la strada
La
strada dell’eremita
“Yes, there
are two paths you can go by
But in the long run
There's still time to change the road you're on.”
Stairway
to Heaven- Led Zeppelin
Jiraya
amava trascorrere il
tempo sulla Montagna degli Hokage e riflettere. Solitamente sedeva
sulla testa
dello Shodai, dato che il Nidaime e il Sandaime avevano entrambi dei
capelli
piuttosto scomodi. Era un’abitudine che aveva sin da piccolo,
nata forse dal
fatto che il maestro Sarutobi lo spedisse sempre lì dopo
ogni guaio,
intimandogli di riflettere sulle sue azioni. Quelle ore di punizione
erano
presto diventate dei momenti catartici, un’irrinunciabile
occasione per
ritrovare se stesso, colui nascosto dietro la maschera da maniaco dalla
risata
facile. In quei momenti riusciva a trovare la pace, come se
l’altezza del monte
gli desse una prospettiva diversa non solo del Villaggio, ma anche
della
propria vita.
Quella sera,
però, non riusciva a svuotare la
mente. Aveva poggiato la testa sulle ginocchia, chiudendo gli occhi e
cercando
di trovare quella tranquillità che da una settimana, ormai,
gli era preclusa.
Strinse i pugni, trattenendo a stento l’istinto di fare a
pezzi qualcosa,
magari proprio quella stessa montagna che tanto spesso lo aveva
aiutato, che
significava molto per lui e per tutti gli abitanti di Konoha.
Era molto buio, ormai, quasi
tutte le luci del
Villaggio erano spente e non si vedeva nessuno per le strade. Sembrava
quasi
una notte come tante altre, ma Jiraya non riusciva a dimenticare il
fatto che,
esattamente una settimana prima, Orochimaru li avesse traditi, fuggendo
chissà
dove per progettare chissà cosa.
Orochimaru era scappato,
lasciandosi ogni cosa
alle spalle: il suo Villaggio, la sua squadra, i valori in cui aveva
sempre
detto di credere. Aveva abbondonato quella fiamma che li aveva uniti,
rinunciato al loro credo, scelto di intraprendere un cammino oscuro,
pericoloso, seminato da scie di atroci esperimenti, barricandosi
all’interno di
un laboratorio sterile e asettico. Era proprio un laboratorio
l’ultima cosa che
restava di lui, in quel posto, la prova di una tragica
realtà che era sempre
stata sotto al naso di tutti ma che nessuno era mai riuscito a vedere.
A volte
l’evidenza dei fatti si nasconde proprio dove
c’è più luce, gli avevano sempre
detto le persone anziane, insegnandogli l’ennesimo stupido
proverbio che finiva
puntualmente per rivelarsi veritiero. La prima volta in cui Jiraya
aveva messo
piede lì dentro per poco non aveva vomitato. Fino a quel
momento si era
rifiutato di credere a quello che gli era stato detto, alle parole di
quell’Anbu che, alle cinque del mattino, lo aveva svegliato
per avvisarlo che
Orochimaru era fuggito dal Villaggio della Foglia in seguito al suo
tradimento.
Orochimaru aveva voltato le
spalle a quella
maledetta montagna.
Tsunade non aveva esitato un
solo istante:
aveva creduto subito a quelle parole, senza nemmeno avere le prove in
mano.
Jiraya l’aveva accusata di essere troppo precipitosa, ma si
era dovuto
ricredere. Orochimaru li aveva davvero traditi, usati. Aveva negato il
giusto
credo ninja alla ricerca di un qualcosa di impossibile da trovare.
Jiraya aveva capito subito
che strada
Orochimaru avesse scelto di intraprendere: quella della conoscenza. Una
conoscenza spietata, contro natura, senza alcun rispetto per la vita.
Era
giusto sacrificare centinaia di esseri innocenti solo per sfamare la
propria
sete di sapere? Eppure, in qualche modo Jiraya lo comprendeva. Erano
simili,
pensò, e per un attimo credette persino di non poterlo
biasimare. In fin dei
conti erano conosciuti da tutti come eremiti. Sempre in cerca di
solitudine,
pronti a spingersi un po’ più in là,
abbandonando quella strada agevole che
chiunque avrebbe potuto percorrere, desiderosi di raggiungere mete che
nessun
altro, oltre loro, avrebbe mai potuto intravedere. Ciò
nonostante non poteva
fare a meno di sentire un peso soffocante al petto, una morsa che lo
costringeva ad aprire la bocca, in cerca di aria.
Nella sua mente si agitavano
pensieri
contrastanti. Era tentato di partire in quello stesso momento, pronto a
riprendere Orochimaru e riportarlo al Villaggio, anche a costo della
propria
vita, eppure sapeva che non sarebbe valso a niente. Il suo ex compagno
di
squadra aveva scelto consapevolmente la sua strada da percorrere, ed
era una
strada che avrebbe incrociato la sua solo nel momento dello scontro
finale. Che
fare, allora? Starsene lì con le mani in mano, augurandosi
che prima o poi
Orochimaru finisse col morire senza lasciare alcuna traccia? No, era
fuori
discussione.
Scattò in piedi,
risoluto. Sapeva bene cosa
fare. Non avrebbe continuato a piangersi addosso, avrebbe agito.
C’era
un’opportunità migliore: riprendere i suoi
allenamenti, tenere duro e sperare
di affrontare Orochimaru, un giorno, facendogliela pagare per tutto il
dolore
causato.
Anche lui avrebbe preso una
strada altrettanto
tortuosa, volta al superamento dei propri
limiti. Non aveva nemmeno bisogno di fare i bagagli.
Il Monte Myoboku lo
attendeva.
***
Orochimaru
non si era fermato neanche per un attimo, nemmeno dopo una settimana
dalla sua
fuga. Non era mai stato così stremato, neanche dopo la
battaglia contro Hanzo
la Salamandra. Durante il viaggio era stato costretto a prendere un
bastone da
terra, aiutandosi nel cammino. Era stato umiliante, ma quel suo corpo
debole
era solo una condizione temporanea. Finalmente trovò un
nascondiglio adatto,
un’isolata caverna del Paese del Fulmine. Lontano da Konoha,
lontano da tutti
quegli insegnamenti bigotti e moralisti che lo soffocavano, che
sopprimevano le
sue reali capacità. Lì avrebbe potuto dare sfogo
a tutti i suoi desideri, alle
sue ambizioni: avrebbe potuto sfamare la propria mente con quel pane
che gli
era sempre stato negato. Non c’era anima viva, lì,
nessuno che potesse dirgli
cosa fare o come comportarsi. Era finalmente libero.
Non si sarebbe fermato
finché non avesse
finalmente compreso i misteri del loro universo, le eterne regole del
chakra,
la forza che si celava dentro ogni ninja. Avrebbe scavato a fondo, nei
corpi e
nel sangue, godendo di ogni sua scoperta e sentendosi come un dio; e
proprio
come un dio avrebbe creato il ninja perfetto, la quintessenza del
potere, e lui
stesso sarebbe divenuto tale, spietato e immortale. Nessuno lo avrebbe
distolto
dalle sue intenzioni.
Era un traguardo ancora
lontano, lo sapeva
bene. Per anni aveva sognato di poterlo raggiungere, frenato dai limiti
imposti
da quegli stupidi del suo Villaggio, troppo codardi per compiere le
grandi
gesta che solo a lui erano destinate. Non sarebbe tornato sui suoi
passi, su
quella strada dritta e lastricata d’oro che lo aspettava a
Konoha, la strada
dell’eroe. Il suo cammino sarebbe stato unico, in salita, ma
con un premio ben
più grande ad aspettarlo.
Non aveva rimpianti.
Solo due nomi continuavano
ad affollargli la
mente: Jiraya e Tsunade.
Sarebbero stati due spine
nel fianco, lo
sapeva bene. Avrebbero cercato di ostacolarlo con ogni mezzo a loro
disposizione e, benché si ritenesse il più grande
ninja vivente, sapeva anche
che loro due sarebbero stati gli unici a poterlo davvero fermare.
Non c’era da
preoccuparsi, pensò: non
avrebbero fatto in tempo a prenderlo.
In certi momenti si
ritrovava a pensare che
sarebbe stato magnifico se anche loro due avessero avuto i suoi stessi
progetti: avrebbero potuto raggiungere la gloria insieme, come una
squadra.
Ovviamente erano solo dei pensieri del tutto illogici, e non poteva
fare a meno
di darsi dello stupido. Non aveva bisogno di nessuno, né
tantomeno aveva mai
tenuto davvero a quei due idioti. Non era mai stato legato a nessuno;
il suo
animo non sentiva l’esigenza di quell’istinto
abominevole chiamato affetto.
Avrebbe lasciato l’amore agli stolti; che se lo tenessero
pure! Lui ambiva
soltanto al meglio, al potere e al sapere, due facce di
un’unica, meravigliosa
medaglia d’oro che presto o tardi sarebbe stata sua.
***
Tsunade
imprecò.
Lanciò i dadi,
sudando.
Hai perso, peccato. Riprova
ancora.
Un nuovo tentativo, una
nuova sconfitta. La
metafora della sua vita, in poche parole.
Il denaro scorreva via come
un fiume, lontano
dal suo portafogli.
Quei due stupidi pezzi di
plastica a sei facce
e lei non erano mai andati molto d’accordo, ma non le
importava. Non si era mai
preoccupata dei soldi e forse era per quello che, nonostante la sua
innaturale
sfortuna, continuava a scommettere nella vana speranza di poter vincere
qualcosa, prima o poi.
Il denaro non era la prima
cosa che perdeva, e
di certo non la più importante.
Innumerevoli volti
affiorarono alla mente di
Tsunade, visi di persone amate che non avrebbe mai più
rivisto. Si chiese come
mai la vita continuasse ad accanirsi contro di lei in quel modo. Una
settimana
prima aveva perso l’ennesima persona sulla quale credeva di
poter contare,
tutto a causa di un tradimento. Suo nonno le aveva sempre insegnato a
ridere e
a ritrovare la forza anche nelle situazioni più buie. In
certi momenti, però,
quegli insegnamenti non sembravano essere serviti a nulla. Lei non era
suo
nonno, il grande Hashirama Senju: non era in grado di rialzarsi e
andare
avanti, di perdonare il tradimento di un amico e di un compagno. Non
era capace
di ingoiare, di far scorrere l’acqua sotto i ponti, di
ignorare il fatto che lui avesse
scelto la follia piuttosto
che il bene della sua gente.
Sospirò,
alzandosi dal tavolo da gioco. Notò
immediatamente lo scontento generale dei suoi avversari: avevano
gradito le
vittorie facili e non volevano certo che lei se ne andasse, non prima
che
avesse sperperato anche i suoi ultimi, inutili risparmi.
Pagò il conto e
andò via, camminando per le
strade di Konoha, il villaggio fondato da suo nonno molti anni prima.
Troppi
ricordi erano concentrate in quelle vie, nei muri degli edifici. Erano
ricordi
di un ipotetico futuro felice, in cui il suo fratellino era ancora
vivo, l’uomo
che amava ancora al suo fianco e il suo compagno di squadra, uno dei
suoi più
fidati amici, ancora al Villaggio con loro. Invece Nawaki e Dan erano
morti, e
Orochimaru li aveva traditi. Quanto avrebbe voluto che fosse morto
anche lui;
almeno avrebbe evitato di doverlo andare a cercare in giro per il
paese, con la
consapevolezza che quella serpe stesse progettando piani loschi e
crudeli a
loro spese. Se fosse morto sarebbe semplicemente andata a visitare la
sua tomba
ogni settimana, magari portandogli qualche fiore di tanto in tanto e,
soprattutto, avrebbe parlato di lui con i ragazzini di Konoha,
descrivendolo
come un grande eroe sacrificatosi per il loro bene. Invece eccola
lì, tra la
delusione e l’amarezza, a mugugnare tra sé e
sé in cerca di una via d’uscita.
Era stanca di quella vita. Era la nipote del primo Hokage e tutti si
aspettavano da lei il meglio, tutti pretendevano che proteggesse il
Villaggio a
ogni costo, anche a scapito della propria vita, dei propri sogni, dei
propri sentimenti.
Jiraya avrebbe sicuramente
seguito Orochimaru
fino in capo al mondo, impegnandosi con la solita cocciutaggine della
sua testa
dura. Lei che avrebbe fatto? Lo avrebbe abbandonato, così
come Orochimaru aveva
fatto con loro due?
Scagliò un calcio
a un sasso per strada,
mandandolo a sbattere così forte contro a un muro da
creparlo.
Perché non
c’era un’alternativa? Perché non
poteva semplicemente andare via, lasciandosi tutto alle spalle?
Si fermò,
folgorata da quel pensiero.
Già,
perché?
Sarebbe stato
così facile andare via da lì,
dimenticare ogni costrizione e vivere alla giornata, sempre in un posto
diverso,
sola e senza responsabilità.
Più ci pensava
più le sembrava il piano
perfetto.
Si affrettò verso
casa, prendendo una borsa e
lo stretto indispensabile. Non si soffermò più di
tanto su quell’appartamento
che la aveva accolta per sei anni. Non l’avrebbe
più rivisto, ma non avrebbe
certo sentito la sua mancanza.
Varcò la soglia
dell’imponente porta del
Villaggio della Foglia ed eccola lì, libera, mentre correva
di albero in
albero, ridendo senza più alcun pensiero.
Basta con i problemi, col
dolore, coi
tradimenti, con le responsabilità. Nessuno
l’avrebbe più riconosciuta come la
nipote del grande Senju, come la Principessa delle lumache; non sarebbe
stata
più la ragazza tradita da uno dei suoi migliori amici. La
sua vita sarebbe
cambiata, lontana da quell’inferno che aveva sempre
considerato casa.
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