_ secondo capitolo
“Lay…?”
Lehna lo chiamò flebilmente.
“Sì?”, rispose, con il viso accostato
alla porta della sua camera.
“C’è qualcosa che possa mettermi
addosso?”
Lay rimase in silenzio per qualche secondo. “Guarda
nell’armadio e prendi quello che vuoi”.
Non aveva niente per una donna, viveva da solo, era logico che fosse
così. Si sarebbe dovuta accontentare di qualche abito
maschile, almeno finchè i suoi non fossero stati lavati.
Lehna uscì dopo qualche minuto. Indossava un paio di jeans
un po’ larghi e una camicia di flanella, aperta su una
canottiera bianca, che era sua.
I suoi capelli neri le stavano gonfi e morbidi, sfiorandole lievemente
le spalle e la schiena. Lay cercò di ignorarla, di non
guardarla troppo, altrimenti era certo che si sarebbe azzittito per il
resto della sera.
“Senti, Lehna… davvero non hai una
casa?”, azzardò, cercando di entrare nel discorso.
Lei lo guardò ambigua. “La strada è la
mia casa”.
Lay restò immobile. Era forse una barbona? Con chi diavolo
stava parlando? Avrebbe tanto voluto saperlo.
“Io non ho molto posto, qui…”,
proseguì Lay.
Lei parve illuminarsi. “Ah, scusami. È vero, sto
sconvolgendo la tua vita. Mi dispiace, è che pensavo di
poter restare, almeno per stasera. È così bello
qui… una casa vera, era tanto che non ne vedevo
una”.
Lay la fissò. “Sto sconvolgendo la tua
vita”, era certo che sarebbe andata proprio così.
“Okay, puoi restare per stasera, poi domani vedremo cosa
fare”.
“Grazie, Lay”, e, inaspettatamente, lo
abbracciò.
Lay l’allontanò quasi subito, abbozzandole un
sorriso. “Domani devo andare al lavoro, puoi portare i tuoi
vestiti alla lavanderia?”
Lehna lo fissò tranquilla. Poi annuì.
“Bene, è qui dietro
l’angolo…”, Lay spiegò a
Lehna la strada per arrivare alla lavanderia. “Mi raccomando,
stai attenta e non fermarti per nessun motivo”, concluse,
prendendola per le spalle.
Lei lo ascoltò con attenzione, cercando di memorizzarsi la
strada.
“Su, ora andiamo a dormire, ho già fatto troppo
tardi”.
Lehna lo seguì fino in camera sua. Lay si voltò a
guardarla, come se si fosse per un attimo dimenticato di lei.
Si grattò il capo con una mano. “Okay, tu dormi
nel letto, io vado sul divano”, fece un breve gesto con la
mano e uscì dalla stanza, lasciando Lehna da sola.
Lehna si svegliò che erano già le dieci e mezza.
Si vestì e mangiò un pezzo di pane con la
marmellata che Lay le aveva lasciato sul tavolo, poi prese il sacco dei
panni sporchi e uscì di casa.
New York era una città incredibilmente caotica, a qualsiasi
ora. Lehna non si era ancora molto abituata a quella vita frenetica,
non ricordava da quanto tempo, ma non era molto che si trovava
lì. Seguì le indicazioni che Lay le aveva dato e
che per sicurezza si era appuntata su un post-it.
Arrivò davanti ad un negozietto modesto, accatastato tra una
pizzeria a destra e un garage sbarrato sulla sinistra.
L’insegna al neon non risaltava molto al sole mattutino, ma
tuttavia illuminava di rosa una scritta inclinata:
“Lavanderia”.
Lehna entrò. Dentro non era troppo grande, un mucchietto di
persone affollavano le sedie. Lehna li scorse velocemente con un breve
sguardo: erano per lo più ragazzi di colore, ragazze
magrissime con bambini in braccio, uomini sulla trentina con sguardi
truci e poco raccomandabili. Lehna abbassò immediatamente
gli occhi, cercando più che poteva di tenerli lontani da
chiunque la dentro.
Si avvicinò alla prima lavatrice libera che trovò
e ci ficcò dentro i suoi vestiti. Si accorse che
c’era anche qualche panno non suo. Due camicie a quadretti,
due paia di jeans e una maglia a mezze maniche. Erano gli abiti di Lay:
evidentemente aveva approfittato dell’occasione per farsi
lavare qualcosa che gli serviva. Lehna sorrise inconsapevolmente, e
ficcò dentro all’oblò tutto quanto,
finchè non fu pieno. Chiuse lo sportello e fece partire la
centrifuga.
Sentì parecchi sguardi puntati su di lei. Un bambino
iniziò a piangere, e la sua mamma gli intimò il
silenzio, dondolandolo avanti e indietro.
Lehna incontrò involontariamente gli occhi di uno degli
uomini seduti, che la scrutava fisso.
Lehna aggrottò le sopracciglia e si concentrò sui
panni che danzavano dentro all’oblò, ripetendo
dentro se stessa: muoviti, muoviti.
Finalmente la centrifuga terminò e lei potè
prendere fuori tutta le sue cose. Le rificcò dentro al
sacco, lasciò la mancia e si affrettò ad uscire
da quel posto.
Lay tornò a casa verso le sette e mezza della sera.
Sospirò, mentre si toglieva la camicia.
“Ciao”.
Lay sussultò e guardò Lehna.
“Scusa, non volevo spaventarti”.
Lay scosse il capo. “Come ti senti oggi?”
Lehna inclinò il capo, avanzando verso di lui.
Allungò una mano verso la sua camicia.
“Meglio”.
Lay continuò a guardarla confuso. Si accorse che indossava
solo una delle sue camicie, che le arrivava fino a metà
coscia.
“Dammi, te la sistemo io”, disse, scrutandolo.
Lay gli lasciò la camicia da lavoro tra le mani e distolse
lo sguardo da lei.
Lehna gli diede le spalle, e raggiunse la camera da letto.
“Hai fatto quello che ti avevo chiesto?”,
domandò Lay, parlando attraverso le camere.
“Ah-ah. Anche i tuoi vestiti sono puliti, ora”,
Lehna ricomparve sulla soglia della porta e sorrise. “Tutto
bene al lavoro?”
Lay annuì vagamente. “Come al solito”.
Lay raggiunse la sua scrivania e si sedette al computer. Poi
alzò uno sguardo su Lehna, come se qualcosa gli si fosse
acceso all’improvviso nella testa. “Ehi, vieni un
attimo qui”.
Lehna aggrottò la fronte, lo raggiunse.
“Sai usare il computer?”.
Lehna diede un’occhiata al monitor acceso. “Non
credo”, mormorò incerta.
“Non hai mai provato?”.
“Non ricordo. La mia memoria è
offuscata”.
Lay digitò una password e la schermata principale apparve
brillante per tutto lo schermo. “Stavo pensando che potresti
usare internet per fare delle ricerche”.
Lehna lo guardò per un secondo.
“Ricerche?”.
“Sì, su chi sei, da dove vieni e cose
così…”, Lay abbassò di nuovo
lo sguardo sul monitor, perché Lehna gli era vicinissima, in
piedi ad un soffio da lui.
Sul volto di Lehna apparve un’espressione confusa e
contrariata. Si allontanò da Lay e si portò una
mano sul volto. “Non voglio sapere niente”.
Lay la seguì con gli occhi, fissando la sua figura di
spalle, preoccupata. Non era normale che qualcuno soggetto ad una crisi
di coscienza non avesse nessuno stimolo a voler scoprire qualcosa su se
stesso o sulla propria vita. Forse Lehna in realtà sapeva
chi era, solo che voleva tenerlo nascosto.
“Okay, come vuoi. Ma credi che sia una buona idea rimanere
così in bilico tra sapere e non sapere?”
Lehna socchiuse le labbra, ma non rispose. “Tu vuoi che me ne
vada da qui”.
Lay sgranò gli occhi. “Ma che stai
dicendo?”, continuò a fissarla, aggrottando le
sopracciglia.
L’espressione di Lehna era dura, gli occhi bassi.
“Lo so che sono un peso per te, mi dispiace”. Prima
che Lay potesse ribadire, lei s’incamminò verso la
camera da letto, rovistando per raccogliere in fretta le sue cose.
Lay scaraventò indietro la sedia e le si lanciò
dietro. “Che stai facendo?”, sospirò
sull’uscio della porta.
Lehna non alzò nemmeno lo sguardo su di lui. “Me
ne vado”, farfugliò, infilandosi i pantaloni. Si
levò la camicia e Lay rimase a guardarla immobile, mentre si
metteva la maglia che aveva indosso quando l’aveva salvata.
Gli passò davanti, gettandogli la sua camicia tra le mani e
uscì dalla stanza.
“Lehna, aspetta”.
Lehna lo ignorò, facendo per aprire la porta
d’ingresso del misero appartamento sottoterra.
“Lehna”, la chiamò ancora Lay,
prendendola questa volta per il braccio.
Lei si voltò di scatto, i loro sguardi si incrociarono.
“Non voglio che te ne vada”.
“Lasciami, per favore, non mi va che provi pietà
per me”.
Lay sospirò, avvicinandosi a lei. “Non provo
nessuna pietà”. Abbandonò la presa sul
suo braccio.
“Senti Lay, venire qui è stato un errore.
All’inizio non ci ho pensato, perché mi sembrava
così bello aver trovato finalmente un posto dove stare, ma
ora mi sto rendendo conto che non è questo il mio posto,
è il tuo posto e io lo sto solo invadendo”.
“Non hai di dove andare, e io non posso certo lasciarti
là fuori da sola. Percui l’unica soluzione
è rimanere qui, e quando avrai trovato il tuo posto potrai
raggiungerlo, quando vorrai… sei
d’accordo?”
Lay non riusciva a smettere di fissare quegli occhi, così
intensi. Era così bella, così indifesa e
così vicina… avrebbe voluto abbracciarla,
stringerla. Voleva sentire l’odore dei suoi capelli morbidi e
dirle di indossare di nuovo la sua camicia…
Strinse gli occhi, e abbassò lo sguardo, scacciando quei
pensieri dalla sua testa. Che cosa diavolo gli era preso? Non poteva
pensare a quelle cose, non certo con Lehna. Non sapeva niente di lei,
nonostante da un po’ di tempo a quella parte vivevano insieme
sotto lo stesso tetto.
Si era completamente fuso il cervello, o cosa?
“Ehi, stai bene?”
Alzò il suo sguardo sofferto, Lehna gli stava leggermente
accarezzando una guancia. Le prese il polso e
l’allontanò, cercando di non essere troppo brusco.
Biascicò qualcosa a mezza voce.
La guardò di nuovo, sentendosi colpevole di qualcosa che non
aveva fatto.
“Grazie, Lay”.
Abbozzò un sorriso, vedendola che ricambiava. Poi, si
buttò sui fornelli, mantenendo le distanze da lei.
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