C’era
odore speziato, forte, nell’aria. Assenzio mischiato ad
alcool che sferzava le
narici, corrodeva la gola ad ogni respiro. Un odore a cui molti di loro ormai si erano assuefatti con
passiva rassegnazione o beata incoscienza.
Le
pareti si susseguivano indolentemente uguali, bianche e lucide come una
fittizia casa delle bambole. Come un
luogo pieno di fittizia luce.
Bianco.
Bianco. Bianco.
Le
lenzuola, i camici, i tavoli, le sedie.
Bianco.
Bianco. Bianco.
I
visi, i sorrisi, gli sguardi.
Ma
il bianco non
è colore, è annullamento e
rifiuto di esso.
Con
le mani pigiate infantilmente sulle orecchie, infilate tra i capelli
scuri e
spettinati, ovattava i
già deboli suoni.
Si chiudeva in una bolla sottile che la separava dal bianco, dal quel
nulla
irritantemente movimentato.
Con
i gomiti delle braccia sottili poggiati sulle ginocchia, si dondolava
avanti e
indietro come al ritmo di una estenuante
ninnananna. I piedi avvolti semplicemente nella lana delle calze
pesanti si
sollevavano leggermente seguendo quella melodia appena accennata.
La
voce della ragazza, di un delizioso timbro argentino, soffiava
attenuandosi
sulla stoffa chiara della lunga veste . L’orlo seguiva
l’ondeggiare delle gambe
scoprendo i segni violacei che coprivano l’epidermide chiara.
Ecchimosi
e piccoli tagli sfregiavano i polpacci in modo più o meno
profondo, alternati a
vecchie ferite ormai cicatrizzate.
Attorno
a lei, in quella piccola stanza simile ad un ripostiglio, il buio
divorava e
inghiottiva il bianco delle alte pareti. Finalmente.
Come
un manto salvifico avvolgeva protettivo le spalle di Alice, la scaldava
con le
sue tonalità dolcemente opprimenti. Un abbraccio che dava un
sentore di
sicurezza e quiete a quello spirito che vagando assente per le altre
stanze
maledettamente bianche si sentiva spaesato, abbandonato. Punito.
Fuori
di lì non era libera di vedere le cose vere,
era costretta a doppiare un’ Alice che il mondo aveva
inventato per proteggersi
da ciò che temeva.
Ci
sono nuovi Prometeo e Demetra che
camminano tra gli uomini. Scambiati per folli, per demoni, per
malati…
I
mortali li rifiutano, li combattono.
Vili
e incoscienti. Sciocchi e
arroganti.
Gli
occhi del colore della bruna terra stavano socchiusi, velati di una
leggera
patina di sonnolenza apparente. Le ciglia immobili le davano
l’aspetto di una
piccola bambola rotta, accasciata su se stessa, solo il continuo
dondolare la
rendeva viva.
Lingue
sottili e improvvise di luce si insinuavano fulminee tra la nebbia che
offuscava le iridi e le palpebre appesantite dal fatuo sonno. Sbiadite
immagini
si affacciavano alla sua mente e al suo cuore, alcune piene di una
strana luce
dorata e brillante, come una cascata di polvere fatata baciata dal
sole, altre
terribili, nefaste.
Ammonitrici.
Colme
di urla strazianti, di fuoco che lede le carni, di sangue. Tanto sangue.
Il
respiro di Alice prese ad aumentare a quegli ultimi flash, incespicava
nella
gola. Le spalle deboli e curve tremavano e si contraevano a scatti come
colpite
da frustate improvvise.
Un
gemito lamentoso, a lungo trattenuto, sfuggì
esasperato dalle sue labbra umide di
saliva e sangue per i morsi che le avevano ferite superficialmente
durante la
frenetica, seppur breve, visione.
Una
lacrima solitaria e traditrice, rotolò sul viso imperlato di
sudore. Le braccia
si strinsero attorno alle ginocchia su cui l’addome si
premeva in posizione
fetale.
Cercava
di proteggersi la piccola
Alice …
Uno
scatto troppo familiare si propagò dalla porta in legno
chiaro che le stava
davanti. Accucciata contro la parete fredda, si strinse ancora di
più a sé.
Lei
aveva solo se stessa, era sempre
stato così. Neanche il signore con gli occhi degli angeli
poteva salvarla…
Due
infermieri, un uomo e una donna entrarono a passo svelto puntando
direttamente
verso Mary Alice, sul volto un’espressione stizzita, come se
quei gemiti li
avessero distolti da qualcosa di troppo importante.
La
donna, magra con i capelli cenere raccolti in un ispido chignon,
storcendo il
naso osservava impassibile il collega arrotolare le maniche del camice
attorno
alle braccia nerborute e poi chinarsi verso la
“visionaria”.
Le
unghie, tagliate maldestramente e in profondità da qualche
infermiere ancora
meno paziente giorni prima, tentarono inutilmente di ferire quella
carne,
quelle braccia che tentavano di chiuderla in una morsa dolorosa.
Mary
Alice Brandon sapeva che sarebbe stato inutile. Troppo piccola per
dibattersi
con sufficiente intensità, troppo sfortunata per soffrire
una sola volta.
Il
dolore che dagli occhi vitrei si
propagava nella sua mente, quando ancora era solo fumoso incubo.
E
una seconda volta quando le scosse
vibravano sotto la sua pelle, quando le dita sottili artigliavano
lenzuola
sporche e stropicciate da decine di sofferenti…
Due
volte nel dolore, due volte la stessa morte.
La
donna minuta con sguardo seccato stringeva
le nocche di Alice, aggrappate disperatamente
allo stipite
ligneo della porta, in un ultimo tentativo di evitare[illusa] quella
pena [la
decisione era già presa].
Lei
non aveva finito di vedere. Non poteva andare,
non
poteva seguirli.
Un
sorriso e [altri] occhi di ambrosia,
lontani ma
rincuoranti, non erano
apparsi alla sua mente. Il sogno non si era concluso…Ne
aveva così bisogno…
Il
miele prima della fiele. L’assoluzione
prima del patibolo.
Un
singulto attraverso frenetico le sue urla, le sue preghiere. Una
sensazione di
soffocamento le chiuse
la gola quando
gli occhi scorsero sulla grande vetrata del salone principale,
attraverso la
porta socchiusa dietro la quale bambole senza vita quasi, sedevano
sommessamente ai tavoli. Un lamento, un singhiozzo, un grido. Ogni
tanto. Poi
subito soffocato.
I
suoi occhi andarono oltre, veloci, quella gente. Si posarono fugaci
sulla
finestra, scorgendo una figura. Un ghigno.
Era
buio tanto buio.
Finalmente.
Le
labbra da folletto fiorirono nuovamente.
Gli
occhi d’ambrosia le sorridevano,
giocavano
con i suoi che li riflettevano ora nel colore.
La salutarono.
Ti
troverò, amore
mio.
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