Night has always pushed up day ~
(spring is coming, in the end)
Il
sole non è ancora spuntato a est della Barriera, ma le striature
d'azzurro nel cielo preannunciano un'altra giornata di sereno. È una di
quelle mattinate gelide eppure incredibilmente terse a cui Jon ancora
non è riuscito a fare l'abitudine.
“Ricordami per quale motivo non posso venire con te.”
Sorride, prima ancora di voltarsi, perché il mondo e le loro stesse
vite potranno anche essere stati rivoluzionati così tante volte e in
modi così infinitamente crudeli che il solo pensiero a volte rischia di
sopraffarlo, eppure certe cose – come il passo felpato di lei, o quella
venatura ostinata nella sua voce che d'un tratto la fa tornare la
ragazzina di un tempo – non cambieranno mai. È a queste cose che Jon è
immensamente grato, perché sono ciò che gli ricorda con costanza chi è
veramente: ancore piccole ma stabili che gli permettono di rimanere
saldo sui propri piedi anche quando ogni altro appiglio sembra venire a
mancare – anche quando di notte, spesso, si sveglia con la familiare
sensazione di pugnali di ghiaccio che gli penetrano la carne.
Abbandonando le redini e rinunciando in partenza a strigliare il
cavallo, si volta a fronteggiarla.
“Potremmo aver affrontato l’argomento già un centinaio di volte”
inizia, e una sola occhiata è sufficiente: lei ha già capito come la
sua esasperazione sia solo una facciata. È unica anche per questo.
“E io potrei aver bisogno di affrontarlo per l’ennesima.”
Jon sospira, posandole le mani sulle spalle. “Perché” scandisce per
quella che è effettivamente l'ultima di una lunga serie di occasioni in
cui le ha ripetuto le stesse parole, “qui è infinitamente più sicuro. E perché
sarò di ritorno molto prima che allenarti solo con le reclute inizi a
darti noia.”
Perché la pena e
l'angoscia che ho provato in questi anni sono qualcosa che forse non
sarò mai in grado di spiegare, è ciò che le sta realmente
dicendo tra le righe. Certe ferite impiegano più di altre a
cicatrizzare, e Jon non ha ancora cuore di svelargliele, né di
aggravare quell'ombra che vede attraversarle gli occhi più spesso di
quanto gli faccia piacere ammettere. Perché non puoi sapere cosa
abbia significato crederti perduta, e poi ritrovata, e poi perduta di
nuovo e per sempre – passare dall'illusione alla disperazione in un
attimo, e dubitare persino dei miei stessi occhi quando invece sei
tornata veramente. Ho sacrificato troppo per riaverti, e mettere di
nuovo a rischio questa piccola e strana quiete che abbiamo solo per il
desiderio egoistico di averti accanto in questo viaggio è l'ultima cosa
che farei.
Non lo dice, lo pensa soltanto – ma la guarda a lungo e spera che lei
capisca, che riesca a leggere le sue motivazioni più profonde dietro
quella spiegazione ridotta, seppur veritiera.
Ciò che ottiene di rimando sono una linea solitaria che le corruga la
fronte e un silenzio breve e indecifrabile – poi un braccio che si
infila sotto il suo e una sola parola, nitida nell'aria fredda
dell'alba:
“Camminiamo.”
Oltrepassano le stalle e costeggiano l'armeria, per ritrovarsi alla
base di quel sistema d'ascensione che tanto l'ha affascinata i primi
giorni e che anche ora le fa rallentare il passo e torcere il collo per
arrivare con lo sguardo fin lassù, dove ghiaccio e cielo diventano una
cosa sola. Jon ricorda con esattezza, e il ricordo è uno dei più
preziosi che possieda, la meraviglia dipinta sul suo volto e il
bagliore nei suoi occhi nell'osservare per la prima volta il mondo
dalla cima della Barriera – un attimo era lì, guardinga e taciturna,
con le braccia allacciate davanti al petto in un istintivo gesto di
protezione rispetto alla salita vertiginosa che stavano compiendo; e
quello dopo era al suo fianco, di fronte alla fine e all'inizio di
tutto, e nel rimodellarsi di quei lineamenti fino a poco prima di
pietra Jon aveva scorto stupore, commozione, sollievo. Non una parola
era uscita dalla sua bocca, ma Jon aveva capito che quello era tutto
fuorché un silenzio doloroso – piuttosto, era lenitivo – e che entrambi
avrebbero fatto tesoro di quegli istanti per sempre.
Di nuovo, gli sembra che tutto questo sia troppo – come se dopo aver
visto la fine ed essere tornato indietro, aver perso più di quanto sia
giusto ricordare e aver appreso la sconvolgente verità sulle proprie
origini, qualcosa di così semplice come il camminare fianco a fianco e
sentire la brina che scricchiola sotto le suole sia addirittura troppo semplice,
troppo genuino per un mondo che è passato attraverso ogni possibile
forma di rovina e corruzione.
“Jon.”
La sua voce lo strappa a quei pensieri, richiamandolo a se stesso. Solo
allora si accorge che sono arrivati di fronte al cancello principale di
Castle Black.
“Stai tentando di mandarmi via prima del tempo?” la interroga, leggero.
Solo pochi mesi fa non avrebbe mai creduto che sarebbero venuti giorni
in cui poter riutilizzare di nuovo certi toni – toni che gli lasciano
in bocca il gusto agrodolce del passato, di un tempo in cui il freddo
non uccideva e bastava camminare tra le foglie rosse del parco di
Winterfell per tornare a sentirsi un tassello in armonia col disegno
imperscrutabile del mondo.
Lei si ferma e gli scocca una di quelle sue occhiate enigmatiche,
mentre si stringe di più nel mantello.
“Non è divertente. E per quanto lo odi, sai che ho un titolo che
potrebbe costringerti a cambiare idea.”
Di nuovo, Jon è quasi preso alla sprovvista dalla sua caparbietà. Una
di quelle cose che resisterebbero persino alla fine del mondo,
probabilmente.
Scuote la testa, e percependola ancora sul piede di guerra, la precede.
“Arya.”
Il modo in cui la sua espressione cambia completamente ha dello
stupefacente. Può vederla con chiarezza, mentre le sue labbra vanno a
formare una piccola 'o' di sorpresa e la maschera di impassibile
freddezza che indossa vacilla, frantumandosi infine in un sorriso
minuscolo, quasi intimidito. Quasi non da lei.
“Che c'è, ora?”, non può fare a meno di chiederle. Un gesto impulsivo –
in verità, non sono poi molte le cose che le ha chiesto da quando è
tornata. Erano stati sempre troppo legati, troppo in sintonia, perché
Jon non cogliesse da subito nei suoi occhi quell'ombra scura, in
agitazione costante; e perché non capisse, dalla diffidenza quasi
ferina con cui lei aveva esitato per settimane intere prima di
permettergli anche solo di sfiorarla, che in quel cuore ancora così
giovane si era depositata un’agonia profonda, una sofferenza troppo
grande per tradursi in parole.
La guarda, e gli sembra più minuta e fragile che mai, così stretta
nelle pellicce che indossa.
“Niente” mormora, rivolta quasi più al vento che a lui. Impiega così
poco a riacquistare l'aria grave di prima che Jon potrebbe pensare di
aver immaginato tutto, non fosse per quell'unico sussurro assorto che
gli ha permesso di gettare un ulteriore sguardo oltre le crepe di un
passato che lei, proprio come lui, ancora esita a rivangare. Dal poco
che si è sentita pronta a rivelargli, e da quanto appreso dagli incubi
che (sebbene più di rado) continuano ad avvelenarle il sonno, molto
sembra avere a che fare con l'aver rischiato di perdere se stessa e il proprio nome fin
quasi al punto dell'annullamento. È
stato Needle a farmi ricordare, ha biascicato una volta in
uno stato inquieto di dormiveglia che ora probabilmente non ricorda, sei stato tu.
“Arya” ripete, muovendo un passo verso di lei e prendendole il viso
perché ricambi il suo sguardo. Sei
Arya Stark e niente e nessuno potrà più cambiarlo. Sei di
nuovo tu, adesso, qui, con me, ed è solo per saperti al sicuro che
partirò da solo, le dice in silenzio, scrutando quegli
occhi così identici ai suoi – per lei eredità di un padre portatole via
prima del tempo dall'ingiustizia e dalla brutalità dell'uomo, per lui
di una promessa mantenuta e di una madre mai conosciuta.
Le scosta delicatamente i capelli dal viso e si sorprende, non per la
prima volta, a constatare quanto sia stato naturale – inevitabile,
quasi – passare dall'arruffarli scherzosamente ad indugiare su ogni
ciocca strofinata tra pollice e indice, e quanto giorno dopo giorno
gesti come quello diventino ancor più spontanei. La cosa gli riporta
alla mente una lontana memoria dell'infanzia – Sansa e le ballate di
dame e cavalieri che tanto amava da piccola, con tutto quel parlare di
anime affini e unioni scritte nel destino. Assieme a Robb, Jon aveva
riso di quelle definizioni così tante volte da perderne il conto, e
l'asprezza della vita che aveva conosciuto in seguito non aveva fatto
nulla per smentirlo – ma poi, in mezzo ai tumulti, alla guerra, alle
perdite, lei era tornata. Arya, la sorella prediletta di un'esistenza
addietro, l'amica e confidente di una vita, la sola persona che lo
avesse sempre accettato e amato incondizionatamente.
Non ha mai creduto nelle anime gemelle, eppure crede in quella creatura
fragile che è miracolosamente riuscita a non spezzarsi, in quella
ragazza che è ormai quasi una donna e in cui risiede ancora, nonostante
tutto, lo spirito tenace della bambina di un tempo.
“Jon”, risponde lei, un altro sussurro nel gelo dell’alba – ha le mani
poggiate sui suoi avambracci, ora, e il mento sollevato verso il suo
viso, e per qualche ragione non c'è bisogno che dica altro: perché
sentirla pronunciare il proprio nome fa a Jon lo stesso effetto che
probabilmente udire il suo ha fatto a lei.
Non Lord Comandante. Non Bastardo di Ned Stark. Non Snow. Non
Targaryen. Solo Jon.
È questo, più di tutto, a fargli credere che le ferite del mondo
potranno essere in qualche modo risanate – a farlo confidare in un
futuro se non più umano, almeno più dignitoso del passato di fuoco e
sangue che ancora non si sono lasciati del tutto alle spalle. È ciò che
hanno, ciò che si evoluto da qualcosa che forse hanno sempre avuto,
seppur in forme e in tempi diversi; è lei che porta Needle sempre
appesa al fianco, malgrado da quando si sia stanziata a Castle Black
abbia avuto modo di testare armi molto più consone alle sue abilità;
sono quei sorrisi simili a crepe nel ghiaccio della sua anima, che
giorno dopo giorno lo portano un passo più vicino a ricongiungersi
completamente con lei; è l'Arya di una volta, che ancora palpita dietro
quegli occhi induriti – che stendendosi al suo fianco nel cuore della
notte allevia la sua spossatezza interiore e la sensazione di aver
visto e tollerato troppo per poter andare avanti, e gli ricorda che è
solo un giovane uomo di vent'anni, e non la creatura millenaria e
stanca che tanto spesso gli sembra di essere.
I primi, pallidi raggi di sole trasformano il ghiaccio attorno ai loro
piedi in rigagnoli d’acqua, mentre le labbra di Jon sfiorano prima la
fronte di Arya – un gesto antico, collaudato, che sa di memorie
d’infanzia e di duelli improvvisati nei cortili di Winterfell – e poi
la linea serrata della sua bocca – e questo è nuovo, sebbene ormai
quasi consueto, e seguito da un intervallo di giorno in giorno più
breve in cui l’iniziale esitazione di lei si scioglie come la brina
sotto i loro tacchi, e il suo respiro lieve gli scalda di rimando il
viso.
“Porta i miei saluti a Sansa” è la richiesta che gli rivolge poco dopo,
muovendo un passo indietro – le mani guantate ancora custodite tra le
sue. Ed è in quell’istante, e nella naturalezza con cui la risposta gli
affiora alle labbra, che Jon se ne convince davvero: perché sa che gli
strascichi impietosi del passato li accompagneranno per il resto della
vita, e che il sangue sulle loro mani non verrà mai lavato via del
tutto – ma dopotutto, in un mondo così martoriato, esiste forse
qualcuno che possa dirsi esente da qualunque colpa? E in ogni caso, lui
ci crede: crede che i vecchi pezzi non potranno mai essere riuniti
nella stessa disposizione di una volta, che le ceneri non torneranno
pietra o carne, e che tuttavia ricostruire qualcosa di nuovo, e onesto,
è possibile. Soprattutto insieme.
“Credo che ormai sia più opportuno parlare di Vostra Altezza”
dice, e il modo in cui il suo stesso tono quasi si prende gioco di
quell’appellativo lo riporta indietro di anni, quando Arya correva da
lui, mortificata dopo l’ennesimo diverbio con la sorella, e assieme
riuscivano a trovare questo o quell’altro motivo per riderci su,
suggellando quasi sempre quei momenti di complicità con un giuramento e
una risata: Non dirlo a
Sansa!.
E se Arya adesso non ride – per quello, chissà, potrebbe non essere
sufficiente tutto il tempo del mondo – Jon sa che anche lei ha capito,
che ha colto quell’eco nella sua voce; lo vede nel luccichio che le
ravviva gli occhi e nella piega che, a dispetto di tutto, trasforma la
retta delle sue labbra in una curva accennata.
Un sorriso: nostalgia, tenerezza, forse rimpianto, e la conferma che
sì, le loro vecchie vite sono un ricordo sigillato che non tornerà, e
che malgrado ciò – oltre il dolore, l’ingiustizia e le verità ancora
taciute – loro sono sempre gli stessi. Arya di Casa Stark, secondo le
leggi degli uomini prima in linea di successione al Trono di Spade, che
per lungo tempo ha perso se stessa e poi si è ritrovata; e Jon, ultimo
discendente in vita della stirpe Targaryen, ma dopotutto sempre un
Guardiano giurato alla Barriera. Sempre uno dei tanti figli senza
radici a cui il nord ha fatto da madre – sempre uno Snow.
Nelle prime luci del mattino Arya sorride, e Jon sa già che, ancor più
di quell’attesa primavera che sembra infine stare germogliando tutto
attorno a loro, sarà il pensiero del suo sorriso a scaldarlo durante il
lungo viaggio verso sud.
NdA: non
starò qui a elencarvi i millemila motivi per cui questi due dovrebbero
come minimo ritrovarsi sia nei libri che nella serie e poi possibilmente
sposarsi e figliare a seguito della scoperta sulle vere origini di lui.
Davvero, non lo farò: dirò solo che scoprire che il Panzone aveva
inizialmente progettato di farli stare insieme ha riacceso la fiamma
del mio amore incompreso per loro, portandomi a terminare questa cosina
che avevo in sospeso nel pc da mesi. E quindi non solo vi beccate la
ship unpopular, ma anche il mio primissimo lavoro in questo fandom.
*ride* *trema*
Qualche piccola precisazione sui miei headcanon (più o meno
esplicitati) in merito alla storia:
- gli eventi, come avrete intuito, sono
ambientati in un ipotetico finale del bookverse. Quello che dovrebbe
essere ‘A Dream of Spring’, insomma;
- Sansa è Regina dei Sette Regni (non
chiedetemi come/al fianco di chi: lo è e basta); Jon è ancora il Lord
Comandante dei Guardiani della Notte, e deve recarsi a King’s Landing
per questioni politiche/burocratiche/whatever;
Westeros è relativamente pacificata, ma qui e là ci sono ancora
disordini – questo, unito al fatto che le condizioni di Arya non sono
ancora del tutto stabili, lo porta a crederla più al sicuro a Castle
Black;
- dalla fine della guerra molte cose sono
cambiate: tra queste, alcune delle leggi dei Guardiani. La presenza di
donne alla Barriera non è più proibita – è per questo che Arya può
vivere lì;
- R+L=J, aka Jon è figlio di Rhaegar e
Lyanna (e quindi cugino di Arya – QUINDI NIENTE INCESTO E ADDIO
POSSIBILI SENSI DI COLPA); il riferimento ai pugnali e all’essere
tornato indietro implica l’esser stato resuscitato da Melisandre; e il
fatto che sia l’ultimo Targaryen rimasto implica un sonoro CIAONE a
Daenerys/Aegon/gentaccia varia. *saluta quei pazzi esaltati e le loro
lucertole volanti*
- il finale è un omaggio a una delle mie
parti preferite del primo libro, ma questa precisazione non serve a
nulla, se non a sottolineare quanto mi piaccia autoinfliggermi feels
assassini :D
E basta, ho parlato anche troppo. Nel caso in cui esista qualcun altro
che ama questi due nel modo in cui li amo io, sarei felice di
conoscerne il parere; e nel caso in cui non esista… beh, continuerò ad
adorarli crogiolandomi nel mio status di particella di sodio dell’acqua
Lete. O, nella peggiore delle ipotesi, mi preparerò a ricevere pomodori
marci.
Alla prossima! ♥
Lou.
P.S. Il
titolo in grassetto è un verso della bellissima ‘After the Storm’ dei
Mumford & Sons, che non solo è appunto bellissima, ma imho
anche paurosamente accurata per questi due e per gli Stark in generale.
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