Ringraziamenti:
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a Beab per
la recensione al Cap. I e per avermi inserito fra i suoi autori
preferiti;
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a Caterozza
per la recensione al Cap. I;
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a Fujiima
per la recensione al Cap. I e per aver inserito la storia tra i
preferiti;
-
a Luisina
per aver inserito la storia tra i preferiti.
Cap. II
Comunque
anche Alberto Gervasoni ha avuto a che fare, una volta, con un efferato
delitto di cronaca nera. Un caso che ebbe risonanza a livello
nazionale, più o meno.
Una notte di maggio, fu ritrovato il corpo senza vita di un uomo sul
greto del fiumiciattolo che ci lambisce: il cadavere era tutto nudo, e
portava i segni di violenze subite. I polsi e le caviglie imbrattati di
sangue, lividi ovunque, ed un enorme squarcio sul ventre da cui si
scorgevano tutte le interiora del poveruomo. Uno scenario
raccapricciante.
Il corpo, che non sembrava in alcun modo che si fosse cercato di
occultare, era stato ritrovato da Nello, l’ubriacone di
Poggibonsi. Durante una sua dinoccolata passeggiata notturna, alla
disperata quanto placida ricerca dell’uscio di casa, il buon
vecchio Nello vagava con il vino che gli scorreva nelle vene. Quando,
nel suo peregrinare a zig-zag, giunse sul greto del fiumiciattolo,
inciampò sul cadavere e, rotolando, cadde nelle fredde
acque. Ci mancò poco che i morti diventassero due! Nello non
sapeva neppure nuotare, e poi, anche se fosse stato capace, che stile
avrebbe adottato con tutto quel vino che gli stordiva il cervello?
La mattina seguente tutti gli abitanti di Poggibonsi si recarono sul
luogo del ritrovamento. La polizia non fece neppure nulla
perché la folla fosse smobilitata: del resto ci si conosce
tutti da queste parti, e pure il capo della polizia locale è
un caro amico. Immaginate voi, vista la terrificante scena che si
presentava davanti agli occhi atterriti di tutti, quanti furono coloro
che vomitarono per il disgusto… Io, vista anche la calca,
non riuscivo a vedere il cadavere (e non avevo neppure il coraggio), e
mi facevo descrivere minuziosamente da mia madre lo stato in cui era
stato ridotto.
Ovviamente non poteva mancare Alberto Gervasoni: non fu però
il primo ad arrivare, abituato com’è ad alzarsi
tardi la mattina.
Il tale ucciso non era del posto, ed apparentemente nessuno lo
conosceva. Dunque fu naturale ipotizzare che l’assassino o
aveva portato lì il poveretto per ucciderlo lontano da occhi
indiscreti, oppure vi aveva trasportato il cadavere dopo averlo ucciso
da un’altra parte. Ma forse era più giusto parlare
al plurale, e cioè di assassini: infatti il morto era
personaggio assai robusto, e perciò non facile da
“trattare” individualmente; ed inoltre lo stato in
cui fu ritrovato lasciava facilmente immaginare che si fosse trattato
di un rituale da messa nera, e si sa che questi rituali vengono
compiuti da più o meno corposi gruppi, e non da singole
persone.
Alberto Gervasoni scrutava lo scenario delittuoso come se nulla fosse:
neanche un sopracciglio inarcato gli fece mutare la sua imperturbabile
sembianza tipica di colui che la sa lunga. I suoi pensieri erano
imperscrutabili, ed il suo volto impassibile. Ma conoscendolo bene,
sapevo con una certezza pressoché assoluta che invece nella
sua testa stava già mettendo su una ricostruzione possibile
degli eventi.
Ovviamente il caso spettava alla polizia, e qui non siamo in uno di
quei film in cui il protagonista ficcanaso malgrado tutto si avventura
a suo (gratuito) rischio e pericolo nel mistero. Difatti Alberto
Gervasoni non era uno avvezzo a lavorare gratis (se così si
può dire…), ma i misteri li svelava solo dietro
remunerazione (anche se il più delle volte, si trattava di
una remunerazione “pro forma”). Così,
nonostante che il caso stuzzicasse non poco la sua fantasia,
restò inattivo. Questo stato delle cose durò
però appena tre giorni: il quarto giorno successivo al
ritrovamento del cadavere, suonò il suo campanello di casa.
Era una donna bellissima: bionda, alta, elegante, sinuosa e…
ricca. Appena il nostro detective le aprì la porta di casa,
lei si intrufolò nell’appartamentino di Alberto
Gervasoni senza tanti complimenti e senza proferire parola alcuna.
Continuando a celare il motivo della sua misteriosa visita, camminava a
passo di femme fatale andando di stanza in stanza, e ben osservando il
mobilio e l’arredamento della casa. Passava attenta
l’indice sui mobili in legno, per vedere quanta polvere era
depositata su di essi. Ma non trovava niente, vista la perizia
maniacale che ci metteva Alberto Gervasoni nel mantenere in ordine il
proprio appartamentino.
“E bravo il nostro detective” proferì di
spalle ad un certo punto la milady.
Poi, voltandosi e guardando in faccia Alberto Gervasoni, aggiunse:
“Se lei è altrettanto bravo a risolvere casi
quanto a tenere in ordine casa, beh… è
assunto”
Devo ammetterlo: quando la milady fissò negli occhi Alberto
Gervasoni, per la prima volta vidi nitidamente nelle pupille di
quest’ultimo una luce che non ho veduto più in
seguito.
Dopo queste prime parole della milady, la conversazione divenne tale, e
seduti davanti ad un tè si svelarono i ruoli. Lei era la
vedova del morto che era stato rinvenuto quattro giorni prima: questo
era (stato) un pezzo grosso, un imprenditore che aveva messo da parte
un patrimonio da far impallidire la maggior parte degli esseri umani
che costellano questo mondo. Ora lei, unica erede, inevitabilmente era
tra i possibili indiziati della polizia. Non tanto perché
scorresse tra lei ed il defunto marito qualche attrito, ma
più che altro per il fatto che l’omicidio era
stato così assurdo e misterioso che la polizia brancolava
nel più totale buio, e quando non si sa che pesci prendere
si parte dal sondare le piste più banali, che
però offrono sempre moventi attendibili. E quel patrimonio
fatto di un numero sterminato di zeri era senz’altro un
movente appetibile. Comunque la stessa polizia non ci credeva poi tanto
in questa pista, ed anche e soprattutto dopo le prime indagini
sembrò più che altro una forzatura continuare a
batterla. Però andava fatto.
Lei era rimasta turbata da tutto ciò: dalle domande
incalzanti della polizia, dall’intrusione dei mass media
nella sua sfera privata. E chiedeva solo giustizia: per sé e
per il suo povero marito. Voleva assolutamente che fosse scoperto
l’assassino.
Di solito gli uomini ricchi hanno sempre una lunghissima lista di
nemici: è un caso di diretta proporzionalità, che
difficilmente può essere contraddetto. Eppure il morto,
nonostante il conto in banca, era una persona ammirata e benvoluta da
tutti. Almeno apparentemente. Era un uomo che faceva beneficenza, e che
sembrava si fosse fatto da solo senza mai tirare colpi bassi a
qualcuno, o mettere il bastone tra le ruote a qualcun altro. Insomma i
suoi soldi erano stati sudati, e non erano sporchi né di
sangue né di imbrogli.
Ad Alberto Gervasoni il tutto sembrò non poco strano, e sin
da subito pensò che il caso sarebbe stato a dir poco arduo
da risolvere. Sta di fatto che però la sua mente solo in
minima parte era impegnata dalle fagocitanti congetture volte a
dirimere il fumoso mistero, mentre per il resto era volta a pensare a
tutt’altro: e sì, Alberto Gervasoni si era
innamorato. Era cotto di quella milady.
E chi non lo sarebbe stato?
Alberto Gervasoni era sempre stato un cuore solitario, barricato nella
sua torre d’avorio a combattere i fantasmi
dell’ignoto ed i misteri più imperscrutabili. Per
quanto ne so io, non ha mai avuto una love story. E per love story non
va intesa solo la classica storia d’amore da film americano
strappalacrime, ma anche qualsiasi altra forma più o meno
marcata di scambio di sentimenti fra due persone. Insomma, per farla
breve, Alberto Gervasoni con molta probabilità non si era
mai innamorato in tutta la sua vita. E mai parlava di donne.
Ora il problema era questo: Alberto Gervasoni mi aveva sempre spiegato
che per risolvere un caso bisogna essere il più possibile
liberi da vincoli di ogni genere, avere la mente sgombra da qualsiasi
gravame e soprattutto non frapporre mai i propri sentimenti alla fredda
e razionale verità. Inoltre aggiungeva sempre che, o queste
condizioni venivano rispettate, oppure lui un caso non
l’avrebbe mai potuto assumere. La definiva
“deontologia professionale” tutta questa lunga e
vorticosa congettura.
Adesso, senza dubbio, questo teorema non poteva essere in alcun modo
rispettato, e di rigore Alberto Gervasoni avrebbe dovuto rassegnare le
proprie dimissioni e lasciare il caso. Però, abbandonare le
indagini sarebbe anche equivalso ad abbandonare la milady, forse per
sempre. E questo il suo cuore non l’avrebbe potuto mai
accettare.
Si era, insomma, proprio di fronte ad un bivio: cosa avrebbe dovuto
fare Alberto Gervasoni?
In quei giorni, dire che appariva ai miei occhi pensieroso e
preoccupato è a dir poco un eufemismo. Ed alla fine si
giunse, con fatica di tutti, alla conclusione più
irrazionale ma al contempo più logica: assecondare il cuore
facendo un piccolo torto alla mente.
Mai e poi mai Alberto Gervasoni avrebbe però ammesso questa
sua “sgarrata”, questa sua deviazione rispetto ai
suoi granitici principi professionali: e così, ad ogni
apprezzamento che gli veniva fatto sulla sua cliente (sotto il profilo
estetico, si intende…), lui storceva ogni volta il naso,
glissando sul punto, quasi a voler dimostrare in maniera inconfutabile
la propria freddezza e l’assoluta mancanza
d’interesse che nutriva verso la milady.
Tutte cose false, che però erano necessarie a mantenere
integro il suo onore e la sua reputazione di detective.
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