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Salve a tutti! Prima di cominciare vorrei darvi alcune informazioni/avvertimenti.
Numero
1: Nel corso della storia ho aggiunto qualche personaggio preso dal
libro, ma non temete… quando sarà così,
verrà specificato a termine del capitolo con tutte le dovute
spiegazioni.
Numero
2: Ho cercato di rendere i personaggi quanto più simili
possibile alla serie. Se doveste trovare discordanze o credete che
siano un po’ troppo OOC, fatemelo sapere e aggiungerò la
voce.
Numero
3: Per esigenze di trama, ho dovuto modificare il lavoro del padre di
Clarke, ma tutto vi sarà spiegato al momento opportuno, ve lo
prometto.
Numero 4: Tutte le parti che vedrete segnate tra due asterischi e scritte in corsivo (* … *)
saranno dei flashback. Spero che non vi stanchino, ma sono importanti
per capire i punti fondamentali del passato dei nostri protagonisti.
Nei primi capitoli saranno spesso presenti sia dal punto di vista di
Clarke, sia da quello di Bellamy, ma con il progredire della trama ce
ne saranno sempre meno. Mi tornano utili per spiegare come sono andate
le cose nel passato dei due ragazzi.
Dovrebbe essere tutto… buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate!
CAPITOLO 1: HOME SWEET HOME
Life is a mystery
Everyone must stand alone
I hear you call my name
And it feels like home
La vita è un mistero
Ciascuno
deve stare da solo
Sento che
chiami il mio nome
E mi fa
sentire come fossi a casa
E così… casa dolce casa, alla fine.
Clarke
si guardò intorno. Il quartiere era esattamente come lo aveva
lasciato, dalle staccionate bianche dipinte impeccabilmente ai prati
all’inglese perfettamente curati.
Quando
il taxi accostò di fronte all’abitazione della ragazza,
lei ebbe un sussulto. Pensava che non le avrebbe fatto alcun effetto
tornare a casa e invece… beh, non avrebbe potuto sbagliarsi
tanto.
Deglutì,
porse un paio di banconote al tassista e scese dal mezzo. L’uomo
alla guida la aiutò con i bagagli, poi si rimise in macchina e
partì.
Un
paio di secondi dopo era già sparito in fondo al vialetto e
Clarke si ritrovò a fissare quella graziosa villetta in cui
aveva abitato durante gli anni delle superiori.
Clarke
e i suoi genitori si erano trasferiti nella zona di Fort Hill giusto
poche settimane prima che Clarke iniziasse il liceo. Un giorno di
inizio giugno, sua madre era tornata a casa annunciando che le era
stato offerto un posto come primario di chirurgia d’urgenza
nell’ospedale “Ark Medical Center” in
uno dei cinque borghi di New York: Staten Island. Così avevano
deciso di trasferirsi e, a fine agosto, erano arrivati su quella
piccola collina.
Fort
Hill era una delle due zone residenziali di Staten Island,
prevalentemente composta da numerose ville monofamiliari in stile
Tudor, vittoriano e Art déco.
L’altro
quartiere, più vasto e popoloso, era comunemente chiamato
“Projects” ed era abitato da famiglie per lo più di
colore o ispano-americane.
Era
stato proprio lì che Clarke aveva incontrato il suo primo amico:
Wells Jaha, figlio di uno dei più noti imprenditori edili della
zona. In effetti, inizialmente, da ragazzina quattordicenne ed ingenua
che Clarke era, si era chiesta come mai una famiglia come quella di
Wells vivesse ancora nel Projects,
poi aveva scoperto che il motivo era la nonna di Wells:
un’anziana signora malata che per nessuna ragione al mondo voleva
separarsi dalla casa in cui per ben sessantacinque anni della propria
vita aveva abitato con il marito deceduto da poco.
Quindi
Wells, suo padre Thelonius e la madre Angeline le erano rimasti accanto
fino alla fine, dopodiché si erano trasferiti anche loro a Fort
Hill, giusto nella villetta a tre piani di fianco a quella della
famiglia Griffin.
Questo
era successo un anno dopo, quando Wells e Clarke erano al secondo anno
di liceo e da quel momento avevano sempre vissuto praticamente
l’uno a casa dell’altra.
Clarke
però aveva legato moltissimo anche con altri due suoi compagni
di classe: Jasper Jordan e Monty Green, un duo alquanto dinamico e
bizzarro. La ragazza sapeva benissimo che quando si organizzavano
uscite con quei due di sicuro non ci si sarebbe annoiati. Erano
divertenti da morire, ma forse un po’… pazzoidi.
La
sua passeggiata sul viale dei ricordi fu interrotta dall’aprirsi
della porta di casa sua e la figura slanciata di sua madre le corse
incontro con un gran sorriso.
«Clarke!» esclamò la donna, abbracciandola quasi commossa.
Dapprima, la ragazza rimase rigida, poi si rilassò, restituendole l’abbraccio con più naturalezza.
«Ciao, mamma».
«Oh tesoro, mi sei mancata così tanto… ».
«Non ero poi così distante… il Massachusetts è praticamente attaccato a New York».
Nonostante tutto però, ciò che sua madre aveva detto era vero. Clarke era effettivamente
così distante. No, ancora di più. Era lontana alcune
galassie da lì e tuttavia non le sembrava abbastanza.
«Già… il tuo college non è distante» la riprese sua madre con un sorriso sincero.
Sì.
Subito dopo aver finito il liceo, Clarke era stata ammessa alla
facoltà di medicina ad Harvard e adesso, a ventitré anni,
si era laureata: prima del tempo e prima del suo corso. Era sempre
stata così, fin dalle superiori: la migliore in tutto e per
questo, gran parte dei suoi compagni di liceo l’aveva detestata.
Sarebbe
rimasta a casa l’intera estate e si sarebbe preparata per il test
d’ingresso alla specialistica di chirurgia. Se fosse rientrata
tra i primi cinque ammessi, avrebbe anche potuto scegliere un qualsiasi
ospedale in cui affrontare l’internato per i sei anni successivi.
La
punta di amarezza nel tono di sua madre però, le fece nascere
dentro un certo senso di colpa. Non si era mai fatta sentire di sua
spontanea volontà; era sempre stata Abby a mettersi in contatto
con lei e solo due volte in sei anni era tornata a casa per le vacanze
di Natale. Non aveva nemmeno partecipato alle seconde nozze della madre.
Questo
probabilmente era dovuto al fatto che forse Clarke non l’aveva
mai perdonata del tutto. Lei era andata avanti, si era rifatta una
vita. La ragazza invece era rimasta ineluttabilmente incatenata a
quella notte di tanti anni prima, quando il telefono era squillato a
tarda notte e, la voce ferma e seria di Marcus Kane, allora detective
nel dipartimento di Brooklyn, le aveva raccontato cosa fosse successo a
suo padre.
E forse, neanche dopo sei anni Clarke era riuscita a riprendersi da quella perdita.
Si riscosse quando una seconda sagoma uscì dall’abitazione, venendole incontro sorridendo.
«Ehi, Clarke… ».
Ed eccolo lì: Marcus. Adesso era il nuovo marito di sua madre. Il suo patrigno.
Era
una strana parola e neanche a quella la giovane si era ancora abituata,
forse perché non era mai stata tanto a rifletterci. Per lei
quell’uomo era il detective Kane: il capo dipartimento del nucleo
investigativo di polizia di Fort Hill. E l’uomo che aveva dato il
via alla notte peggiore della sua vita.
Non
riusciva a vederlo come nient’altro e aveva dovuto fare una gran
fatica prima di riuscire a chiamarlo semplicemente Marcus e dargli del
tu. C’erano stati degli imbarazzanti episodi in cui le era
scappato di chiamarlo “detective” oppure “signor
Kane” anche dopo le nozze tra lui e sua madre.
Le
nozze… ricordava bene di aver dato completamente di matto quando
sua madre le aveva dato la notizia. Si era messa a sbraitarle contro al
telefono, spaventando a morte la povera Thalia: la sua coinquilina e il
loro gatto Yeti, un persiano dal pelo bianco e fulgido.
Lo
aveva trovato Clarke due anni prima che ancora era un cucciolo dal pelo
arruffato e zuppo di pioggia. Per questo aveva deciso di dargli quel
nome, perché le aveva ricordato subito un mostro delle nevi,
anche se in versione decisamente ridotta.
Ora
invece era tutta un’altra storia: si era fatto grande e grosso e
tutto quel pelo sembrava aver raddoppiato le sue dimensioni. Inoltre
aveva anche un temperamento niente male e apriti cielo se ti prendeva
in antipatia.
Proprio
in quel momento il gatto miagolò sonoramente dall’interno
della gabbietta da viaggio in cui si trovava per richiamare
l’attenzione della sua padrona.
«Sì, Yeti, adesso ti faccio uscire».
Prima
di rientrare aveva chiesto a sua madre e a Marcus se a loro andasse
bene avere un gatto in giro per casa. Thalia non poteva portarlo con
sé perché suo padre soffriva di una tremenda allergia e a
Clarke non era dispiaciuto tenerlo con lei. Dopo tutti quegli
anni… Yeti era l’unica cosa di realmente familiare che le
fosse rimasta.
Una
volta in casa, aprì la porticina della gabbia e il felino
schizzò subito fuori, indignato. Non era abituato a stare
rinchiuso e lo sguardo astioso che lanciò a Clarke le fece
capire che le ci sarebbe voluto un po’ prima di riconquistarlo.
«Tesoro, hai bisogno di qualcosa?» le chiese Abby con fare premuroso.
«No, davvero… non è stato un viaggio lungo, faccio solo una doccia e comincio a disfare le valige».
«Ti do una mano a portarle in camera tua» si offrì subito Marcus.
Clarke
sospirò, ma non negò il suo aiuto. In fin dei conti lui
non era male, purtroppo, aveva solo un unico, enorme difetto: non era
suo padre.
In
silenzio si avviarono lungo le due rampe di scale che portavano fino in
mansarda, passando per il primo piano. Era una bella casa, la loro: al
pianterreno l’ingresso
spazioso portava a destra in una cucina arredata secondo il gusto
sobrio ed elegante di sua madre e a sinistra su un salone luminoso in
cui il bianco e il celeste facevano da padroni. Inoltre c’erano
due bagni, un ripostiglio e una piccola palestra, che per lo più
usava Marcus.
Al
primo piano si trovava la camera da letto che un tempo era stata dei
suoi genitori e che ora Abby condivideva con il suo nuovo marito, una
stanza per gli ospiti, un altro bagno, uno studio e una sorta di
biblioteca in cui erano conservati tutti i manuali di medicina dei suoi
genitori. Clarke aveva passato lì dentro interi pomeriggi della
sua vita, quando ancora era al liceo, studiando nozioni di anatomia,
fisiologia, patologia e quant’altro. La medicina era la sua
passione e l’aveva sempre avuta fin dalla più tenera
età, quando i suoi genitori la portavano in ospedale con loro se
non riuscivano a combinarsi con i turni.
Per
la maggior parte delle persone l’ospedale era un luogo ostile, un
luogo di sofferenza e dolore. Per Clarke, l’ospedale era il suo
posto sicuro. Aveva imparato a leggere nelle gallerie di chirurgia,
giocava nell’obitorio e, i suoi primi disegni, altra grande
passione che aveva sviluppato negli anni, li aveva realizzati sul retro
di vecchie cartelle mediche.
L’ospedale era la sua chiesa, la sua casa e la sua scuola. Era il suo santuario.
E
poi era arrivato anche per lei il momento di viverlo come un posto di
dolore, quando, dopo la chiamata di Marcus quel diciassette novembre di
sei anni prima, si era recata al Wallace General Hospital di Brooklyn
in una notte tempestosa come mai ne aveva viste e, dopo ore di attesa,
una certa dottoressa Tsing le aveva dato la notizia del decesso di suo
padre.
Tutto, da quel momento era cambiato.
«Clarke? Mi stai ascoltando?».
Fu
solo in quel momento che la ragazza si rese conto di essere
effettivamente arrivata al secondo piano, la mansarda, interamente
occupato dalla sua stanza e un bagno.
«Scusa Marcus, io… avevo la testa altrove».
L’uomo sorrise.
«Ho solo detto che è bello riaverti a casa… ».
Clarke
accennò appena ad un sorriso e si sentì in colpa.
Quell’uomo provava del vero affetto nei suoi confronti e
lei… non faceva altro che respingerlo. Non faceva altro che
respingere ogni povero essere umano che provasse ad avvicinarsi a lei
da quando era morto suo padre. Tranne quella notte. Quella terribile,
terribile notte che continuava a rivivere nei suoi incubi, ammesso che
riuscisse ad addormentarsi. Era da allora che era cominciata
l’insonnia e, negli ultimi sei anni, non l’aveva mai
abbandonata.
«Grazie» rispose al patrigno, sforzandosi di suonare gentile.
«Rinfrescati pure, io e tua madre nel frattempo prepariamo il pranzo, cosa dici?».
«Sei molto gentile».
Si
stava sforzando così tanto di non suonare fredda e distaccata
come si era dimostrata negli ultimi anni, ma d’altra
parte… ora era passato del tempo e se sua madre era felice con
lui, allora avrebbe dovuto cercare di essere felice per lei.
Così dicendo, Marcus uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle.
Clarke si guardò intorno per un po’: tutto era come lo aveva lasciato.
Quella
grande stanza in legno le era sempre piaciuta, le aveva sempre dato
quell’aria di casa e sicurezza. Qualcosa di totalmente suo.
Ricordò
dei caldi pomeriggi estivi trascorsi lì a giocare
all’X-box insieme a Jasper e Monty o a studiare con Wells seduti
alla grande scrivania nell’angolo a destra, preparandosi per i
test finali quando ancora erano al liceo.
L’ultimo
anno era stato molto duro: dopo la dipartita di suo padre, la giovane,
che a quel tempo aveva soltanto diciassette anni, si era chiusa a
riccio in sé stessa, non permettendo a nessuno di vedere il
reale dolore che la angustiava prima di addormentarsi, tenendola
sveglia per ore, e la soffocava non appena riapriva gli occhi la
mattina. E poi la notte erano cominciati gli incubi. Era stato da quel
momento che Clarke aveva iniziato a soffrire d’insonnia. La notte
la tormentava senza darle tregua e il dolore tornava più vivo
che mai.
Gli
ultimi mesi di scuola erano stati un vero inferno, ma il suo rendimento
scolastico, se possibile, era aumentato. Per scappare dal dolore si era
buttata a capofitto nello studio e nella preparazione ai test
d’ingresso per entrare a medicina e da quel momento era anche
cominciata la sua dipendenza dal caffè e dal fumo.
La
notte prima del test di ammissione ad Harvard, Clarke era talmente
nervosa che credette le stesse scorrendo una quantità
improponibile di caffeina nelle vene, al posto che di sangue. Con il
fumo invece, riusciva a distrarsi, ad annebbiarsi, almeno per un
po’.
Nonostante tutto però, i suoi sforzi erano stati ripagati.
La
ragazza si buttò a peso morto sul letto, ci avrebbe pensato dopo
a disfare le valige, allargò le braccia e chiuse gli occhi.
Per l’ennesima volta in quella giornata… si perse di nuovo nei ricordi.
I see fire, burning the trees
And I see fire, hollowing souls
I see fire, blood in the breeze
And I hope that you'll remember me
Vedo il fuoco bruciare gli alberi
Vedo il
fuoco scavare le anime
Vedo il
fuoco sangue nella brezza
E spero
che ti ricorderai di me
Bellamy rientrò a casa a fine turno, esausto.
Era sporco di fuliggine e sudato, voleva soltanto andare in bagno, togliersi di dosso quei vestiti e
buttarsi sotto il getto freddo della doccia per svegliarsi un
po’, ma era così stremato che si lasciò cadere di
peso su una sedia in cucina, stanco perfino per alzarsi e prendere un
bicchiere d’acqua.
Sentì a stento le chiavi girare nella toppa e la trillante voce di sua sorella salutarlo.
«Caspita,
fratellone… quello straccio ha un aspetto migliore del
tuo» disse Octavia avvicinandosi al ragazzo e posandogli un lieve
bacio sulla guancia. «E puzzi come un cadavere in putrefazione
sotto il sole nel deserto in pieno agosto».
Il fratello maggiore alzò le sopracciglia, solo vagamente stupito dalle parole della sorella.
«Hai
intenzione di insultarmi per tutto il pomeriggio, sorellina?
Perché quella è la porta» disse, passandosi una
mano sul volto sfigurato dalla stanchezza e strofinandosi gli occhi,
con il solo risultato di portarvi della fuliggine all’interno,
facendoli bruciare da impazzire.
«Cazzo!»
esclamò avviandosi verso il lavandino e aprendo il getto
dell’acqua fredda per sciacquare la parte dolente.
«Sei proprio un disastro. Mi spieghi come faccio a lasciarti solo adesso?».
Infatti,
la sua piccola Octavia, era rientrata a casa il mese prima annunciando
che presto sarebbe andata a convivere con Lincoln: il suo fidanzato
ormai da due anni.
Così,
Bellamy aveva deciso di cedere quella casa alla sorella minore e al suo
ragazzo, mentre lui si era trovato una villetta molto più
piccola non distante da lì. Da solo non avrebbe avuto bisogno di
tutto quello spazio e, per di più, con tutti i turni che faceva,
rientrava a casa praticamente solo per dormire e a volte neanche.
Rivolse
uno sguardo divertito in direzione della sorella e, grazie al contatto
fresco e immediato dell’acqua, il bruciore ai suoi occhi
cominciò ad attenuarsi.
«Credo di essere grande abbastanza da saper badare a me stesso. E tu, quando vorrai, saprai dove trovarmi».
La sorella minore gli rivolse un sorriso sincero e gli gettò le braccia al collo.
«Mi mancherai, fratellone».
«Ehi, O… sarò solo a pochi isolati da qui» le sussurrò con dolcezza.
Sua sorella era l’unica a cui Bellamy avesse mai parlato con una tale tenerezza nella voce. Quasi.
Octavia
era sempre stata la sua missione, fin dal momento in cui era venuta al
mondo, in una notte piovosa di vent’anni prima.
«Non permetterò che ti succeda qualcosa di male», le aveva detto tenendola in braccio per la prima volta, quando aveva solo sei anni.
Poi, sua madre Melinda, si era voltata stremata verso di lui e aveva detto: «Bellamy, tua sorella… è una tua responsabilità».
E
da quel momento così era stato. Quelle parole lo avevano
accompagnato per tutta la sua vita e lui aveva sempre protetto la
piccola Octavia come meglio aveva potuto, soprattutto dopo la morte
della madre, quando lui aveva vent’anni e Octavia solo
quattordici.
Ricordava
quel giorno come se fosse ieri: la fabbrica in cui Melinda lavorava
aveva preso fuoco e lei era rimasta intrappolata al suo interno, non
riuscendo a salvarsi. Bellamy non seppe mai se fosse morta per il fumo
inalato o carbonizzata, ma sperava tanto per fumo. Se non altro avrebbe
sentito meno dolore.
Era
stato in quel momento che aveva deciso di diventare un vigile del
fuoco. Dai diciassette ai vent’anni, da quando aveva finito il
liceo, si era dedicato a lavori saltuari, arrangiandosi come poteva, ma
quando il peso di ciò che era accaduto, gravò
improvvisamente sulle sue spalle, dovette trovare un impiego che gli
desse stabilità. Che desse stabilità ad Octavia.
Tra
un mese esatto sarebbero stati sei anni dalla morte di sua madre: il
ventisei luglio e Bellamy chiuse gli occhi, abbandonandosi per un
momento a quei ricordi.
*Bellamy
passeggiava lungo le strade di Fort Hill in un assolato pomeriggio di
mezza estate quando due camion dei vigili del fuoco gli sfilarono
accanto a gran velocità e con le sirene spiegate. Il ragazzo
voltò pigramente la testa nella loro direzione, poi li vide
svoltare a sinistra in fondo alla strada. Inizialmente non
collegò il fatto, ma un istante dopo, un campanello di allarme si accese nella sua testa, lasciandolo paralizzato per un momento.
La fabbrica in cui lavorava sua madre era l’unico edificio da quella parte, non poteva essere altrimenti.
Senza nemmeno rendersene conto, scattò
in una corsa forsennata, il cuore che pompava così forte nel
petto da sentirlo rimbombare nelle orecchie, nel cervello.
Una
volta arrivato, affannato, in cima alla collina, la scena che gli si
presentò di fronte, gli mozzò il respiro nella gola e il
giovane ragazzo emise un rantolo. La fabbrica
era divorata da fiamme talmente alte e minacciose da sembrare
l’entrata dell’inferno. Ed effettivamente lo era stato,
perché da quel momento, il personale inferno di Bellamy Blake
aveva avuto inizio.
Bellamy cadde in ginocchio davanti a quella scena, il volto contratto in una maschera di disperazione e un vuoto nel petto talmente enorme che minacciava di risucchiarlo nell’oblio da un momento all’altro.
Sua
madre era una donna forte ed era stata il suo punto di riferimento da
che il ragazzo ne avesse memoria. Ricordava a stento il padre, ma
ciò che ricordava non era bello e inoltre era sparito dalla
circolazione subito dopo aver saputo da sua madre che aspettava Octavia.
Da
quel momento era stata lei a prendersi cura di loro, dei suoi figli,
con le sue sole forze e ora… semplicemente non c’era
più. Com’era possibile? No, sicuramente doveva esserci un
errore. Presto il suo cellulare sarebbe squillato e la voce cristallina
di sua madre gli avrebbe detto che per quel giorno non era andata al
lavoro, che lo stava aspettando a casa, e poi lo avrebbe rimproverato
perché la sua camera da letto, come sempre, era un totale e
completo disastro.
Ma il suo cellulare non squillò. E lui non sentì mai più la voce di sua madre.
Fu
distratto da una mano che si posò sulla sua spalla e un vigile
del fuoco, un certo Sinclair, lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Stai bene, ragazzo?».
«Mia… mia madre… lavora lì».
L’uomo lo osservò con uno sguardo sinceramente dispiaciuto.
«Mi dispiace… se si trovava lì dentro, non ce l’ha fatta».
Fu in quel momento che Bellamy percepì il suo cuore andare in pezzi.
Dirlo ad Octavia… quella sarebbe stata la parte peggiore.
Annuì, distrutto.
Voleva
correre. Correre, scappare, gridare, spaccare l’intero maledetto
pianeta, ma l’unica cosa che fece fu avviarsi al parco in cui
Octavia avrebbe passato quel caldo pomeriggio estivo con alcune sue
amiche. Stava per rovinare l’esistenza della sua dolce, indifesa
sorellina e la parte peggiore era la consapevolezza che non avrebbe
potuto fare niente per evitarlo.
Doveva essere forte. Doveva essere forte per lei.
Iniziò
a camminare lentamente verso gli Staten Island Greenbelt, un sistema di
parchi contigui, luogo d’incontro per innumerevoli giovani,
soprattutto durante quel periodo dell’anno.
Per
fortuna conosceva sua sorella abbastanza bene da sapere dove potesse
trovarsi, altrimenti ci avrebbe impiegato ore, così si era
avviato stancamente verso la sponda di un piccolo lago artificiale,
dove la ragazza se ne stava a chiacchierare con due sue amiche, la testa buttata all’indietro e un sorriso che le illuminava il volto.
Bellamy si sentì
male all’idea di ciò che sarebbe successo di lì a
poco. Estrasse il cellulare da una tasca dei jeans e, velocemente,
digitò un messaggio: “Vediamoci all’ingresso del parco. Subito”. Semplice, perentorio.
Quando
vide da lontano la figura di sua sorella alzarsi dal prato e avviarsi
verso la direzione da lui indicata, tirò un sospiro di sollievo.
Voleva essere solo con sua sorella per darle la notizia di quella
terribile tragedia che li aveva colpiti così duramente e
all’improvviso.
Infine,
la sua piccola O gli fu vicina, una quattordicenne minuscola e con gli
occhi chiari e grandi, mentre lo guardavano con curiosità.
Bellamy
voleva seriamente scappare, ma non poteva. In quel momento sua sorella
aveva bisogno di lui ed in quel momento il ragazzo ricordò le
parole di sua madre il giorno in cui Octavia era nata: “Tua
sorella è una tua responsabilità”.
Mai,
prima di allora, quelle parole erano state più concrete e
pesanti per lui. Talmente pesanti che adesso sembravano schiacciarlo
con la forza di un macigno, minacciando di farlo crollare.
«Ciao, fratellone» lo salutò lei con il suo grande e luminoso sorriso.
“No,
O… non farlo, ti prego. Non guardarmi con quegli occhi contenti
perché tra poco si riempiranno di lacrime per ciò che sto
per dirti”, aveva pensato il moro, con un nodo alla gola che
quasi lo soffocava.
«Ehi, Bell… che succede?».
L’espressione sul viso di Octavia era cambiata e la giovane pose una mano sul braccio del fratello maggiore.
Bellamy
deglutì a vuoto e fissò i suoi occhi scuri in quelli
chiari di lei con determinazione. Non poteva farsi vedere debole. Non
poteva permettersi di vacillare proprio in quel momento.
«Si
tratta della mamma, O… è… è scoppiato un
incendio alla fabbrica. Lei… lei non c’è
più… ».
Non sapeva come altro dirglielo e dubitava che quelle parole fossero le più adatte, ma non gli venne in mente altro.
Le ginocchia di Octavia cedettero e prontamente, lui le circondò la vita con le sue braccia.
Sua
sorella soffocò le grida contro il suo petto e Bellamy si
sentì impotente e terribilmente disorientato. Gli sembrò
di rivivere quella scena per la seconda volta, solo che allora non era
stata Octavia a urlare e dimenarsi contro il suo corpo. E solo allora
capì. Solo allora riuscì davvero a comprendere un dolore
tanto devastante.
Come avrebbe fatto adesso?
Chiuse
gli occhi, rimandando giù le lacrime che minacciavano di
sgorgare di nuovo lungo le sue guance e strinse a sé sua sorella
come mai aveva fatto nella vita. Lei era tutto ciò che gli era
rimasto e non avrebbe mai e poi mai permesso che le accadesse qualcosa
di brutto d’ora in avanti*.
Bellamy tornò alla realtà quando Octavia gli parlò.
«Domani
possiamo darti una mano con il trasloco. Lincoln oggi è molto
occupato, per via di un nuovo arrivo alla centrale di polizia».
«Già, ho saputo dai miei colleghi che arriva un nuovo comandante al Dipartimento. Si sa niente?».
«Non
molto. Lincoln dice che è una donna e che è uno squalo.
Ha fatto carriera in pochi anni ed è ancora giovanissima».
«Caspita…
se è davvero così in gamba è strano che la mandino
qui a Fort Hill e non a Brooklyn o Manhattan. Tutto sommato qui
è tranquillo».
«Bell…
tu sai chi c’è a Brooklyn… pensi che una come Anya
Ground si faccia scavalcare dall’ultima arrivata?».
«Già… quella donna mi mette i brividi…».
«Sì, diciamo che è meglio non averla come nemica».
Bellamy
sorrise gentilmente alla sorella e poi parlò: «Beh…
credo che adesso andrò a farmi quella doccia dato che, come mi
hai fatto gentilmente notare, non sono proprio in splendida forma».
Octavia gli lanciò uno sguardo divertito, poi gli fece una linguaccia e si avviò al piano superiore.
Bellamy
non voleva ammetterlo, ma ormai non poteva più negarlo a
sé stesso: la sua sorellina stava crescendo, si era fatta una
vita e forse non aveva più bisogno di lui. Ma in cuor suo,
ciò che Bellamy sapeva meglio di ogni altra cosa era che lui avrebbe sempre avuto bisogno di lei.
NOTE:
Ed
eccomi qui con il primo capitolo! Allora… innanzitutto spero che
vi sia piaciuto, ovviamente. Commenti e critiche sono ben accetti e,
soprattutto, ho bisogno di sapere se i personaggi, a parer vostro,
rispecchiano caratterialmente quelli della serie tv.
Capisco
che ancora al primo capitolo sia difficile giudicare, ma ho bisogno di
saperlo, altrimenti in caso aggiungerò la voce OOC. Ad ogni
modo, semmai aspettate di leggere qualcuno dei prossimi capitoli prima
di darmi la sentenza XD
Cosa
volevo dire? Beh, in questo capitolo, come avete visto, abbiamo avuto
un flashback da Bellamy riguardo al giorno della morte della madre. Ce
ne saranno altri, naturalmente cambierà il contesto, ma, in
linea di massima, dovrebbero aiutarvi a comprendere il passato dei
ragazzi, nel capitolo quattro ce ne saranno anche di più
corposi, sia di Bellamy sia di Clarke.
Altra
cosa: Thalia, la coinquilina/migliore amica della nostra bionda.
Allora… nella serie lei non è presente, ma nel libro
sì, era proprio la sua migliore amica e le due si erano
conosciute durante il periodo di detenzione. Erano compagne di cella
(ecco, coinquiline XD).
“Per
la maggior parte delle persone l’ospedale era un luogo ostile, un
luogo di sofferenza e dolore. Per Clarke, l’ospedale era il suo
posto sicuro. Aveva imparato a leggere nelle gallerie di chirurgia,
giocava nell’obitorio e, i suoi primi disegni, altra grande
passione che aveva sviluppato negli anni, li aveva realizzati sul retro
di vecchie cartelle mediche.
L’ospedale era la sua chiesa, la sua casa e la sua scuola. Era il suo santuario.”.
Questa
parte è riadattata su una citazione di Meredith Grey, se tra voi
ci sono appassionati di “Grey’s Anatomy” se ne
saranno accorti. La citazione è presa dal penultimo episodio
(spettacolare) della sesta stagione che, appunto, si intitolava
“Santuario”.
Il titolo della storia invece è ispirato ad una canzone dei Within Temptation (gruppo che amo alla follia).
In
ogni capitolo ci saranno, come avete potuto vedere anche in questo,
degli estratti da qualche canzone. In questo caso, la citazione dal
punto di vista di Clarke è stata presa dalla brano “Like a
Prayer” di Madonna, mentre, dal punto di vista di Bellamy,
l’estratto in questione faceva parte della canzone “I see
fire”, di Ed Sheeran. Mi sembrava alquanto appropriato, anche
dato il flashback.
Bene,
non mi dilungo oltre e vi ringrazio se avete perso un po’ del
vostro tempo per dare una letta! Ci risentiamo al prossimo capitolo!
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