That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Habarcat - I.012
- Il Tocco del Male
Meissa
Sherton
Spinner's End, località
ignota - sab. 22 maggio 1971
Erano
passati appena due giorni dall’ultima visita a
Spinner’s
End, e di nuovo mi trovavo in quel parco, su un’altalena
rossa,
con grosse chiazze di vernice scrostata, all’ombra di un
albero
frondoso, mentre un vento odioso imperversava sollevando mulinelli di
sabbia e foglie secche: anche quel giorno avrei aspettato impaziente le
17, quando mia madre sarebbe uscita dalla casa color topo di Eileen
Prince, di là del ponte. In quel momento osservavo due
bambini
di circa nove anni mentre tiravano sassi dal greto del fiume; odiavo
stare lì, in quel vecchio parco giochi di un insulso
quartiere
fuori mano, dove c’erano solo insetti fastidiosi, quello
stupido
fiume arido e senza pesci e quella strana ciminiera che svettava
all’orizzonte, in mezzo a quelle case tutte uguali, anonime e
disperate. Erano ormai settimane che arrivavamo in quella
città
e in quello schifoso quartiere, ma non ne conoscevo la ragione, sapevo
solo che mia madre doveva incontrare la donna della casa color topo, e
passare qualche ora da lei. Non avevo il permesso di stare
là
dentro con loro, né quello di parlare con qualcuno: la noia
regnava sovrana e avevo la terribile certezza che quella tortura
sarebbe durata almeno fino alla mia partenza per Hogwarts. Mi diedi
un’altra spinta, più vigorosa, per prendere un
po’
più di slancio. Nel giro di appena tre mesi la mia vita
sarebbe
cambiata enormemente, addio agli spazi aperti della Scozia, avrei
passato gli ultimi giorni di libertà, prima
dell’inizio
della scuola, a Londra, a Essex Street: questo mi faceva sopportare
anche meno il tempo sprecato lì, in quella terra di babbani
e di
miseria. Sospirai. Scesi dall’altalena, alla ricerca di un
luogo
più riparato, che fosse sempre a portata di sguardo dalla
signora Shener, una maganò che fingeva di essere la mia tata
in
quegli inutili pomeriggi, ma abbastanza lontano perché non
le
fosse facile vedere bene cosa stessi facendo. Mi sistemai meglio la
gonna a quadrettini, aveva preso una piegaccia su
quell’altalena,
e camminai spedita verso un cespuglio, sicura di essere sola,
finché voci semi soffocate, provenienti da una siepe davanti
a
me, non mi bloccarono. C’era davvero mancato poco, stavolta!
Sbirciai di là della siepe: erano i soliti due, un ragazzino
e
una ragazzina, forse della mia età, o poco più
grandi. Li
avevo osservati da lontano, spesso, nelle settimane precedenti, ma
sembrava che loro non si fossero mai accorti di me, impegnati
com’erano a confabulare. Una volta, avevo visto il ragazzino
girovagare nel parco tutto solo e mi ero avvicinata un po’ di
più, volevo parlargli, invitarlo a giocare con me, tanto per
passare il tempo più velocemente, ma avevo finito col
perdere il
coraggio, avevo l’ordine di non avvicinarmi a nessun babbano;
decisi d farmi avanti quando c’erano entrambi, magari lei,
che
aveva una risata così simpatica, mi avrebbe invitata a
giocare
con loro. Signora Shener permettendo. Mi voltai, la tata era
completamente presa dal suo lavoro a maglia e mi stava dando la
schiena; forse quella era davvero l’occasione buona.
Sbirciando
da dietro la siepe, notai subito il ragazzino voltato di spalle, con
uno spolverino scuro e informe, lei invece era di fronte, ma non mi
stava guardando, presa com’era dai discorsi del compagno:
aveva i
capelli color rosso scuro, gli occhi verdi, le labbra rosse che
risaltavano sulla pelle di porcellana, sembrava una di quelle stupende
bambole che mi regalava la mamma. Mossi un passo verso di loro, ma
prima mi voltai verso il ponte, proprio nell’attimo in cui
mia
madre usciva da quella casa e, al solito, quell’altra donna,
magra e giallastra, dai capelli lunghi e neri,
l’accompagnò circospetta fino al vialetto, poi
tornò indietro, gracchiando qualcosa ad alta voce e
rientrando
subito in casa, quasi temesse chissà cosa. La Shener
risistemò il suo lavoro a maglia nella borsetta, si
alzò
dalla panchina e si guardò intorno per cercarmi. Allora mi
ritrassi, per correre incontro a mia madre; l’ammirai: alta,
con
i capelli rossi lunghi fino a metà schiena, gli occhi verdi
carichi di luce, l’incarnato dolcemente ambrato, le mie
stesse
diffuse efelidi, che le davano un aspetto da ragazzina, la figura
slanciata e armoniosa, nonostante la maternità, tanto da
illuminare la strada con le sue semplici movenze. Sembrava non toccare
nemmeno i piedi per terra. E soprattutto, mentre si avviava sul ponte
per raggiungermi, aveva un sorriso d’amore stampato sul viso:
ero
felice, nel giro di pochi secondi avrei finalmente affondato il viso
nella curva calda e profumata del suo collo. Fu allora che, mentre mia
madre si era chinata a baciarmi, intravidi attraverso quei capelli
rossi e setosi, la figura sgraziata del ragazzino che attraversava di
corsa il ponte accanto a noi: visto così da vicino, sembrava
un
ragnetto e mi accorsi di quanto assomigliasse alla donna della casa.
"Andiamo".
Mia madre si sciolse dall’abbraccio. E fu come se cadesse un
velo.
*
Aprii gli occhi, ero
stesa ai piedi
di un cespuglio di sempreverdi, incapace di muovermi, e sentivo freddo
sulle braccia, il sole stava scendendo rapidamente oltre la linea degli
alberi: con una fitta di terrore mi resi conto che non ero con mia
madre, né tantomeno ero a casa mia. Non sapevo dove fossi,
non
sapevo che ore fossero, e mentre il buio e una strana nebbia
m’inghiottivano, notai che le siepi assumevano i contorni di
serpenti e una figura, vestita con un lungo mantello oscuro, si
avvicinava a me, gli occhi che saettavano fiamme. Aveva il viso pallido
e smagrito, le dita delle mani, lunghe, bianchissime,
scheletriche… il suo profilo era simile a quello di un
serpente.
Gridai. Ma la voce non
uscì dalla mia bocca.
*
“Sei tu Meissa ?”
Ero ferma e immobile davanti a un cespuglio, come impietrita, non
sapevo come ci fossi finita, né che ore fossero, non sapevo
che
fine avesse fatto l’uomo col mantello oscuro. Mi resi conto
di
riuscire a muovermi, così, lasciando cadere i fiori che
stringevo ancora in mano, senza ricordarmi di averli raccolti, mi
voltai, presa dal panico, verso quella voce, amorfa e trascinata, e
intercettai due occhi color della notte, su un viso che poco per volta
prendeva forma: capelli nero corvino appiccicati alla pelle pallida, le
labbra esangui, strette, sotto un naso grande. Mi allontanai appena e
lo misi a fuoco del tutto: era il ragazzo-ragnetto, che mi osservava
con un’espressione indefinibile.
"Si".
Tremò la mia voce, la voce della colpa; lo guardai
titubante,
non sapevo cosa sarebbe successo, non capivo che cosa mi fosse accaduto.
"Tua madre ti cerca da quasi
un’ora, non è per niente contenta".
Piatto come prima, nessuna nota nella voce. Prima ancora di riemergere
dalla boscaglia, mi resi conto di averla fatta grossa. Il fiume non si
vedeva proprio dalla siepe dove mi aveva trovata il
“ragnetto” e stando alla posizione del sole erano
le 18
passate. Avevo perso più di un’ora della mia vita,
eppure
ero convinta di essermi voltata verso il ponte mentre mia madre usciva
da quella casa, e sapevo di non essere sola, e… Quando
arrivai
dinanzi a lei, in mezzo alle altalene, il volto di mia madre era
segnato da un’aria dura che ne distorceva
l’armonia, la
Shener aveva un segno rosso sulla guancia destra e i suoi occhi mi
fiammeggiavano contro, pieni di rabbia e di risentimento. Mi resi conto
dei problemi che avevo causato, ma non feci in tempo a dire
“scusi”, che la mano di mia madre mi
colpì con
violenza e il bruciore di una frustata si diffuse sul mio viso
accaldato. Chinai il capo in segno di pentimento e m’imposi
di
non piangere, non avevo il permesso di farlo di fronte agli estranei.
“Venite dentro e prendete un
te, così
ci calmiamo tutti.” La voce della donna dai capelli neri era
piatta come quella di suo figlio.
Mia madre tradiva ancora un misto di collera e di preoccupazione
repressa, ma non mi rivolse nemmeno una parola, ci incamminammo verso
la casa color topo, la donna dai capelli neri aprì la porta
e ci
immergemmo in una fresca penombra, con un’occhiata
ordinò
a suo figlio di fare il tè, e c’invitò
a sederci su
un divano, che aveva visto tempi migliori, col semplice gesto della
mano.
“Non devi disturbarti, Eileen,
ora ce ne andiamo.“
“Nessun disturbo. Sev, quando
hai fatto, puoi
accompagnare Meissa di sopra, mentre io parlo ancora un po’
con
la signora Sherton”.
Con un semplice gesto del capo, la mamma mi accordò il
permesso
e bevuto il tè, scivolammo lungo
l’oscurità delle
scale, diretti al piano di sopra, lasciandoci alle spalle le voci delle
nostre madri. La camera di Sev era immersa nella penombra: era piccola
e odorava di buono; per essere la camera di un ragazzino, e per di
più di un ragazzino come quello, era tutto in un ordine
perfetto, quasi irreale. Era rimasto appoggiato alla porta, avvolto
dall’ombra più densa, a guardarmi, quasi ad
aspettare un
commento: aveva un paio di jeans, stropicciati e un po’ corti
per
lui, e ora che aveva tolto lo spolverino, mostrava una t-shirt che ne
sottolineava estremamente il corpo esile e ossuto. I suoi occhi,
seminascosti tra i capelli in disordine per la corsa, erano profondi e
neri, carichi di mille domande, ardenti, per non dire famelici: non
avevo idea di quali domande vorticassero dentro di lui. O meglio,
un'idea, anzi un timore, l’avevo. Forse stava pensando che
avevo
un’espressione insolita. Se sua madre gli aveva detto
qualcosa di
noi, di certo si aspettava di vedere sulla mia faccia
altezzosità e boria, invece dovevo sembrare un animale
spaventato: e lo ero, perché non riuscivo a rendermi conto
di
come avessi fatto a perdermi un’ora della mia vita, e dove
fossi
finita poco prima che Severus mi ritrovasse, e soprattutto chi fosse
quell’uomo dal mantello scuro.
Che fosse di nuovo Riddle?
Di fronte a quei pensieri angoscianti, persino la punizione, che di
sicuro mi avrebbero inflitto i miei per essere sfuggita al controllo,
sembrava una stupidaggine: eppure sapevo che per situazioni come
quella, dagli Sherton il perdono non era di casa. Tornai a valutare
quell’assurdo ragazzino babbano: di sicuro aveva notato
qualcosa
di strano perché quando mi aveva trovata dietro quel
cespuglio
mi ero voltata con occhi pieni d’angoscia.
“Come ti chiami?”
La voce mi uscì come un sussurro.
“Severus, Severus
Snape”.
Tirai un sospiro, feci qualche passo verso d lui e gli offrii la mano,
con un altro sospiro profondo.
“ Io sono Meissa Sherton, ma
puoi chiamarmi Mey, se vuoi.”
Mi prese la mano, sorpreso, quasi ipnotizzato: sapevo di profumare di
fresie già a distanza, e probabilmente gli sembravo una
bambola,
con le lunghe ciglia nere che mi ombreggiavano gli occhi verdi, il
vestitino a scacchi bianchi e rosso, e i capelli raccolti in una
treccia nera e grossa che mi arrivava fin oltre metà schiena.
“E tu puoi sederti... se
vuoi”.
Con un passo mi lasciò alle sue spalle, aprì le
imposte
della finestra e la camera fu invasa dall’ultimo raggio del
sole
al tramonto. Quando si voltò m vide ancora in piedi che
guardavo
il giradischi sul suo tavolo e quasi lo sfioravo con la punta delle
dita, a seguirne la forma, assomigliava a quello di mio padre, quello
che usavo sempre per sentire i dischi che mi aveva regalato; mi accorsi
all’ultimo momento di essere osservata con attenzione e
subito
ritrassi la mano, quasi fossi stata scottata dal fuoco.
“Non sai
cos’è, vero?”
Rimasi interdetta, certo che sapevo cosa fosse, anche se non potevo
dire di saperlo. Quello che però non capivo era
perché mi
facesse quella domanda. Lui sapeva qualcosa di me? Si era accorto di
qualcosa quel pomeriggio? Quelli come lui e sua madre come sapevano di
quelli come me?
“Ti sei mangiata la lingua?
Quello serve a
sentire la musica, ma voi di sicuro avete altre cose per
sentirla.”.
Stavo sognando? Quel ragazzo sapeva davvero che io, beh, sì,
ero diversa dagli altri?
“Ti stai chiedendo se, e come,
so che non sei una babbana, giusto?”
A quella parola trasalii.
“Certo che lo so, lo so
perché non sono
babbano nemmeno io, solo mio padre lo è, la mia mamma invece
è come me, come noi.”
E sottolineò “noi” trascinando le
lettere.
“Tu non lo sei? Io credevo
….”.
“Inoltre ormai ho undici
anni” disse con
tono pomposo interrompendomi “quindi quest’anno
finalmente
andrò a Hogwarts. E tu? Hai già 11
anni?”
Allora era vero! Lui sapeva! Tirai un sospiro di sollievo, ora tutto
era più semplice. Sentii il mo viso riprendere colore e lui
m
guardò con sarcasmo.
“Purosangue! Sarai stata
terrorizzata
più al pensiero di stare da sola con un babbano che
all’idea della punizione che ti attende a casa!”
Tornai a guardarlo bene, quello era proprio un ghigno, un ghigno
ironico che gli attraversava la faccia. Poi rimase di fronte alla
finestra, mi diede le spalle, con la luce che sembrava affinarlo anche
di più, rendendolo ancora più spigoloso.
“Sì, ne ho
già compiuti 11, partirò anche io per Hogwart a
settembre”.
Feci un passo verso di lui. Severus si voltò, sempre con
quel ghigno sul viso.
“Che cosa stavi combinando
dietro a quel cespuglio, con quei fiori?”
Mi accesi di un color rosso pomodoro.
“Nulla”
“Stavi provando a fare magie,
vero?”
Deglutii e abbassai gli occhi.
“Per favore non dirglielo,
già mi punirà per essermi allontanata!”.
“Che cosa pensi ti
faranno?”
“Non lo so, forse non mi
farà
più venire qua con lei, e mio padre mi porterà a
cena dai
suoi odiosi amici, sa che non mi piace andarci…“
Pronunciando quelle parole, una smorfia di disgusto m
attraversò il viso ormai pallido.
“Non sono gravi punizioni, mi
pare che tu non
ti diverta molto a seguire tua madre qui e non credo che sia
così disgustoso andare a cena dai tuoi ricchi
amici.”
“Io mi diverto qui!”
“Davvero? Ti ho visto in giro
per il parco i giorni scorsi, sembravi un animale in
gabbia.“.
E sbottò in una risata senza gioia, mentre riguadagnava il
centro della stanza e m squadrava con superiorità e un
leggero
disprezzo, le braccia incrociate sul petto.
“Sempre meglio qui che a
Malfoy Manor, mi fa venire i brividi!”
Sev non poteva sapere di cosa e di chi stessi parlando, ma fui contenta
di averlo lasciato sbigottito, almeno per qualche istante.
“E la tua amica con i capelli
rossi? È una strega anche lei?”.
Cercai di guadagnare un vantaggio mentre sembrava ancora un
po’ dubbioso. Era odiosamente arrogante.
“La mia amica?”
“Sì, certo, credi
che solo tu abbia osservato me in quel parco?”
Severus notò i pugnetti che serravo sulla stoffa della
gonna,
gli occhi luminosi e pungenti, la voce chiara e decisa mentre un alito
di vento m muoveva un ricciolo di capelli corvini vicino
all’orecchio; lo dissi proprio con
quell’altezzosità
che immaginava dovesse sempre avere una come me.
“Sì, anche lei fa
magie, anche se è nata babbana”.
Una nota di sfida nella voce. Questa volta fu lui a godere del mio
stupore.
“Non so perché,
però è
così. Immagino che per voi purosangue sia un trauma che
anche il
sangue impuro …”.
Non finì la frase, pensava di avermi fatto arrabbiare
abbastanza anche senza concludere.
“Parli come mio padre
….”.
La voce mi tremava, ma non di rabbia, e la cosa lo lasciò
per un
attimo di nuovo spiazzato, forse pensava che avrei attaccato dicendo
che erano menzogne, come immaginava facessero sempre quelli come me, e
invece … era forse rassegnazione quella nota in fondo alla
mia
voce?
“Perché, tu forse
la pensi in modo diverso da lui?”
Si avvicinò di nuovo alla finestra, questa volta non
sembrava
sarcastico e distaccato, ma davvero curioso di cosa potessi
rispondergli.
“Io …. Io non lo
so, non ci ho mai pensato per davvero”.
E mi misi a guardare il parco giochi di là del fiume, con
un’espressione che Sev non riusciva proprio a decifrare. Non
riuscivo a capire nemmeno io.
“Mey, scendi,
andiamo”.
La voce di mia madre ruppe il silenzio sceso tra noi ragazzi, ed io
riguadagnai svogliatamente la porta. Un “In bocca al lupo per
la punizione”
detto con gentilezza mi raggiunse proprio all’ultimo istante,
facendomi sussultare. Non me lo sarei mai aspettato, era stato
così acido con me! Mentre me ne andavo, mi accorsi che
immaginavo con piacere Sev che si girava verso di me, in tempo per
vedere la mia treccia corvina sparire giù per la scala:
probabilmente tutto si sarebbe aspettato, quel giorno, tranne che
Meissa Sherton gli avrebbe fatto visita e gli avrebbe parlato di magia
nella sua stanza.
***
Regulus
Black
Lacock, Wiltshire - dom. 30 maggio 1971
Fin da piccolo mi era sempre piaciuto far visita a zio Cygnus: la casa,
assolutamente maestosa, era immersa in un parco magnifico, scenario
perfetto per interminabili giornate di giochi e risate con mio fratello
e le nostre cugine. Con Meda in particolare. Mi sparì subito
il
sorriso dalla faccia, secondo nostra madre era un delitto verso il
nostro sangue persino pensarla. Mi guardai attorno: era una bella
giornata di fine maggio, le rose dello zio profumavano e abbellivano
con i loro diversi colori ogni angolo, il sole era una calda carezza
sul mio viso. Quel giorno Black Manor, nei dintorni della cittadina di
Lacock, nel Wiltshire, avrebbe ospitato un evento importantissimo: la
mia adorata Bellatrix avrebbe finalmente sposato Rodolphus, il
primogenito ed erede dei nobili Lestrange. Era un momento
importantissimo per i Black, dopo lo scandalo di Andromeda, alcune
malelingue avevano scommesso che i Lestrange si sarebbero tirati
indietro, alcuni dicevano che avrebbero fatto come gli Sherton. Dai
discorsi dei miei genitori, però, avevo scoperto che la
verità era ben diversa: Mirzam Sherton, infatti, non aveva
rifiutato Bellatrix per lo scandalo, lui avrebbe voluto Meda per amore,
non per il nome, perciò non poteva sostituirla con Bella
nella
propria vita. Ora era tutto passato, anche Mirzam si era fidanzato e
aveva annunciato il proprio matrimonio per la fine dell’anno,
quello perciò sarebbe stato un giorno di festa per tutti. E
noi
Black, per l’ennesima volta, saremmo stati invidiati da
tutti,
tutti ci avrebbero guardati sognando, invano, di poter essere come noi.
Ero soddisfatto di questo, soddisfatto di me, soddisfatto di essere un
Black: il mondo intero non poteva fare a meno di girarsi per ammirarci,
quando entravamo in una stanza.
Calciai un sasso sul vialetto e seguii le risate di Barty Crouch jr. e
mio cugino Jimmy Rosier, che si rincorrevano nel prato. Mio fratello
come sempre mi aveva lasciato solo non appena eravamo arrivati; non
avevo idea di dove fosse, ma di sicuro stava facendo qualche danno: da
quando aveva quella dannata bacchetta - che ancora non poteva nemmeno
sfiorare, a dire il vero - non faceva altro che combinare disastri e,
dopo la miracolosa tregua invernale, era tornato a passare la maggior
parte del suo tempo libero in punizione nel sottotetto. Mi avviai
annoiato verso casa, al contrario di Sirius, a me piaceva anche restare
dentro, per ammirare e magari toccare gli oggetti strani e misteriosi
che occhieggiavano qua e là, come falsi soprammobili, un
po’ ovunque: quello era, in realtà,
l’unico modo per
me di finire nei guai, lasciarmi attirare da uno dei tanti pericolosi
giocattoli dello zio. Nostra madre ci aveva preceduti nel Wiltshire da
un paio di giorni, per aiutare suo fratello e sua cognata nei
preparativi, io e Sir eravamo arrivati con nostro padre solo quel
mattino. Zio Cygnus aveva subito attirato papà e gli altri
ospiti in discorsi d’affari, sembravano tutti alquanto
entusiasti
per qualcosa ma ancora non ero riuscito a capire cosa fosse. Inoltre
sapevo di dovermi tenere alla larga dalla mamma, perché le
donne
di famiglia erano ancora impegnate con mia cugina e nella sistemazione
degli ultimi dettagli, per impedire che Bella avesse una delle sue
proverbiali crisi di nervi. Però magari, se avessi promesso
di
fare il bravo come mio solito, forse nessuna di loro avrebbe avuto il
coraggio di cacciarmi, così mi decisi a entrare. In
realtà quel giorno ero un po’ triste: se anche
Bella
usciva dalla mia vita per sposare il suo fidanzato, per me si
prospettava un lungo anno di solitudine, con Sirius e Cissa e la
maggior parte dei miei amici a Hogwarts, erano pochi, infatti, i
ragazzini della mia età o più piccoli che ero
solito
frequentare.
In casa assistetti alla classica scenata di mia madre contro un paio d
elfi, rei di non aver sistemato un centrotavola a dovere. Scivolai
rapido su per le scale, avendo cura di non farmi notare, attratto da
quella che sembrava la voce di Cissa, che riecheggiava al piano di
sopra: non la vedevo da Natale e avevo voglia di abbracciarla, di farmi
abbracciare, di assicurarmi che almeno lei non sarebbe sparita dalla
mia vita, non erano stati mesi facili a Grimmauld Place, dopo la storia
di Meda e mio fratello non era esattamente la persona più
indicata per farsi consolare. A pensarci, però, era strano,
Narcissa doveva essere a scuola, tanto più che quello per
lei
era l’anno dei G.U.F.O. Avanzai lungo il corridoio, ovunque i
ritratti dei miei parenti mi osservavano arcigni e come sempre ostili,
chissà perché poi, ma io ero sereno e felice,
perché quello che avevo sentito erano indubbiamente la voce
e la
risata di mia cugina, provenienti dalla stanza di Bellatrix. Bussai e
intanto mi specchiai in uno dei duecento specchi distribuiti lungo il
corridoio, sistemandomi i capelli di nuovo troppo lunghi, in modo da
lasciar scoperti i caratteristici occhi di famiglia. Appena la porta si
aprì mi sembrò di essere al cospetto di angelo:
Narcissa
Black, bionda, alta e armoniosa, con due occhi azzurri come il mare,
era sempre dolcissima con me. Mi rivolse subito il suo meraviglioso
sorriso ed io mi tuffai tra le sue braccia, facendo attenzione a non
pestarle il magnifico abito pervinca che aveva già indossato
per
la cerimonia.
“Regulus! Finalmente! Siete
arrivati adesso?”
“Sì, con
papà ci siamo materializzati da circa una
mezzoretta…”
“Cissa, fallo
entrare!”
Bellatrix era seduta, circondata da tre elfe affaccendate, aveva una
lunga veste bianca di pizzo, semplice e lineare, attillato, a esaltarne
la figura esile e perfetta, sopra quell’abito cerimoniale,
che
teoricamente avrebbe dovuto vedere solo il suo sposo alla fine della
giornata, una volta che fossero stati
nell’intimità della
loro casa, sarebbe andata la veste matrimoniale, verde slytherins,
costituito da un corpetto riccamente decorato, che scendeva poi in un
suntuoso tripudio di stoffe, veli e pizzi. Stavano finendo di
acconciarle i capelli, lunghi, lisci e neri, annodandoli con nastri e
fiori.
“Salazar, sei
bellissima!”
Era una visione per gli occhi, mi sarei voluto mettere a piangere,
attaccandomi alle sue gonne per farle giurare che non sarebbe andata di
sotto, che non avrebbe sposato quell’odioso pallone gonfiato,
un
inetto che non meritava nemmeno di farsi calpestare da lei!
“Hai perso la
lingua?”
Mi sentii le guance in fiamme e mi guardai subito le scarpe, Bella
rise, di quella sua risata strana, che spaventava quasi tutti, ma che,
non sapevo il perché, nel mio cuore infiammava sempre un
senso
di felicità e appagamento. Quando sorrideva, era stupenda e
pericolosa, la sua era una bellezza molto diversa da quella di Cissa:
se Narcissa Black era la dimostrazione dell’esistenza del
paradiso, Bella era il motivo per cui valeva la pena dannarsi per
l’eternità, vendersi persino l’anima.
Sapevo bene,
già allora, che era una creatura pericolosa, venefica, ma
assolutamente e inevitabilmente indispensabile, pena la disperazione
eterna. Riuscivo a capire benissimo perché Rodolphus
Lestrange,
dopo essere riuscito a legarla a sé con il fidanzamento,
fosse
improvvisamente diventato un uomo felice. E quel giorno sarebbe
diventato, ai miei occhi, l’uomo più fortunato
della terra.
“Sirius che fine ha fatto? Non
si sarà fatto mettere in punizione anche oggi!”
“No, no, è qui, da
qualche parte,
però è sparito appena siamo
arrivati…”
“Quell’idiota!
Crescerà mai?
Dammi retta, Cissa, quello là troverà il modo di
farsi
diseredare come la sua adorata Meda, prima dei
vent’anni!”
“Bella!”
“E non fare il tuo faccino
scandalizzato,
Cissa! Tu non c’eri: dovevi vederlo, frignava come una
ragazzina
per quella sciocca… Che vergogna! Io non so che
cos’ha… per fortuna c’è
Regulus…”
Divenni rosso peperone.
“…
perché se il futuro dei Black
dipendesse solo da quello là, allora saremmo messi davvero
male…”
“Lascia perdere nostro cugino
Bella, è
solo un ragazzino, ne ha di tempo per crescere, ancora… Tu
invece non ne hai quasi più, tra meno di un’ora
s’inizia, quindi sbrigati a prepararti!”
Cissa mi prese per mano ed io mi feci guidare, docile, fino nella sua
stanza, mi misi seduto sul suo letto, odorava di lei, tutto profumava
di fiori come lei, là dentro. Controllò di nuovo
la sua
figura allo specchio, riaggiustò un ricciolo che sembrava
ribellarsi all’acconciatura e intanto mi osservava divertita
attraverso lo specchio, mentre io prendevo una delle sue bambole dal
comò e mi perdevo a osservarla.
“Non ti sarai messo a giocare
con le bambole!”
Mi sorrise ancora più divertita ed io mollai il pupazzo
all’istante: ero color fuoco. Cercai di fare il sostenuto e
di
iniziare discorsi importanti, suscitando ancora di più il
suo
sorriso.
“Avevo paura che non c fossi,
oggi, che non
avresti potuto lasciare la scuola, anche se solo per un
giorno.”
“Oh no…. Il preside
è stato
informato per tempo e ci ha accordato un giorno di permesso. Si rendono
conto anche loro che è un evento davvero
importante…”
“Ci ha accordato?”
“Sì, oggi ci
sarà anche il
fratello di Rodolphus, Rabastan, è potuto tornare a casa
anche
lui per il matrimonio.”
“Ah…credevo…”
“Credevi?”
La guardai vergognoso, e quasi soffiavi le parole tutte attaccate.
“ChefossivenutaacasaconMalfoy…”
Cissa diventò rossa più di me ed io, se
possibile,
peggiorai ulteriormente, abbassai gli occhi a guardarmi nuovamente le
scarpe, mentre lei, un po’ a disagio, tornava di nuovo a
sistemarsi la stessa ciocca di capelli dorati.
“No, Malfoy è
rimasto a scuola, non ha
motivi ufficiali per farsi rilasciare un permesso di questo genere,
lui.”
“Ma un giorno ti fidanzerai
con Lucius, vero?”
Cissa mi guardò di nuovo attraverso lo specchio, era ancora
un
po’ rossa di vergogna, ma il suo era lo sguardo fiero dei
Black.
Mia cugina, con me, era solita mostrarsi per quello che era davvero,
una giovane donna ben consapevole del proprio valore e di quello che
desiderava nella vita; con me difficilmente interpretava il ruolo che
rifilava a tutti, quello della ragazzina infantile e civettuola, spesso
un po’ svagata, che faceva credere a tutti quanti di trovarsi
di
fronte una persona molto più debole e ingenua di quanto in
realtà fosse.
“Un
giorno…forse… Se
smetterà di comportarsi da sciocco e dimostrerà
di
meritarmi ...”
Tirai un sospiro di sollievo, almeno lei, ancora per un po’,
non me l’avrebbero portata via!
“Ora andiamo, la cerimonia si
terrà tra
poco, dobbiamo ricevere anche noi qualche ospite. Ti va di farmi da
cavaliere?”
“E me lo chiedi?”
Mi alzai di scatto e mi avvicinai a lei, alla toilette, mi sistemai di
nuovo la cravatta e i capelli, con le dita, Cissa allora prese la sua
spazzola e mi pettinò, mi sistemò il colletto
della
camicia e spianò per bene la mia giacca.
“Sei proprio un bel ragazzo
Reg, sei proprio un Black, perfetto!”
Mi stampò un bacio sulla fronte e alzandosi mi prese per
mano.
La seguii felice ma ero anche un po’ turbato, ripensando alle
parole di Bella e poi alle sue. C’erano giorni in cui non
sopportavo Sirius, c’erano validi motivi per cui gli avrei
volentieri rotto il naso, ma quello che aveva detto Bella era
terribile; peggio ancora, se si fosse avverato, se Sirius fosse stato
davvero tanto pazzo da farsi buttare fuori dalla famiglia, mi rendevo
conto che per quanto io avessi fatto per renderla felice, mia madre
sarebbe morta dal dolore e dalla vergogna. Per altro non riuscivo a
immaginarmi mio fratello con una babbana, no, quello era
l’unico
modo per farsi diseredare dai miei, e Sirius non poteva essere tanto
scemo da fare una cavolata del genere!
“Che cos’hai, Reg?
Sei diventato tanto silenzioso!”
“Ripensavo alle parole di
Bella, io non voglio che Sirius…”
“Lasciala perdere, Bella non
diceva sul serio, è solo agitata per la
cerimonia…”
“Sicura?”
“Ma certo cucciolo mio, poi lo
sai, non
è mai stata contenta che Sirius le preferisse Meda,
è per
questo che bisticciano sempre quei due… ma ti assicuro che
gli
vuole bene, forse non tanto quanto ne vuole a te…”
Si fermò e mi accarezzò di nuovo il viso, ed io
le baciai la mano delicata.
“… e poi stai
tranquillo, tua madre non
permetterà mai a tuo fratello di mettersi davvero nei guai,
la
conosci… e Sirius… non è cattivo,
né pazzo,
è solo un ragazzino vivace, ma vedrai, appena
entrerà a
Serpeverde, gli sarà subito ben chiaro chi è e
cosa deve
fare della sua vita per essere davvero felice…”
Ero ancora un po’ turbato, ma mi fidavo di lei; avanzai al
fianco
di Cissa fino a raggiungere zio Cygnus e salutare con lei gli ospiti.
C’erano davvero tutti: i nostri parenti, i parenti dei
Lestrange,
alcuni provenienti persino dalla Francia, gli amici di zio Cygnus e di
mio padre, gli amici dei Lestrange. Notai Malfoy e tirai un sospiro di
sollievo quando vidi che Lucius davvero non aveva ricevuto lo stesso
permesso di Cissa: l’austero mago ci salutò
appena,
puntando direttamente verso Lestrange senior, sembrava avessero affari
importanti da discutere, in privato. Vidi poi gli Avery e i Crouch, i
Parkinson e i Zabini; allarmato mi chiesi se per caso gli Sherton non
sarebbero venuti: mia madre diceva sempre che il signor Sherton non
poteva vedersi con il padre di Rodolphus, ma non potevo credere che per
questo motivo avrebbe mancato di rispetto a mio zio, non presentandosi
al matrimonio di sua figlia.
“Cerchi qualcuno
Reg?”
Cissa mi guardava ammiccante, di certo conosceva già la mia
risposta. Io divenni rosso: potevo dire di cercare mio fratello, ma era
evidente a tutti che di solito non ne sentivo la mancanza,
così
m’impappinai, strappandole infine una risata giocosa.
“Non cercherai Meissa Sherton,
vero?”
Non finì nemmeno la frase che ero già di un
violento
rosso porpora, le mani sudate e avevo serie difficoltà a
respirare: i suoi magnifici occhi azzurri sembravano analizzarmi come
fosse un legilimens, mi sentivo nudo e indifeso davanti a lei.
“Allora mamma ha ragione: zia
Walby sta
facendo il diavolo a quattro perché vuole accaparrarsela per
te!
E a quanto pare, se ci riuscisse, ti farebbe davvero felice!”
“A me non interessa!”
Cercai di mostrarmi fiero e determinato, ma la voce mi uscì
squittendo, facendomi sprofondare in un baratro di vergogna.
“Sì, lo vedo in
questo preciso istante…”
Rise ancora, lasciandomi indietro come un idiota.
“Guarda i tuoi amici sono
già con tuo padre e tuo fratello…”
Mi riconsegnò a mio padre, poi tornò da Bella,
prima che
facesse una strage di elfi, scomparendo in una nuvola vaporosa di ricci
dorati e profumo di fiori delicati.
***
Meissa
Sherton
Lacock, Wiltshire - dom. 30 maggio 1971
Avevo sempre pensato che mio padre e i miei fratelli fossero gli uomini
più belli del mondo, ma quel giorno non potei fare a meno di
ammettere quanto Rodolphus Lestrange fosse affascinante, di una
bellezza meno perfetta, vero, di sicuro diversa, ma era comunque molto
attraente, di certo al livello di Orion Black quando aveva la sua
età. Sapevo bene che era amico di mio fratello, ma non ci
frequentava quasi per niente, vederlo così in sintonia con
Mirzam mi fece capire che esisteva tutto un mondo tanto vicino a me, ma
di cui io non sapevo praticamente nulla. Quel giorno mi resi conto
anche che Rodolphus non era poi tanto più grande, le rare
volte
che l’avevo intravisto, forse a causa dell’aria un
po’ burbera, mi era sempre sembrato molto più
vecchio, ma
ora, grazie alla felicità sincera che lo pervadeva, si
vedeva
benissimo che aveva solo tre o quattro anni più di Mir. Era
alto, senza esagerazione, forte e ben piantato, senza essere grasso,
aveva i capelli bruni, gli occhi simili a ossidiana blu, i tratti
decisi e ben scolpiti. Si diceva che la loro famiglia fosse di origini
francesi, ma mio padre sosteneva che i Lestrange erano sempre stati
gente del Norfolk e infestavano le isole britanniche come
un’erba
cattiva fin dalla notte dei tempi. E se lo diceva mio padre,
c’era da crederci.
Prima del banchetto gli adulti chiacchierarono a lungo, io come tutti
gli altri ragazzini, decisi di godere della magnifica giornata di sole
giocando nel parco. Mi sarebbe piaciuto parlare con Sirius, ma
com’era già accaduto a Habarcat, sembrava far
finta che
non esistessi, appena arrivati ci aveva salutato, poi era sparito,
mentre suo fratello Regulus non si era visto affatto. Morale, mi stavo
annoiando a morte, perciò approfittai della momentanea
scarsa
attenzione di mia madre e mi allontanai, sapevo dai racconti di Sirius
che Cissa aveva un gatto e chiaramente quel giorno non
l’avrebbero tenuto in casa: non mi fu difficile trovarlo,
girovagando per i cortili interni al maniero, e mi fermai in un
chiostro a giocare con lui in attesa della cerimonia. Dopo la
disavventura di Spinner’s End, ero stata in punizione, cosa
rara
per me: mio padre mi aveva proibito le sue stanze, quindi niente musica
per due settimane. Pur sapendo che mi sarei salvata, non avevo detto la
verità, non volevo turbare la mamma, preferivo stare in
punizione che vederla preoccupata. Ma con mio padre era diverso: mio
fratello diceva che papà era il miglior legilimens della sua
generazione, ma che non praticava la sua arte nei nostri confronti,
perché aveva metodi altrettanto infallibili per strapparci
la
verità, senza doverci far del male o violare le nostre
menti. In
quei giorni avevo scoperto che era il suo sguardo deluso
l’arma
che poteva usare contro di noi: non avevo detto nulla, eppure avevo la
certezza che sapesse la verità.
Anche quel giorno, a Lacock, era particolarmente nervoso:
l’avevo
sentito lamentarsi di qualcosa con Orion Black, gli aveva detto che non
gliel’avrebbe perdonata, che se avesse saputo che
c’era
anche Lui, lì quel giorno, non avrebbe portato me e la
mamma.
Non l’avevo mai visto così arrabbiato e Orion
aveva fatto
davvero fatica a difendersi, dicendo che non lo sapeva neppure lui, che
la lista completa degli ospiti di Lestrange era stata un mistero fino a
quella mattina. Mio padre aveva sbuffato qualcosa in gaelico e gli
aveva intimato di sbrigarsi a fare quello che gli aveva chiesto, che
c’era tempo fino ad agosto, o non se ne sarebbe fatto
più
nulla, non avrebbe più rispettato il patto. Ero triste e
preoccupata: non avevo mai visto mio padre arrabbiato con Orion
né Black così spaventato, non volevo che la loro
amicizia
finisse, perché sarebbe stata la fine anche della mia
amicizia
con Sirius e Regulus. Non sarebbero più venuti da noi per
l’estate…
“Gli Sherton e i gatti!
Dovrebbero scriverci un trattato…”
Ero seduta su una panchina, con Basquiat, il gatto tigrato di Narcissa
Black che mi faceva il panettiere sulle ginocchia, nel luogo del
maniero forse meno visibile rispetto a dove si teneva il ricevimento.
Alzai gli occhi: un giovane sui quindici anni stava appoggiato a una
delle colonnine di pietra del chiostro millenario, una buffa smorfia
sul viso dovuta al sole che gli si specchiava in faccia, la camicia
fuori dai pantaloni per metà, la cravatta slytherin sciolta
e la
giacca sulle spalle, ribelli riccioli castano scuro a incorniciargli un
viso d’angelo, illuminato da due occhi di ossidiana blu,
dall’espressione tutt’altro che serafica. Sembrava
reduce
da una corsa o da qualche altra attività animata
all’aperto, di certo non sembrava pronto per una cerimonia
così importante. Lo guardai ostile, odiavo quando qualcuno
mi
coglieva alla sprovvista, quando qualcuno mi metteva in
difficoltà, come stava facendo quel tizio, che sembrava
conoscermi, mentre io non avevo idea di chi fosse.
“E tu saresti?”
I miei fratelli mi avevano insegnato ad attaccare sempre per prima
quando il mio avversario non meritava un comportamento cerimonioso da
parte mia, e quello era evidentemente la situazione adatta,
perché quell’idiota era stato tanto scortese da
spaventarmi e non presentarsi.
“Rabastan Lestrange per
servirla, madamigella Sherton…”
Un inchino cerimonioso seguito da una risata beffarda semi soffocata:
lo guardai meglio, vagamente disgustata, era evidentemente fuori di
sé, come quei meschini babbani dei racconti di mio padre,
quando
eccedevano nel consumo di alcool e avanzavano barcollanti per le
strade. In effetti, non poteva che essere il fratello di Rodolphus
Lestrange, per l’esattezza la versione più giovane
di
circa dieci anni dell’ uomo che avevo ammirato al mio arrivo.
Quest’individuo, però, al contrario del fratello,
aveva
qualcosa di selvaggio e ribelle in sé, qualcosa che urlava “non fidatevi di
me”.
“Ero proprio curioso, e a
Natale mi eri
sfuggita, non mi andava di aspettare fino a settembre per scoprire come
fossi!”
Lo guardai sbalordita, quindi stava dicendo che mi aveva proprio
cercato, che non era lì per caso. Il livello della mia
inquietudine si alzò ulteriormente.
“Io non sono sfuggita a
nessuno. E ora, con permesso…”
“Ti posso riaccompagnare dagli
altri, se
vuoi… così capisco se sei come dice tuo
fratello…”
“No grazie, dubito che Mirzam
abbia parlato di
me con chicchessia… senza dirmelo, poi…”
“No, parlavo di
Rigel… siamo compagni di Quidditch a serpe
verde…”
Feci una faccia ancora più disgustata, se era stato Rigel si
spiegavano tante cose, tra idioti, in effetti, non poteva essere nata
altro che complicità… Rabastan si ricompose, si
passò la mano tra i capelli e mi guardò con fare
serio,
io restavo guardinga sulla panchina, valutando quale fosse la migliore
via di fuga. Era bene essere pronti a tutto.
“Devo averti spaventata.
Scusa… non
volevo… è che sto talmente tanto con tuo fratello
che mi
sembra di conoscerti…”
“Io non ti conosco e non
m’interessa
conoscerti, anzi, mi hai già stancata! E per chiarire, io
non ho
paura di nessuno… Lestrange!”
Lasciai andare il gatto di Narcissa, mi alzai, guardandolo con sguardo
fermo, lui mi rimandava un’occhiataccia divertita; feci finta
di
non aver paura passandogli vicino: non aveva fatto nulla di strano, era
solo uno sciocco, ma qualcosa in lui mi metteva sinceramente i brividi.
“Anche
sull’ostilità tra Sherton
e Lestrange dovrebbero scriverci un trattato, eppure i tuoi fratelli
sono la dimostrazione che non siamo poi così cattivi, visto
che
sono i nostri migliori amici.”
“Dei miei fratelli,
forse… Ma non i miei…”
Lo fulminai come per dirgli “Togliti
dai piedi, idiota!”,
alzò le mani e mi lasciò passare: ero abituata ai
ragazzi
idioti, ma mi ero sempre illusa che, a parte mio fratello Rigel, che
era un cretino integrale, crescendo migliorassero… poi
pensai a
Lucius Malfoy e mi fu chiaro quanto la mia fosse solo una pia
illusione. Uscii dal chiostro, avanzai per i corridoi senza aver troppa
cura di dove stessi davvero andando e quando mi fu più che
evidente che non mi stesse seguendo, mi misi a correre per tornare
prima possibile dai miei familiari: no, non dovevo più
farlo,
non potevo allontanarmi da sola, non in giornate come quella, in cui
c’erano tante persone che non conoscevo, in una casa che non
avevo visto mai. Non volevo ammetterlo nemmeno con me stessa, ma
quell’essere, viscido, mi aveva fatto gelare il sangue come
l’uomo mascherato delle mie visioni. Mi ero persa nei miei
pensieri e in quei corridoi: camminavo incerta, credevo di essere ormai
fuori e invece mi si aprì un nuovo chiostro davanti, per un
attimo ebbi paura che stessi perdendo di nuovo il contatto con la
realtà come a Spinner’s End, avevo paura di
riconoscere in
quel chiostro il giardino dei miei incubi, iniziai a sudare freddo, non
sapevo più da che parte dovevo andare. Tornai indietro,
ripercorrendo un lungo corridoio con i famigerati ritratti dei Black
appesi un po’ ovunque, il soffitto fatto a volta a botte, con
la
pietra tessuta a spina di pesce; girai a sinistra e finalmente,
attraverso le colonnine tortili che decoravano la finestra, vidi il
giardino allestito per la festa. Sorrisi: che sciocca ero stata!
Ripresi a correre radente il muro, felice: c’era anche Sirius
con
mia madre e mio fratello, mio padre di sicuro stava con Orion da
qualche parte a parlare d’affari. Non notai perciò
la
porta che si apriva d colpo, la centrai in pieno, finendo a terra,
tramortita.
“Salazar! Si è
fatto male Milord?
“No Malfoy, stai
tranquillo… non si può dire lo stesso di lei
invece…”
Sentii una leggera risata agghiacciante, poi una mano gelida come la
morte mi afferrò per il braccio, aprii appena gli occhi e mi
trovai a specchiarmi in uno sguardo strano, simile a quello di un
serpente: sapevo di conoscerlo, ma non capivo, avevo la testa confusa,
mi resi conto chiaramente solo che qualcosa nel mio stomaco si stava
muovendo, come con mio padre a Herrengton, sulla spiaggia.
“Merlino, è la
figlia di Sherton, non è morta, vero?”
“No, Abraxas, tranquillizzati,
ha solo battuto la testa.”
Staccai con difficoltà i miei occhi da quelli strani,
allungati,
affascinanti che sembravano leggermi l’anima e li rivolsi
all’altra figura, imponente, di nero vestita, tanto bionda da
sembrare una mattina nordica.
“Zio...”
“Salazar ti ringrazio, mi ha
riconosciuto!”
Lo zio e l’uomo dalla mano gelida mi aiutarono a rialzarmi,
mi
sembrava che tutto girasse e soprattutto continuavo a sentire quella
strana voce sibilante che m diceva cose strane in testa. Lo guardai di
nuovo: era completamente glabro, pallido, con quegli inquietanti occhi
allungati da serpente, gli stessi lineamenti erano simili a quelli di
un rettile, era magro, quasi scheletrico, eppure emanava una forza e la
sensazione di un potere straordinario, era vestito con un lungo
mantello nero, che lo avvolgeva completamente, il capo coperto da un
cappuccio. Ero certa che lui capisse che lo stavo ascoltando, anche se
le sue labbra, così sottili da sembrare inesistenti, non si
muovevano, lesse la mia paura nei miei occhi quando ripeté
più volte
“… ho un messaggio per tuo
padre…”
Mi stringeva la mano, mi sentii priva di forza, anche se ci provavo,
non riuscivo a staccarla dalla sua, guardai Abraxas, quasi per chiedere
aiuto, ma sembrava non rendersi conto di quello che mi stava accadendo,
lo zio anzi mi parlava, ma io non capivo cosa dicesse, nella testa
rimbombava solo quella voce fatta di pensieri e non di aria,
sibilante…
“… Mi
incontrerai tre volte, tre occasioni avrai e alla terza
morirai…
se tuo padre …”
“Meissa!”
Il contatto s’interruppe, la voce di mio padre pervase
l’aria ed io tornai a respirare, uscii da quella strana bolla
incorporea e senza tempo in cui mi ero ritrovata prigioniera, mi
staccai da quella presa, trovandola docile e subito lo raggiunsi
correndo felice verso di lui.
“Che cosa le stavate
facendo?”
“Alshain, era
caduta… Milord la stava
aiutando a rialzarsi quando sei apparso anche tu…”
“Va tutto bene Meissa? Ti fa
male qualcosa?
“No padre…
io… devo essere
scivolata a terra, o essere finita contro la porta mentre la stavano
aprendo, stavo correndo da voi, avevo… mi sono resa conto
che
era tardi…”
Mio padre mi strinse la mano e m’impose di precederlo, dando
rapidamente le spalle a quei due, senza rivolgergli più
nemmeno
una parola.
“Alshain aspetta, dovremmo
parlarti…”
Abraxas si mosse rapido fino a raggiungerci, pose la mano
sull’avambraccio di mio padre, scoprendo appena la pelle del
suo
braccio sinistro, nascosto come sempre tra pizzi e merletti: percepii
qualcosa di nero che macchiava come inchiostro la sua pelle candida, ma
non capii cosa fosse, ero però certa che non si trattasse di
una
runa simile a quelle della nostra famiglia. Mio padre guardò
quella cosa che appariva tra i pizzi e puntò uno sguardo
disgustato negli occhi chiari come laghi di montagna di Abraxas Malfoy.
“Non ora, Malfoy, non
qui… non con Dei o la bambina in giro…
è chiaro?”
“Sì, scusa
… Hai ragione…”
“E prega che non ci siano
conseguenze, cugino, o tu sarai il primo a pagare”
Questo lo disse a voce ancora più bassa, con tono tagliente
che
raramente gli avevo sentito, mi si gelò il sangue come
quando,
per la prima volta, l’avevo sentito parlare in serpentese. Ci
allontanammo, lasciandoci Abraxas e il suo strano compagno alle spalle.
“Padre… Chi era
quell’uomo?”
“Zitta e muoviti…
faremo i conti a
casa, Meissa… Non è certo così che ti
ho educata,
andare in giro per le case altrui a impicciarti degli affari che non ti
riguardano!”
“Ma
padre….”
“Non so cosa ti passa per la
testa, ragazzina,
ma è ora che impari un po’ di disciplina! Io e tua
madre
non ti abbiamo certo insegnato a comportarti in modo da farci sparlare
dietro!”
“Ma cosa…”
“Cosa diavolo facevi con
Rabastan Lestrange da sola qui in casa?”
Era furibondo, mai l’avevo visto così arrabbiato
con me.
“Ero in uno dei chiostri
interni, giocavo col
gatto di Narcissa e… è apparso quel tizio, io
l’ho
lasciato indietro per tornare da voi, poi… devo essermi
persa…”
“Stai alla larga da quel
ragazzo, intesi? E non mi riferisco solo a oggi….”
“Ma…”
“Meissa, non sto
scherzando… non voglio
che tu gli parli ancora, mai più… è
chiaro? E guai
a te se ti allontani di nuovo da me o da tua madre!”
Mi strattonò malamente fin dalla mamma, alla quale mi
affidò dicendole qualcosa all’orecchio, lei mi
fulminò severa, poi entrambi guardarono
all’indirizzo del
giovane Lestrange con fare poco amichevole. Per il resto della giornata
mi sembrò di stare in prigione, anche Orion prese
bonariamente
in giro mio padre, dandogli della chioccia e papà lo
fulminò con un’occhiataccia. Dopo un po’
tutti si
sistemarono ai propri posti, l’orchestra iniziò a
suonare
una musica molto bella, Rodolphus attendeva all’altare con
accanto mio fratello a fargli da testimone, in una bella veste
tradizionale verde, riccamente decorata con motivi slytherin in
argento, una fascia di seta alla vita, una camicia di seta barocca, la
barba tagliata più corta del solito, i capelli mossi lunghi
fino
al collo, le mani cariche di anelli. Aspettava la sua sposa radioso,
sotto gli occhi compiaciuti di suo padre e sua madre, e quando
finalmente Bella fece il suo ingresso, coperta da un velo di pizzo
antico, con la sorella che sembrava un angelo a tenerle lo strascico,
tutti persero letteralmente la parola. Il giardino era stato decorato
con archi d’argento che sorreggevano fiori e puttini dorati
che
tiravano petali al passaggio di ospiti e sposi, noi tutti eravamo
seduti su panche abbelliti da bouquet di rose, provenienti di certo
dalle coltivazioni di Cygnus Black, a tutti noto per la sua passione
per quel tipo di fiori. Il celebrante era vestito con una ricca veste
cerimoniale dorata e un buffo copricapo a tre punte, che risultava
ancora più ridicolo se abbinato a quegli strani occhialetti
che
portava sul naso: quell’immagine mi distolse dal pensiero di
quello strano uomo col mantello e dalle parole che avevo sentito nella
mia testa. Di certo me l’ero solo immaginate.
Furono recitate le frasi che da un millennio sancivano i patti
matrimoniali nel mondo magico, tra le famiglie purosangue in
particolare, Bella s’impegnava al rispetto del suo sposo,
Rodolphus si faceva carico della sua sicurezza e felicità.
Si
scambiarono gli anelli, Bella sembrava decisamente più
sicura e
determinata, Rodolphus si fece sopraffare dall’emozione,
quando
le prese la mano ed ebbe un attimo di esitazione
nell’infilarle
l’anello. Quando finalmente il celebrante formulò
l’ultima frase con cui si annunciava
l’indissolubilità di quell’unione,
l'abbracciò con passione, sollevandola quasi da terra e le
diede
un bacio lunghissimo, al punto che mi chiesi se non volesse per caso
asfissiarla e ucciderla all’istante. Distolsi lo sguardo,
disgustata, io non avrei mai permesso a Sirius di farmi una cosa del
genere… Divenni rossa all’istante, era assurdo che
io
pensassi a quel dannato damerino inglese in quei termini, che io mi
immaginassi di … Cercai di far sparire il rossore dalla mia
faccia, risollevai il viso, mi guardai attorno, e subito diventai di
nuovo rosso fuoco quando mi accorsi dello sguardo di Rabastan Lestrange
fisso e canzonatorio su di me.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, hanno aggiunto a preferiti/seguiti/ecc,
hanno recensito e/o hanno proposto/votato questa FF per il concorso sui
migliori personaggi originali indetto da Erika di EFP (maggio 2010).
Valeria
Scheda
Immagine: non
sono ancora risalita alla fonte di quest'immagine
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