_ primo
capitolo
“Ragazzo, non ho
certo tutto il tempo del mondo a mia disposizione, non potresti andare
un po’ più veloce?”
Lay guardò contrariato attraverso lo specchietto
retrovisore, incontrando gli occhi flaccidi di un vecchio signore
vestito di tutto punto, con una cravatta nera che pareva dovesse fargli
scoppiare la giugolare da un momento all’altro.
“Mi dispiace, signore, ma sa com’è il
traffico qui a New York…”
“Oh, per carità. Non parlarmi del traffico.
È una vera vergogna, tutta questa maledetta città
lo è. E i tombini? Hai letto dei tombini? Viene su tanta di
quella robaccia da quei tombini…”
Lay alzò il volume della radiolina, cercando di isolare la
voce fastidiosa di un altro di quei clienti impossibili che sciupavano
tutte le loro parole contro quella città con lui, come se
gliene importasse qualcosa di starli a sentire.
Aprì il finestrino, facendo entrare nell’abitacolo
un po’ del fracasso cittadino, insieme all’aria
afosa estiva. A quel punto, la voce del signore seduto dietro si era
ridotta ad un ronzio di sottofondo. Lay sorrise, ormai si era abituato.
Dopo aver ricevuto la solita povera mancia, lo scaricò
davanti ad un alto grattacielo interamente ricoperto da vetrate azzurre.
Avanzò con il taxi sulla strada, tra la confusione di auto
che si andavano diradando. Al limitare del marciapiedi, una signora dai
lunghi capelli biondi sporgeva il braccio in avanti, con la mano aperta
nella sua direzione. Lay rallentò e si accostò al
marciapiedi, aspettando che la donna entrasse e chiudesse lo sportello.
La osservò dallo specchietto, mentre sistemava qualcosa
dentro la sua borsa firmata.
“Dove la porto?”, chiese, notando che lei ci stava
impiegando un po’ troppo tempo.
Alzò uno sguardo sorpreso su di lui. Gli allungò
un post-it giallo un po’ stropicciato. Lay lo lesse e
abbassò il piede sull’acceleratore.
Il tragitto fu abbastanza tranquillo. Lay lanciò di tanto in
tanto qualche occhiata alla donna. Guardava il cellulare, giocava con
una ciocca di capelli, oppure fissava un punto fuori dal finestrino.
Lay sospirò. Finalmente qualcuno che non gli facesse
diventare la testa come un pallone. Dovette imbucare una delle strade
maggiormente frequentate. Il traffico impediva alle macchine di
avanzare normalmente, c’era un blocco.
Lay lanciò un’occhiata alla donna.
“C’è un po’ di traffico in
questa zona…”
La donna annuì vagamente.
Passò qualche minuto, e le auto ancora faticavano a
diradarsi. Lay aveva aperto il finestrino e ci aveva appoggiato un
braccio sopra.
“Scusi, potrebbe accendere l’aria
condizionata?”
Lay incontrò gli occhi della donna dallo specchietto. Aveva
afferrato la richiesta. Per non dire “Potrebbe chiudere il
finestrino”, aveva usato una via meno scortese. Ad ogni modo
fece risalire il finestrino e finse di premere qualche pulsante nel
pannello vicino al cruscotto.
“Grazie”, fece lei distrattamente,
“ehm… scusi, scendo qui”, aggiunse poi.
Rovistò nella borsa e allungò la mancia verso
Lay, che si voltò per prenderla.
“Come vuole”, le rispose con uno sguardo innocente.
Dopotutto non era mica colpa sua se esisteva il traffico.
La donna abbozzò un lieve sorriso e uscì dal taxi.
Lay sospirò e si stiracchiò le braccia sul
volante. Guardò l’orologio, era quasi ora che il
suo turno finisse.
Era perso con i pensieri oltre il finestrino, quando lo sportello si
aprì di botto e due figure si infilarono
dell’abitacolo. Lay si voltò, spaventato.
Erano un uomo, interamente vestito di nero e una ragazza.
Era sul punto di dire qualcosa, quando un click secco lo prese di
sorpresa.
“Portaci dove ti dico e non fare storie, intesi?”
Lay fece scivolare gli occhi sull’uomo, su qualcosa di
luccicante che apparve sotto il suo giubbotto. Era una pistola. Lay
percepì il suo cuore accelerare improvvisamente, ebbe quasi
paura che gli potesse saltare via dal petto da un momento
all’altro. Aprì la bocca ma la richiuse subito
dopo.
“Intesi?”, ripetè l’uomo con
più foga.
Lay annuì debolmente. Lanciò
un’occhiata fugace alla ragazza, prima di voltarsi e
risistemarsi al suo posto di guida.
L’uomo in nero la teneva stretta a sé. Potevano
essere complici, tuttavia lei non sembrava partecipe di ciò
che l’uomo stava facendo. Forse era anche lei un ostaggio,
proprio come lo era diventato Lay.
Seguì le indicazioni dell’uomo, provando anche,
come lui gli aveva intimato, di farsi strada tra le auto, fino a farlo
girare in una stradina laterale. Mentre guidava, Lay cercava il
più possibile di tenere lo sguardo fisso davanti a
sé. Eppure, qualcosa gli ordinava di voltarsi, per vedere
cosa stava succedendo alle sue spalle. Buttò
un’occhiata allo specchietto retrovisore ed
incontrò in un attimo gli occhi della ragazza. Chiari e
profondi, oltre che molto tristi. Ma parevano tranquilli,
perché non aveva paura? Quando li alzò su di lui,
Lay distolse lo sguardo, confondendolo al di là del vetro.
“Fermati qui”.
Lay arrestò la macchina. Erano in una zona lugubre e fredda,
isolata. Del fumo saliva da alcuni tombini e qualche ratto di
città si aggirava attorno ai bidoni
dell’immondizia. Una scala antincendio di ferro girava
attorno ad un basso edificio grigio, dai muri sgretolati.
L’uomo si sporse per aprire lo sportello, diede uno spintone
alla ragazza e furono fuori. Prima di andarsene, la pistola fece
capolino un’ultima volta nell’abitacolo.
“Prova a dire qualcosa in giro e sei morto”.
Lay annuì, tramortito.
La portiera sbatté. Lay rimase immobile, le braccia tese a
impugnare il volante, lo sguardo duro fisso sull’uomo e la
ragazza, che stavano entrando nell’edificio. Vide lei
voltarsi di un po’ indietro, come per vedere se il taxi era
ancora lì o se n’era già andato; se
aveva ancora speranze oppure no.
Quando si furono infilati dentro alla porticina di ferro
dell’edificio, Lay sussultò sul posto di guida,
spalancò la portiera e si precipitò fuori.
Non sapeva cosa gli era preso, cosa diavolo stesse facendo. Eppure
sentiva che era la cosa giusta da fare. Sentiva che non poteva
lasciarla morire, il perché non lo sapeva, non poteva e
basta.
Prese un pezzo di legno, da un mucchio accanto ai bidoni
dell’immondizia. Il suo cuore batteva troppo rapidamente,
l’adrenalina era in circolo.
Spalancò la porta e si guardò subito attorno.
L’uomo e la ragazza stavano salendo velocemente le scale. Lo
videro, e l’uomo sparò immediatamente nella sua
direzione.
Lay indietreggiò fuori dalla porta, schivando il colpo per
miracolo. Tornò dentro: la ragazza aveva fatto volare via la
pistola all’uomo. Lui le diede un colpo, scaraventandola
giù per le scale.
Poi, si dileguò.
Lay la raggiunse, aiutandola ad alzarsi. “Stai
bene?”
Lei si portò una mano alla nuca, che sanguinava.
“Uhm…”, sussurrò e svenne.
Sentiva caldo e un dolce profumo di pulito. Qualcosa
all’altezza della testa gli doleva. Come se avesse un peso
sulla nuca, e gli dava un gran fastidio.
Faticò ad aprire gli occhi, come se nessuno glielo avesse
insegnato e lo stesse facendo per la prima volta. Prima fu tutto
bianco, poi le cose iniziarono a prendere i loro contorni, intorno a
lei. C’era una parete dritta, sopra. Guardò
giù e vide il suo corpo, rivestito di panni chiari e puliti.
Era stesa su un letto. Fece per alzarsi, la testa le mandò
una fitta improvvisa. Gemette, facendo una smorfia.
“Ah, ti sei svegliata finalmente”.
Una voce calma la raggiunse. Vagò con lo sguardo, cercando
di mettere a fuoco chi avesse parlato; accanto al letto riconobbe un
ragazzo, lo stesso del taxi, quello che l’aveva salvata. Lo
fissò ad occhi sgranati.
“Non guardarmi così, non voglio farti niente di
male”, fece, allarmato.
Lei scosse il capo, cercando di riprendere maggiore conoscenza.
Provò un’altra volta ad alzarsi e questa volta ci
riuscì, appoggiando la schiena al cuscino.
“Come ti senti?”
“Tu chi sei?”, chiese lei, aggrottando le
sopracciglia.
I lati delle sue labbra si incurvarono un poco. “Non credi
sia io a dover fare le domande, sei a casa mia e non ho idea di chi tu
sia”.
Lei abbassò lo sguardo. “Scusa, mi hai salvato la
vita. Grazie”.
“Direi che così va meglio. Io sono Lay”,
si presentò.
Lei tornò a guardarlo. Lay. Quel nome le piaceva, le
infondeva sicurezza. Lo osservò, cercando di metterlo a
fuoco il più possibile. Aveva i capelli un po’
lunghi ai lati del viso e piuttosto scompigliati, di un biondo spento.
Il viso scarno e bello. Due occhi cristallini la fissavano intensamente.
“Mi hai salvato”, ripetè lei.
“Sì, ma ora stai bene?”
Lei pensò al dolore alla testa di poco prima,
guardò Lay. “La testa…”
“Già, la testa. Non sono molto esperto in queste
cose, ma ho cercato di medicartela come meglio
potevo…”
Lei fece per tastarsi la ferita. Sentì la mano di Lay
bloccarla.
“No, non toccarla”, le buttò
giù la mano. “Ce la fai ad alzarti?”.
La ragazza lo guardò un attimo confusa. Ce la faceva? Non ne
aveva idea. Doveva provare. Ma era come se non sapesse nemmeno da che
parte iniziare.
Lay parve percepire la sua incertezza. “Dai, ti aiuto
io”.
Le mise una mano sulla schiena e con l’altra strinse una
delle sue. La sua presa era forte e salda. Lei si alzò in
piedi, e rimase accanto al letto, accanto a Lay.
“Tutto bene…”
“Lehna. Mi chiamo Lehna”. Ora sembrava avesse la
forza di rimanere in piedi anche da sola.
Lay annuì, guardandola. “Hai di dove
andare?”
Lehna parve pensarci un po’ su. Il suo volto di dipinse di
un’espressione confusa, assorta. Lay rimase ad aspettare la
risposta immobile, scrutandola.
“Non ho una casa”, sussurrò alzando gli
occhi lucidi su di lui, lentamente.
La guardò per un attimo ancora, poi abbassò il
capo. “Mi dispiace”.
Lay non aveva idea di cosa gli fosse preso. Fare entrare una
sconosciuta in casa sua, farla dormire nel suo letto, farle usare i
suoi vestiti e il suo bagno. Si sedette alla scrivania mangiata dalle
termiti e si mise le mani nei capelli. La sua vita era un totale
disastro. Aveva solo diciannove anni, lavorava come tassista nella
città più caotica del mondo e viveva in una
bettola da due soldi nello scantinato di un palazzo abitato da gente
completamente pazza. Aveva a mala pena i soldi per se stesso, e ora
c’era un’altra inquilina di cui occuparsi. E non
aveva idea di come fare per mandarla via.
Doveva dirle che non c’era posto per lei, lì. Che
avrebbe dovuto uscire nella notte e trovarsi un’altra casa,
magari affittare la camera di un albergo.
Preparò il discorso da solo più volte, mentre il
rumore dell’acqua della doccia che picchiettava sul pavimento
del bagno riempiva il silenzio tutt’attorno. Quando
sentì il rubinetto chiudersi, si alzò dalla sedia
e si avvicinò alla porta.
Lehna uscì dal bagno con addosso solo un asciugamano bianco,
che le lasciava scoperte le gambe e le braccia. I capelli scuri le
ricadevano ai lati del viso, formando torciglioni umidi che le
sfioravano le spalle. Il viso pallido e magro su cui risaltavano i
grandi occhi azzurri aveva un’espressione tranquilla, molto
più rilassata di poco prima.
Lay la fissò e le parole che si era studiato poco prima gli
morirono in bocca. Era inutile, non ce la faceva a dirglielo. Non
riusciva a cacciarla da casa sua.
“Scusa, dove posso asciugarmi?”, gli
domandò.
Lay le indicò un’altra porta, quella della sua
camera. La seguì con gli occhi mentre si allontanava.
L’asciugamano abbandonò il suo corpo un attimo
prima che la porta si chiudesse su di lei.
Lay sospirò di nuovo. Si nascose il viso con una mano e si
maledisse ad alta voce. Il soffio del phon lo fece sussultare.
Buttò un’occhiata all’orologio. Le nove
e mezza. Era certo che quella notte non avrebbe chiuso occhio.
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