Alleanze e obiettivi
Nankatsu – Gennaio 1981
Era ormai da mezz’ora che girava a vuoto per la villa, con i
capelli sudati e ritti sulla testa, perché, frustrato, si era passato per
troppe volte le mani nervose in mezzo.
– Kamisama! – imprecò nel silenzio, ci voleva la bussola per
non perdersi in quella specie di enorme mausoleo… Poi maledisse energicamente
le manie di grandezza del suo migliore amico: duemila (e va beh, ok, era
un’iperbole) stanze per viverci in tre (e va beh, ok, adesso che si era
trasferito definitivamente anche lui, in quattro) erano un chiaro segno di
megalomania allo stato puro e quasi patologico.
Ma, dopotutto, quando si parlava di Wakabayashi Yūta, ego
era una di quelle parole che riuscivano a descrivere l’uomo soltanto in parte.
Aprì un’ennesima porta, di un ennesimo lungo corridoio vuoto,
esaminando l’ennesima stanza desolatamente vuota, così decise di tornare sui
suoi passi; sentì uno scalpiccio, e, voltandosi, osò sperare mentalmente, però
rimase di nuovo deluso: era soltanto il quinto abitante che trotterellava
tranquillo per la sua strada, perché lui sapeva, come muoversi perfettamente
tra le quattro (o sarebbe stato meglio dire quaranta?) mura, senza problemi nel
ritrovarla, oppure tentare a casaccio.
Allora gli balenò un’idea, dato che, dopotutto, un cane
sarebbe stato sicuramente in grado di stanare a fiuto quella piccola peste che
si era nascosta chissà dove per non farsi mettere la supposta. John, però,
sempre altezzoso, proprio come il suo padrone, non lo degnò nemmeno di uno
sguardo sbieco o un ghigno beffardo.
– Sei proprio un bastardo di razza, tale e quale a lui… –
mugugnò inutilmente alla coda bianca che si allontanava, indifferente ai suoi
problemi.
Così tornò in salotto e sedette sul divano per fare mente
locale; ora doveva inventarsi qualcosa, creare uno schema d’azione che gli
avrebbe permesso di raggiungere il suo obiettivo in formato tascabile e
monello. Sorrise leggermente.
Quella stessa mattina, era andato a svegliare Genzō, insolitamente
dormiglione, e lo aveva trovato febbricitante e con una malattia esantematica tipica
dell’infanzia, che il medico aveva poi diagnosticato come varicella.
Niente di cui preoccuparsi, quindi, però era comunque andato
in paranoia, quando aveva scorto lo sfogo rossastro su tutto il corpo del suo
secondo figlioccio. Essendo figlio unico, certe volte non sapeva proprio che
pesci pigliare con i ragazzini.
~ Non credo che riuscirei mai ad allenare una squadra ~
considerò fra sé, ~ perché mi metterebbero subito i piedi in testa… ~
Meglio, invece, continuare a coltivare il talento del suo
piccolo Numero Uno, dopotutto, era sempre stato Gamo, quello con le doti da
leader, in nazionale.
Oltretutto, quella era la prima volta che Yūta e
Mitsuki lo lasciavano qualche giorno da solo con Genzō, che, sembrava
facile gestire la sua esuberanza, ma era molto diverso dal cugino, perché Niko, alla sua età, era stato parecchio più tranquillo e
obbediente. Il mini Wakabayashi, invece, era più testardo, più orgoglioso, più
prepotente…
~ Tutto suo padre! ~ Poi, era capitata anche
quell’immane disgrazia, che all’inizio era apparsa soltanto come una banale
influenza; così, preso dal panico, aveva meditato di chiamare, nell’ordine:
un’ambulanza, un esorcista, la governante! Ma era da solo, alla villa, perché
aveva assicurato ai suoi amici di potersela cavare benissimo, quindi, alla
fine, più razionalmente, aveva optato per il dottore.
Dopodiché dalla farmacia di Nankatsu gli avevano consegnato
a domicilio un pacchetto contenente i medicinali prescritti: antibiotico,
vitamine e un antipiretico, in supposta, perché, aveva spiegato il luminare, ai
bambini faceva effetto più in fretta.
Quando Genzō aveva capito da dove sarebbe dovuta
entrare la medicina, un lampo di sfida era passato nello sguardo di pece già
piuttosto impertinente; poi era schizzato via dalla sua cameretta più veloce
dello Shinkansen, portandosi dietro una coperta e l’immancabile
cappellino rosso, che teneva in testa persino dentro casa.
~ Chissà perché poi… ~ e si appuntò mentalmente di
chiedere a Mitsuki il motivo di quel vizio bizzarro che lei e Yūta stavano
concedendo al figlio.
E così, mentre rimuginava che fare il genitore non fosse
affatto facile come poteva sembrare, era iniziata la sua infruttuosa battuta di
caccia.