cresciuta tu, ti hanno insegnato a usarla, la spada?
– il suo volto s’incupì –
Perché non mi dici da quale terra sperduta provieni?
Gettai
istintivamente un’occhiata in basso, sull’elsa che
sbucava al suo fianco, la sua bocca si tese in un’espressione
spazientita e fece per parlare, quando fummo interrotti dal richiamo
graffiante di una voce umana.
–
Ah, vedo che la nostra giovane ospite è sveglia. Eppure,
avevo dato precise disposizioni di non lasciarla girovagare sperduta
nel castello… soprattutto con addosso la sola sottoveste.
Sulla
cima delle scale, una presenza oscura aveva appena infestato
l’atrio, manifestandosi in lunghi abiti neri e con la barba
che scendeva candida dal cappuccio, dispiegandosi sul suo petto come un
centrino.
Immediatamente,
il giovane al mio fianco fu percorso da un timore inspiegabile e subito
si affrettò a colpirsi il petto con il pugno, rimanendo con
lo sguardo fermo e i piedi uniti per tutto il tempo in cui il vecchio
uomo scese le scale.
Procedeva
imperioso tra le rifiniture damascate dei suoi abiti, decisamente
più preziosi di quelli dei giovani nella fortezza, e,
sebbene il suo corpo fosse evidentemente provato
dall’età, c’era qualcosa nel suo petto
che ostentava un antico passato da guerriero. Si fermò al
centro dell’atrio, squadrandoci dall’alto in basso
con il suo occhio cieco solcato da una cicatrice violacea.
–
Mi è stato detto che parli fluidamente la nostra lingua,
quindi, non avrai problemi a capirmi se non indugio troppo sulle
parole. – cominciò disponibile.
Deglutii
la secchezza alla gola, quindi mi sforzai di sostenere lo sguardo
profondo delle sue pupille senza lasciare che il panico mi
sopraffacesse.
–
Lingua? – mormorai. – Perché, che lingua
parlate? In che lingua parlo… io?
Il
vecchio sollevò il sopracciglio con scetticismo, dunque
posò lo sguardo meditabondo sul ragazzo e quello
reagì con un irrigidimento involontario dei muscoli.
–
Al Mualim…
–
Credevo di averti detto di vegliare su di lei finché non si
fosse destata, ragazzo. È evidentemente disorientata.
Il
ragazzo arrossì. – Non potevo immaginare che
sarebbe uscita senza neanche coprirsi.
–
E questo perché sei stato incauto, Novizio! Ti sei fatto
abbindolare dal suo aspetto rassicurante, hai ignorato la mia
raccomandazione di tenerla d’occhio, esponendo, in tal modo,
le attività dei tuoi confratelli agli occhi curiosi di
questa donna!
–
Non era mia intenzione ficcanasare in giro, solo ero alla ricerca di
un’uscita. – mi affrettai a precisare, seccata.
L’occhio
grigio del vecchio si posò ferino sul mio capo, facendo
rabbrividire il ragazzo in grigio fino alle ossa. – Mentore,
la prego, lasci che la porti via senza punizioni…
La
mano rugosa del vecchio si alzò per ridurlo in silenzio e
quello ubbidì con un singulto sommesso.
–
Mi sono state riferite molte cose su di te, ragazza. –
cominciò, abbassando lentamente gli artigli ossuti lungo le
sue vesti scure. – Che hai attaccato i miei uomini senza
alcun riguardo della loro posizione. Che hai osato sottrare
l’arma a un uomo. Che, addirittura, li hai sopraffatti con
bassi metodi, evirandoli e ricoprendoli di curcuma, neanche fossero
mocciosi alle prime armi! Ebbene, mi chiedo, chi diavolo
sarà mai questa donna!
Sia
io che il ragazzo vibrammo al trono penetrante della sua voce e mi ci
volle un secondo prima di ritrovare il coraggio in fondo alla gola.
–
Io voglio solo tornare a casa. Lasciatemi tornare a casa, per favore.
– conclusi asciutta, negli occhi nessun accenno di paura, e
ciò sembrò solo accentuare l’amarezza
del vecchio.
Ora,
aveva il volto contorto in una grottesca maschera teatrale.
–
A questo punto, direi che la nostra conversazione è a un
punto morto. – borbottò – E, supponendo
che neanche tu abbia tempo da perdere, direi che è giunto il
momento degli addii.
Con
queste parole cupe, l’uomo colpì i suoi abiti per
fargli compiere una ruota perfetta e risalì
nell’ufficio sovrastante, ma, prima di pestare sotto gli
stivali l’ultimo gradino, tornò a guardarci da
sopra la spalla destra.
–
Ma, maestro… – obbiettò incerto il
ragazzo –… e il deserto?
–
Lo attraverserà, così come ha fatto per arrivare
qua.
–
Però potrebbe perdersi.
A
quel punto, l’uomo sbatté spazientito il palmo sul
parapetto massiccio delle scale e, con occhi fiammeggianti,
gridò – Ho accettato che tu portassi quella donna
in casa mia e, non solo, ho messo a disposizione per lei il mio medico
personale giorno e notte, in nome dell’alta considerazione
che ho di tuo fratello maggiore! Ma questo castello non è un
ospedale, né un luogo per donne, ed è arrivato il
tempo di rimettersi a lavoro! Così è deciso e
così si farà, senza discussioni!
Non
appena il soprabito nero di Al Mualim svanì al piano
superiore, l’eco del suo imperativo fu risucchiato dalle mura
e sia io che il ragazzo ci riscoprimmo ad aver trattenuto il respiro
per tutto il tempo.
*
* *
Le
cantine del castello erano davvero immense, lunghi corridoi avvolti
dalla penombra di qualche sporadica lanterna posta tra
un’arcata di pietra e l’altra, sotto cui distinsi i
profili illuminati di provviste di grano e botti piene del loro
contenuto, che, a giudicare dall’odore, non era solo acqua.
Il
cappuccio cenerino camminava spedito nel sottosuolo della montagna,
mischiando i suoi passi con una perdita da qualche parte in quel posto
tetro, ed io lo seguivo a una certa distanza di sicurezza badando,
però, a non rimanere mai troppo indietro.
La
luce aveva cominciato a diradare la nebbia, finalmente.
Ricordavo
il mio nome per intero, il volto di Agata e a voce gentile di mia
madre, il giardino fiorito dietro casa, il
“Milione” e il fiume di sangue sul prato vergine,
ma per il resto solo un’enorme voragine.
–
Non volevo che le cose andassero così.– disse
d’un tratto.
Alzai
lo sguardo con fare distratto. – Scusami?
Il
ragazzo davanti a me scrollò le spalle, spiegando
– Il maestro è solitamente un uomo paziente, ma
capisci bene che non è possibilità di un adepto
contraddire il suo volere, per quanto ingiusto sia.
Sospirai
appena. – Non importa. Ciò che desidero, adesso,
è tornare da mia madre.
Il
giovane sbirciò alle sue spalle con aria incuriosita.
– Dalla tua espressione, direi che non sei molto felice di
tornare a casa. Devo pensare che ci sia qualcosa lì, che ti
ha costretto a fuggire lontano. Allora, è così?
No, perdonami, non sono affari miei.
Sorpassammo
una catasta di sacchi abbandonati su del fieno e un ratto
guizzò veloce da un angolo all’altro prima che la
luce della fiaccola lo illuminasse col suo bagliore tremulo, squittendo
nel buio fino a quando non ci ebbe superato del tutto e la sua voce
divenne solo un cinguettio lontano.
Non
osavo neanche immaginare quanti topi ci fossero lì sotto.
–
Come… come ti chiami?– domandò
d’un tratto.
Alzai
gli occhi di sottecchi, soppesando attentamente la risposta da dare.
–
Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle. Ma puoi chiamarmi Laura, se ti va.
Si
voltò di scatto, la bocca dischiusa in un gemito sorpreso.
– Una… una discendente dei Chiaravalle? Qui?
Indietreggiai
di un passo, calando un velo perplesso sulla mia fronte.– Per
caso ci conosciamo, noi due?
Anche
il suo volto si scurì, ma in un pensiero più
profondo, impossibile da carpire per colpa dei solchi d’ombra
proiettati dalla fiaccola in mano.
–
Incredibile… non si sentivano notizie del casato del monaco
di Cîteaux da quasi trent’anni. – un
lampo balenò sul suo volto, che si trasformò in
un amareggiato epilogo. – Ora capisco tutto. Sì,
ora… tutto ha un senso.
Il
giovane compì un passo verso di me, gelandomi per un istante
il sangue nelle gambe.
Lo
fissai lì dove avrebbero dovuto esserci due occhi umani, e
una sensazione di pericolo m’assalì.
–
Di cosa stai parlando? – ebbi il coraggio di tirare fuori la
voce.
–
Cos’eri venuta a fare a Damasco, straniera? –
sibilò nell’oscurità e compì
un altro, impercettibile passo verso di me.
Avvertii
le mie budella tremare per la tensione e, improvvisamente, mi fu chiaro
che dovevo andarmene via da lì.
Fuggi
nelle viscere buie del corridoio a destra.
Non
sapevo dove andare, mi sentivo come un topo in trappola. Correvo,
sentivo il mio respiro, alle mie spalle solo
l’oscurità.
La
fiaccola era stata spenta, per rendere più facile la caccia
al predatore.
Mi
schiantai con la spalla sinistra in una porticina, cascai fuori dalle
cantine e, immediatamente, un fendente di luce rossastra mi
ferì gli occhi. Sbattei via le lacrime con foga,
riconoscendo le feritoie interne di una delle torri di controllo,
dunque alzai il naso all’aria, scorgendo un’arcata
splendente da dove potevo intravedere il cielo.
I
piedi andavano veloci sui gradoni scivolosi, incuranti della tromba
delle scale che s’infossava man mano che mi avvicinavo al
bagliore della libertà.
Entrai
nel teschio della torre e il mio corpo accaldato trovò
subito refrigerio dalla brezza proveniente dalle montagne, ora coronate
da un bagliore rossastro, che soffiava attraverso le aperture
circostanti.
A
coronare il tutto, come spine di una corona, quattro ballatoi si
affacciavano sul burrone circostante, scricchiolando e resistendo al
vento con temeraria forza.
Un’ondata
gelida sopraggiunse dalle stanze, portando con sé
l’immagine di un giovane fantasma silenzioso. Lo sentii
arrivare, ma non ebbi il coraggio di voltarmi per la paura.
Si
appostò dietro di me, sentivo il suo respiro infrangersi
contro i miei capelli.
–
Ucciderai anche me… come quelle guardie al mercato?
– sussurrai a voce secca.
Lui
non rispose subito.
–
Forse lo farò, ma non senza averti dato un’onesta
possibilità di aver salva la vita. Tu parlerai. E ti
difenderai, figlia dei Chiaravalle.
In
meno di un secondo, la sua mano spinse sul mio petto e
ghermì lo scollo dei vestiti fino a sformarlo, io tentai di
gridare ma l’innesco cupo di un meccanismo dal suo polso
destro spezzò le mie corde vocali all’istante.
Dal
bracciale legato al polso, vidi sotto gli occhi la figura slanciata di
una lama raffinata e la sua punta, pressata contro la mia giugulare con
una delicatezza quasi surreale se paragonato al fervore scoppiettante
nella vena sul collo del giovane.
Il
suo cappuccio mi guardò diritto negli occhi, sbarrati in un
baratro senza fondo, e immediatamente la sua bocca manifestò
disprezzo.
–
Che cosa sta succedendo? – fu la sua prima domanda.
– Cosa ci fa una dannata Chiaravalle qui, in Terra Santa?
Come avete osato presentarvi di nuovo ai nostri mercati, nelle nostre
città? Cos’è, avete trovato di nuovo
terra dove affondare le vostre radici velenose?
Sebbene
la paura mi avesse sottratto la voce, l’orgoglio del sangue
fu più forte di ogni cosa e dimenticai per un istante di
avere una lama alla gola. – C… come ti permetti?
La mia famiglia discende da un uomo buono, di chiesa, Bernardo di
Chiaravalle! Chi ti credi d’essere, per infangarci
così?
–
Ma guarda, hai l’indole tipica di un dannato Templare, eh.
– schioccò la lingua con aria annoiata.
A
quel punto, richiamò il pugnale nel polso e
lasciò che il mio corpo potesse tornare a muoversi libero.
Subito strinsi la gola per assicurarmi che non ci fossero tagli e
sospirai flebile nel sentire che fosse tutto intatto, ma potevo ancora
avvertire quella gelida sensazione di morte appuntata al collo.
–
Di cosa stai parlando? – incalzai con tutto il coraggio che
avevo. – Cosa diavolo hai contro la mia famiglia, si
può sapere?
Lui
rise amareggiato. – Dì un po’, hai
almeno la benché minima idea di dove ti trovi, Laura di
Chiaravalle? O hanno una così bassa considerazione della tua
vita, quelli del tuo Ordine, da mandarti nella tana del nemico senza
informarti del pericolo? Scommetto che ti hanno imbarcato nella prima
nave per Damasco senza neanche una valida spiegazione. Sbaglio?
Quelle
ultime parole contribuirono a imprimermi un persistente, insostenibile
senso di nausea. Fu come avere il presentimento di una tempesta, ancora
troppo lontana per esser avvista, ma l’elettricità
era già nell’aria e si sentiva a pelle.
Ovviamente,
ignorai il presagio come si farebbe con una mosca fastidiosa.
–
Chiudi quella dannata bocca! Non osare insinuare cattiverie sulla mia
famiglia, noi non abbiamo niente da nascondere, loro… loro
non mi nascondono niente! Niente, hai capito? E ora, col tuo permesso,
me ne torno a casa, e non me ne frega dei vostri stupidi protocolli per
la sicurezza, io ci torno adesso!
Detto
ciò, diedi le spalle al ragazzo e mi tesi in direzione delle
scale.
–
“Nulla è reale, tutto è
lecito”. Sono le parole che hai pronunciato al mercato, o
sbaglio?
Indugiai
sui piedi per pochi secondi, dunque marciai verso di lui con gli occhi
fissi su quell’inquietante, improvviso pensiero che aveva
preso a battere in un angolo recondito della mia testa.
–
Come conosci queste parole…? – sussurrai.
–
La domanda è… come le conosci tu, Laura di
Chiaravalle.
Lo
fissai.
Poi,
mi diressi a grandi falcate verso di lui, gli occhi spalancati sul suo
volto celato per metà, il cuore che infuriava in petto, il
mondo aveva preso a vorticarmi improvvisamente attorno.
Allungai
la mano verso la sua testa quand’ero ancora lontana, un
ultimo passo e cappuccio grigio mi bloccò per il polso,
costringendomi a fermarmi a pochi centimetri dal tessuto sulla sua
testa.
–
Tutto questo… non è reale.
Sospinsi
un po’ più in là le dita, riuscendo ad
acciuffare il cappuccio ruvido.
Lo
calai sulle sue spalle e capii che la mano del ragazzo non oppose
resistenza, invece, mi accompagnò in quella scoperta.
–È…
solo delirio.
Un
paio di occhi azzurri.
In
quell’istante, la nebbia si diramò dai miei occhi,
fui travolta dalla conferma di una verità inaspettatamente
ovvia e sentii il mondo capovolgersi sotto i miei piedi, come se la
realtà fosse oltre il filo d’acqua su cui ero
affacciata io.
Ero
in un’allucinazione.
Angolo
autrice:
Ben
ritrovati a tutti! Allora, avrete di certo notato
l’inserimento di una storia famigliare per Laura, con un
capostipite molto famoso, Bernardo di Chiaravalle. Tanto per essere
chiari, io sono come la Ubisoft. Qualsiasi manipolazione del
personaggio storico, aldilà del mio credo personale,
è mirata a uno scopo prettamente creativo e non
c’è intento informativo, perché,
chiaramente, tutto cadrà casualmente a fagiolo per lo
sviluppo delle nostre vicende.
Per
chi ha letto la prima versione, potreste trovare il Kadar di questo
capitolo un po’ brusco, sostanzialmente perché non
si fidi della giovane forestiera bianca, ma non disperatevi, il suo
carattere affabile tornerà presto alla carica. Ne approfitto
per ribadire che la storia non è cambiata, solo…
determinati avvenimenti avverranno in maniera più
“casuale”. Con questo, vi saluto e al prossimo
aggiornamento!
Baci,
Lusivia.
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