The Fault in Our Stars

di hurrem
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ONE-SHOT vomitata in mezz’oretta e figlia di un attacco di insonnia. Sono sempre viva come potete constatare, solo un po’ impegnata. Gli aggiornamenti delle due long arriveranno prima o poi (abbiate fede!).

Questa breve scenetta tratta della fine di un amore e dell’inizio di un altro. Non mi è mai piaciuto immaginare la fine di una storia come quella tra Bulma e Yamcha come un momento drammatico (diciamo che preferisco i sapori agro-dolci!). Ma allo stesso tempo non potevo lasciare fuori Vegeta e spero che vi piaccia il modo in cui a poco a poco i destini di Bulma e del sayan cominciano a intrecciarsi in questa storia.

Fatemi sapere cosa ne pensate, mi fareste felici.

 

 

 

THE FAULT IN OUR STARS

 

 

 

Era una sera calda e limpida. Bulma sapeva che stava per succedere e ne ebbe la certezza quando Yamcha mise piede sulla terrazza e si accomodò sullo sdraio accanto al suo.

Anche l’aria attorno a loro aveva un non so che di definitivo.

“È finita, vero?”

Bulma si passò una mano tra i capelli folti, sospirando. E così, dopo settimane di battibecchi, silenzi e insofferenza, pareva che fossero giunti al momento fatidico con serena rassegnazione. Tutto quello che era stato nei mesi precedenti, negli anni addirittura, appariva sotto una luce nuova: Bulma vedeva se e stessa e lui come i protagonisti di una storia che l’avevano accompagnata per così tanto tempo, che aveva finito per affezionarsi a loro e, dopo aver accettato il sopraggiungere burrascoso degli ultimi capitoli, si era accorta di aver perso rancore, rabbia e tristezza per conservare solo un sentimento di tenera nostalgia.

“Sì, è finita.”, disse, portando alle labbra la bottiglia di birra fresca, con cui aveva giocherellato fino ad un istante prima.

Yamcha incrociò le braccia dietro la testa e con un profondo respiro si accomodò meglio sullo sdraio.

Entrambi avevano lo sguardo rivolto alle stelle. Chissà quante tra loro avevano già cessato di esistere. E se davvero erano già morte, la loro luce, che ancora raggiungeva la Terra, si era spenta a poco a poco come l’amore tra di loro o era scomparsa in un secondo ingoiata dall’immensità dell’universo?

“Mi dispiace, Bulma. Non volevo farti del male.”, disse il ragazzo, ammettendo per la prima volta le sue colpe. Le volte in cui aveva confessato di avere avuto altre donne, aveva sempre scaricato su di lei la responsibilità delle sue azioni, perciò, nel momento della resa dei conti, sentiva di doverle quelle scuse.

“Lo so, Yamcha.”

Nel momento in cui aveva ammesso a se stessa di non amarlo più, era tutto cambiato. Ora riusciva a vedere con occhi estranei quanto di buono e di cattivo ci fosse stato nella loro storia, e stranamente tutto il cattivo non aveva più nessuna importanza.

Ricordava con un moto di tenerezza il primo incontro con quel ragazzo dai capelli lunghi e l’aria un po’ selvaggia. Pensava con affetto al primo bacio che si erano dati, in mezzo al deserto: era la prima volta che Bulma provava il contatto con le labbra di un uomo e la prima volta che aveva inspirato forte l’odore di Yamcha. Un odore che sarebbe stato la sua casa per molti anni. Il giorno in cui lui le aveva detto di amarla era ancora uno dei giorni più belli della sua vita… persino adesso, che quell’amore non c’era più, il ricordo le riscaldava il cuore.

Perciò sì; sapeva che Yamcha non aveva mai avuto intenzione di farla soffrire. E anche se non poteva cancellare anni di scappatelle con delle scuse dell’ultimo minuto, per Bulma non era più rilevante.

“Quando sei entrata nella mia vita, non riuscivo nemmeno a guardare in faccia una ragazza, te lo ricordi?”, disse il giovane.

“Devo dire che ne hai fatta di strada da allora, no?”, ribatté lei ironicamente, voltandosi verso di lui.

Yamcha sorrise. Sapeva che ormai lei non aveva più nessun bisogno di insultarlo. Entrambi volevano solo godersi quegli ultimi attimi di intimità emotiva, rievocando i ricordi più piacevoli della loro vita insieme.

“Intendo dire che ci tengo a te. E sarà così, per sempre.”

Bulma lo sapeva. E non aveva più nessun senso arrabbiarsi perché il destino aveva traformato quello che doveva essere un amore da favola, in un’amicizia fraterna.

“Dimmi la verità…”, chiese la donna appoggiando il suo peso su un gomito e voltandosi completamente verso di lui.

“Cosa non ti è bastato di me?”

Yamcha la guardò e forse sentiva già una fitta di nostalgia al pensiero che non avrebbe più potuto baciare quelle labbra stupende, né si sarebbe più svegliato con la rassicurante sensazione di avere quella donna bellissima appoggiata sul petto.

“Non te lo so dire, Bulma. Forse era troppo frustante il fatto che fossi io, a non bastarti.”

Bulma incassò e per la prima volta provò ad immedesimarsi in quell’uomo immaturo. L’ipotesi che fossero state le sue costanti pressioni a spingerlo tra le braccia di altre donne cambiava gli equilibri in gioco, ma lei aveva promesso a se stessa che non si sarebbe sentita colpevole più del necessario.

Rimasero qualche minuto in silenzio, tornando a guardare il cielo stellato. I grilli e le foglie degli alberi mosse dal vento erano le uniche cose ad animare la notte. Bulma si rese conto solo in quel momento che anche i soliti tonfi provenienti dalla Gravity Room erano cessati. Chissà cosa stava facendo il sayan, invece di allenarsi…

“Posso dirti una cosa?”, la riportò sulla terrazza la voce di Yamcha.

Bulma annuì, voltandosi di nuovo verso di lui.

“Ti prego, stai lontana da lui.”

Involontariamente, a tradimento, lo sguardo della donna si abbassò. Era ovvio che Yamcha avrebbe tirato fuori l’argomento. Continuare a negare ciò che ormai era diventato evidente, sarebbe stato troppo meschino nei confronti del ragazzo.

“Lo sai che ho sempre avuto un debole per i cattivi ragazzi.”

Yamcha, di fronte alla sua timida ammissione, sentì una fitta di disagio attanagliargli lo stomaco. Non era più l’orgoglio ferito al sapere i pensieri della sua donna rivolti all’uomo che l’aveva umiliato e ucciso, né la gelosia nel constatare che i suoi sospetti degli ultimi tempi erano risultati fondati. Aveva paura per lei.

“Quello non è un cattivo ragazzo, Bulma...”

La ragazza si mise seduta sullo sdraio, con le gambe incrociate.

“Lo so cosa vedete tutti, quando lo guardate, Yamcha. Ma c’è qualcos’altro, in lui…”, disse la ragazza.

“E tu come fai a saperlo?”, ribatté il giovane.

Non c’era accusa in quella domanda, ma Bulma si sentì comunque punta sul vivo e volle difendersi.

“È solo una sensazione. Non credere che sia successo qualcosa; non vedi che mi considera solo il suo fastidioso manutentore?”

Yamcha si lasciò sfuggire un sospiro sarcastico.

“Sul serio, Bulma. Una donna intelligente come te non può essere così cieca…”

Era chiaro come il sole che Vegeta, forse suo malgrado, gravitava sempre più insistentemente intorno a lei.

All’inizio, gli scontri a cui Yamcha aveva assisitito tra la scienziata testarda e l’alieno orgoglioso erano stati curiosi: non capiva come facesse Bulma a tenere testa a quel mostro, né capiva cosa impedisse a lui di ucciderla con un solo sguardo, per ciò che aveva l’ardire di affermare. In seguito aveva assistito impotente all’intensificarsi della tensione tra loro. Negli ultimi tempi, non aveva più potuto illudersi di essere solo paranoico. Se da un lato Bulma poteva essere soltato incuriosita da quell’uomo così schivo e altero (e ora non poteva certo dirsi che fosse così), gli occhi del sayan, invece, bruciavano di desiderio ad ogni occhiata sfuggente che le rivolgeva; ad ogni insulto che le dedicava a denti stretti.

Tornò a osservare la donna. Lei non riusciva a nascondere che le parole di Yamcha l’avevano compiaciuta più di quanto fosse lecito.

Era impazzita, si trovò a pensare l’uomo. L’unica alternativa possibile apriva la strada a scenari funesti e drammatici…

“Ti sei innamorata di lui?”

Bulma si voltò verso il ragazzo di scatto, allarmata.

“Ma come ti salta in mente!? Non sono mica stupida!”

Yamcha si mise a sedere anche lui, rivolto verso di lei.

“Allora dove vuoi arrivare, se posso permettermi di chiedertelo?”, le chiese cauto. Non voleva farle credere di volere intromettersi nelle sue scelte a quel punto, ma aveva bisogno di sapere.

“Non lo so. Voglio solo conoscerlo meglio…”, aggiunse Bulma.

“Voglio divertirmi un po’. In fondo, potrebbero essere gli ultimi due anni delle nostre vite.”

La donna prese di nuovo la bottiglia in mano e la vuotò in un sorso.

Yamcha, da un lato, la capiva. Non c’era niente di più eccitante di quel gioco; e lui lo sapeva bene. Anche se Bulma gli era stata sempre fedele, non metteva in dubbio che potesse essere una giocatrice altrettanto abile; peccato che avesse scelto come primo avversario qualcuno che palesemente non conosceva le regole.

L’idea che il sayan potesse affondare le mani macchiate di sangue nei fianchi morbidi e invitanti di Bulma gli fece venire i brividi. Non vedeva come lei potesse uscirne viva…

“Non è una partita che puoi vincere, Bulma.”, disse mesto.

Lei si alzò e andò a sedersi accanto a lui. Gli voleva bene dopotutto. Sentiva che lui voleva dissuaderla solo per proteggerla, ma si conosceva troppo bene per ignorare il fatto che non sarebbe stata lei, a ritirarsi dal gioco pericoloso che aveva iniziato con il sayan.

“Non preoccuparti per me. Lo sai che sono un osso duro.”

Yamcha le diede un buffetto maldestro sulla guancia. Avrebbe voluto abbracciarla ma il suo corpo non lo sentiva più un gesto appropriato.

Era vero: Bulma era un osso duro. Per i terrestri.

Il sayan avrebbe potuto sbriciolare quell’osso con la stessa facilità con cui lui avrebbe piegato un esile filo d’erba.

Bulma chiuse gli occhi, appoggiò la testa sulla sua spalla e si mise a canticchiare tra le labbra una vecchia canzone. Doveva forse ricordargli qualcosa, ma Yamcha non era bravo con quel genere di cose.

La canzone del loro primo bacio, quella della loro prima volta… non ne ricordava mai nessuna. L’unica cosa che ricordava era lei. Gli occhi di Bulma sgranati sul mondo, pieni d’amore, di lacrime, di rabbia. Ricordava le sue risate e le sue mani delicate in grado di fargli raggiungere stati di estasi inverosimili, ma che sapevano anche riparare motori e imbracciare armi.

Bulma era sempre stata il suo sole. Così piena di vita, luminosa, calda… Era il centro dell’universo conosciuto, attorno al quale lui e altri satelliti non potevano fare a meno di ruotare. Anche se a volte la sua orbita aveva deviato un po’ dal consueto cammino, era sempre tornato da lei, incapace di sfuggire a quella sua incredibile potenza attrattiva. E ora, pensò il giovane accarezzando delicatamente i capelli della donna seduta accanto a lui, quel grazioso sole un po’ arrogante cercava di attirare a sé un immenso buco nero. Un’oscurità tanto grande da poterla inghiottire senza lasciare traccia…

“Pensavo di andarmene un po’ nel deserto, sai? Ritornare un po’ alle origini…”

Bulma sollevò la testa e lo guardò un po’ triste.

“Lo sai che puoi restare, vero?”

Yamcha alzò gli occhi al cielo, prendendola in giro.

“Non credo che mi farebbe piacere assistere…”

Bulma sorrise.

“Ma tornerai?”

Yamcha annuì. Non sapeva quando, ma l’avrebbe fatto.

“Mi troverai qui, lo sai. E ti prometto che sarò tutta intera.”, gli disse lei, facendogli l’occhiolino.

Sperava di sbagliarsi. Ma una parte di lui pensava che sarebbe tornato a raccogliere i cocci di quella che era stata la donna più importante della sua vita.

Yamcha si alzò. Sarebbe partito l’indomani. Inutile indugiare oltre.

“Dai, vai a dormire. È tardi.”

Bulma lo seguì. Si avviò verso casa, ma non prese la strada della sua stanza.

“Vado a finire un lavoro, prima.”, gli disse.

E Yamcha non si stupì di vederla prendere la strada per il giardino, dove la Gravity Room troneggiava buia e silenziosa a quell’ora tarda.

Lei si voltò ancora un istante verso di lui, prima di allontanarsi. Aveva degli occhi così belli. Anche quando stava con altre donne, i suoi occhi erano sempre lì a perseguitarlo. Sempre lì a ricordargli quanto fosse facile specchiarcisi dentro.

“Yamcha, ti ho amato tanto. Davvero.”

“Lo so. Anche io.”

La salutò e la guardò correre via. Gli occhi turchesi già pieni di qualcun altro.

 





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