Disclaimer: Come sempre niente
del mondo e personaggi della Rowling mi appartiene; non scrivo a scopo
di lucro
ma solo perché faccio di tutto pur di non studiare al
momento.
Note: Non so perché ho avuto
questa malsana idea di iniziare una cosa simile. Comunque, dato che la
Rowling
mi ha fatto l’ennesimo dispetto e sono avversa alla famiglia
Greengrass (Daphne
e la sua innocenza escluse) e amo Draco e Pansy, ecco il tutto.
Se
la coppia non vi piace ma volete leggere lo stesso, siete pregati di
non farmi sapere quanto la coppia vi disgusti, perché
avrebbe poco senso.
Grazie. Per il resto, ci sarà qualcosa di OOC forse, su
quello potete
legittimamente inveire, se vi parrà opportuno =)
Metto le mani avanti in merito a qualcosa: Blaise Zabini e l'amicizia con Pansy e Draco, che la Rowling non ha specificato. Blaise Zabini e il suo essere un seguace di Petronio. Credo ci sia dell'altro sparso un pò qui e là, sono licenze autorali che forse non avrei dovuto permettermi ma è il vantaggio di non essere romanzieri di professione ^^ Merci.
The
way we
were
I
Lisce,
leggere, calde.
Memories
light the corners of my mind
Misty water-colored memories of the way we were
Scattered pictures of the smiles we left behind
Smiles we gave to one another for the way we were
[The
way we were – Barbra Streisand]
Avevo un
ricordo
ben preciso dell’ultima volta che sul mio viso era comparsa
quell’espressione
che la gente comune – quella che non vanta un padre latitante
e un futuro
appeso ad un filo mosso da un Lord Oscuro con manie di assolutismo
– avrebbe
potuto definire spensierata.
Erano le
vacanze
di Pasqua del quinto anno, quei quattordici giorni di respiro rubati
alla
soffocante coltre di ostinato buonismo e cieco pregiudizio che
ammantava la
bella Hogwarts, patria di giovani maghi in formazione, volti verso un
brillante
futuro che, ottusi com’erano, neanche avrebbero distinto.
Nel mio
ricordo
compaiono Draco e Blaise, e mi sembra superfluo aggiungerlo ora che in
piedi
sull’orlo, posso osservare tutto dall’alto, fredda
e distaccata: qualsiasi cosa
mi sia capitata nella vita, in un modo o nell’altro loro
erano intorno a me, e
se non c’erano, quel qualcosa era strettamente legato ad uno
dei due. Quando
coinvolgeva entrambi, di solito era un guaio.
Quel giorno
di
Aprile camminavamo per le strade di Provenza, tra accenti e colori
francesi. Io
e Blaise procedevamo affiancati ballando scioccamente al ritmo di una
vecchia
canzone di vent’anni prima; indossavo degli improbabili
occhiali da sole, e la
cravatta da studente di Blaise era appesa alla sua spalla in precario
equilibrio ai suoi passi cadenzati. Alle nostre spalle, alle mie spalle, c’era Draco, in
tutta la sua
composta eleganza. Avanzava per la strada, dietro di noi, mani in tasca
e un
ghigno appena accennato a piegargli le labbra in nostra direzione, e
nascosto
in quel ghigno, un sorriso velato, per cui sarebbe morto se avesse
corso il
rischio che noi lo notassimo. Io e Blaise lo avevamo notato, e non
abbiamo
detto niente. Con Draco funziona così. Ti dà modo
di amarlo per queste piccole
cose (e di odiarlo per tutto il resto, che appare sempre come di
contorno in confronto)
ma di nascosto.
Scosse la
testa
quando mi sentì accennare il motivetto della canzone,
così sciocca se
consideravo le interminabili sonate per pianoforte che deliziavano
tanto mio
padre. Era troppo compiaciuto per avermi imposto di fare qualcosa che
lo
soddisfacesse per poter far caso all’espressione sul mio
viso, o alla più
totale freddezza con cui spingevo un tasto dietro l’altro
sperando di arrivare
presto alla fine. E mentre Draco scuoteva la testa e Blaise mi
afferrava
gentilmente il polso facendomi volteggiare verso di lui, pensai che era
in quel
modo che dovessero andare le cose: lisce,
come una canzone anni sessanta; leggere,
come il cotone della divisa libera del mantello ornato dallo stemma di
una
casata, accuratamente dimenticato sul pomello del letto, in Dormitorio;
e calde, come la luce del sole che
mi
batteva sulla pelle.
Così
ho imparato
che i desideri non sono cosa da tutti, e che se non volevo ferirmi
più di
quanto mi spettasse, non avrei dovuto farlo più. Desiderare
qualcosa per me.
Quelle erano
le
vacanze di Pasqua del 1997, Pansy Draco e
Blaise, strada di Provenza.
L’ultimo
ricordo
che ad essere rievocato non mi avrebbe tolto il respiro. Avrei fatto
bene a
tenermelo stretto. Ed è quello che ho fatto. Per tutto
questo tempo.
●●●
Il tempo dal
canto suo aveva fatto la propria strada, e rincorso se stesso senza
sosta,
fedele al suo imperdonabile cinismo, ignorando impietoso le
necessità e i
desideri di chi travolge lungo la sua corsa inarrestabile, esente dal
giusto o
dall’ingiusto come le leggi sottese che governano la vita.
Pansy
Parkinson,
abile trasformista, aveva imparato ad accettare l’idea che le
cose stessero
così e che niente fosse in suo potere se non aggirarle e
plasmarle a proprio
favore, ma mai, in nessun modo, modificarle.
Quindi con
il
passare degli anni e il succedersi delle vicende umane –
tragiche o comiche che
fossero – aveva anche imparato a riporre in un luogo nascosto
tra la sua mente
e il suo cuore ogni piccolo desiderio a cui era stata costretta a
rinunciare
momentaneamente.
Ne aveva un
cassetto pieno e lo custodiva gelosamente. L’ultimo ripiano
di quel cassetto
conteneva quello più bello e doloroso, quello da cui era
fuggita con una
ostinazione proporzionale solo all’intensità con
cui lo aveva voluto per sé.
Lì
aveva riposto
Draco Malfoy, con una stretta sul cuore e un nodo alla gola; con la
ferma
decisione di una bambina che accetta di diventare grande; con la
consapevolezza
che quello sarebbe rimasto il suo posto per sempre e che mai vi avrebbe
fatto visita
con il ricordo, o avrebbe corso il rischio di rovinare tutto e chiudere
se
stessa in quel cassetto con lui.
●●●
La Sala si
apriva agli occhi del visitatore in tutta la sua magnificenza,
sobriamente
addobbata con decorazioni eleganti, in un’armonia di colori e
forme da fare
invidia alla più classica delle costruzioni di
età greca. Ogni particolare
aveva trovato la propria soddisfazione, ogni cosa al suo posto, ogni
colore
accostato al giusto compagno corrispondente. La luce del giorno
filtrava con parsimonia
dalle tende di broccato appena tirate, quel tanto che basta da lasciar
intravedere la vista sul giardino, curato da mani esperte e care agli
alberi
dalle sementi rigogliose fatti piantare anni addietro, con
l’intenzione di
rendere in futuro l’effetto splendente che quel giorno
colorava l’intero
palazzo.
Secondo il
detto
per cui gli elfi domestici assomigliano al padrone, non c’era
niente che
sfuggisse alle regole di ordine e misura, un trionfo di apollinea
perfezione
come la signora aveva deciso che
dovesse essere, lottando contro il volgare gusto
dell’ostentazione di quelli
che di lì a poco sarebbero divenuti suoi parenti per tutta
la vita. Una vita
che per quanto la riguardava, si augurava dovesse durare il minimo
indispensabile per ottenere qualche piccola rivincita e momento di
piacere, e
non si protraesse oltre, costringendola a fare i conti con una
vecchiaia non
voluta e una voragine al centro del petto, dove per chi ci crede
risiede
un’anima.
Nell’immacolata
staticità di quella sala da ricevimento, sette teste amorfe
scattarono
d’improvviso nel percepire il netto rimbombo di tacchi
sottili risuonare dietro
la porta di ingresso. Il più anziano degli elfi domestici, a
servizio quasi da
un secolo presso la facoltosa famiglia dei Nott, radunò con
un solo cenno della
testa tutti gli altri inservienti, disponendoli in linea retta dinanzi
alla
porta, pronti a chinare il capo in riverenza e a mostrare gli esiti del
loro
lavoro.
Tuttavia,
risultò ovvio a tutti che non fosse necessario allarmarsi
più di tanto, nel
momento in cui la porta del salone venne maldestramente aperta. La
padrona non
faceva mai niente con malagrazia, più per una dote di natura
che per reale
intenzione.
Semplicemente,
pur volendo, non era in grado di risultare goffa in qualcosa.
Millicent
Bullstrode ne sapeva qualcosa, destinata a rimanere
nell’ombra dei propri sogni
irrealizzabili; schiacciata dal peso di un cognome che mal si accosta a
qualsiasi altro – produce
un suono
cacofonico in ogni caso, farebbe notare Blaise Zabini in uno dei suoi
letali e
magnifici sorrisi abbaglianti – e che da sempre aveva
confinato se stessa nel
ruolo di damigella d’onore.
L’onore
per
altro le era dovuto dalla totale assenza di altre pretendenti al ruolo,
più che
per qualche sua dote, o prestanza fisica o particolare affezione da
parte della
sposa nei suoi riguardi.
Per inciso
la
sposa era la quintessenza dell’insofferenza e del netto
rifiuto a qualsiasi
forma di legame sociale, senza contare la niente affatto momentanea
indisposizione con cui si apprestava a vedere celebrare le proprie
nozze.
Con queste
consapevolezze ben impresse nella testa e una scatola per la sposa
saldamente
impugnata tra le mani, Millicent varcava la soglia del salone in quel
pomeriggio di novembre, ammirando la punta delle scarpe nuove riflessa
sul
marmo lucido sotto i suoi piedi e preparandosi psicologicamente ad
affrontare
uno degli incontri più pericolosi della sua vita.
Molte
persone
nell’arco della loro esistenza hanno finito con il desiderare
di essere Blaise
Zabini almeno per una volta, che vogliano accettarlo o meno, ammetterlo
o
negarlo, è certo che è successo. Chi
perché Blaise Zabini aveva una classe
innata e intrinseca; chi per il patrimonio che gli permetteva di
acquistare
capi che sottolineassero sfacciatamente quella eleganza; chi
perché era una
mente tanto brillante da non essere minimamente portato per la
aritmanzia ma
avere inspiegabilmente i voti più alti della classe.
C’era anche chi lo
invidiava perché volendo avrebbe potuto avere chiunque nel
suo letto ogni sera,
potendo scegliere persino l’orientamento sessuale del giorno,
non avrebbe fatto
differenza, uomini o donne, chiunque almeno una volta ha desiderato
finire
sotto le sue coperte con lui accanto.
C’era
poi chi
voleva essere Blaise Zabini per il semplice motivo che era il migliore
amico di
Pansy Parkinson, e non avrebbe avuto mai alcun genere di problema nel
doversi
rapportare con lei.
Tra queste
persone spiccava il nome di Millicent Bullstrode, dilaniata da un non
indifferente conflitto di interessi: se da una parte desiderava avere
la
benevolenza che Pansy riservava solo a lui, ed essere quindi Blaise
Zabini,
dall’altra parte voleva anche finire nel suo letto, ed essere
quindi con Blaise
Zabini. Questo indicibile tormento interiore andava avanti dai suoi
undici
anni, tuttavia forse era giunto il momento di attribuirgli
l’importanza dovuta
una volta tanto, considerando che con molte probabilità la
sua vita finiva quel
giorno, a ventidue anni, nella camera da
letto di Pansy Parkinson, Nott Manor, Novembre 2004.
●●●
«Dove
corre, Madmoiselle?»
Le
intenzioni di
Millicent vennero fermate dalla voce di qualcuno poco distante da lei.
Volgendosi indietro, ebbe modo di notare Blaise Zabini, posatamente
seduto in
un angolo del divano nel salone, intento a sorseggiare del brandy che
aveva
tranquillamente ordinato come se fosse a casa sua. Fingendo di non aver
trascorso sette lunghi anni a morire dietro la scia del suo profumo e
l’orma
dei suoi passi, Millicent si schiarì la voce approntando un
sorriso.
«Devo
portare
queste a Pansy» rispose cercando di non guardarlo troppo a
lungo e mostrando il
plico delle partecipazioni che aveva in mano. Blaise la
squadrò senza battere
ciglio, prendendo un sorso di brandy e gustandone il sapore sulle
labbra. Di
nuovo, Millicent finse di non voler essere il contenuto di quel
bicchiere.
«Capito»
fu la
risposta, accompagnata da un sopracciglio aristocraticamente inarcato
in
posizione di divertito scetticismo, e un sorriso sornione sulle labbra
chiare.
Se solo fosse stato un po’ più eloquente,
Millicent avrebbe potuto trarre
conclusioni certe, senza doversi domandare se quell’aria
minacciosa di
avvertimento che aveva assunto fosse o meno una sua impressione.
«Pansy
è di
sopra?» domandò con fare pratico, fremendo appena.
Blaise annuì senza perdere
quel sorriso indefinito.
«Nel
suo loculo.
Pardon, intendevo dire camera
nuziale»
si corresse mentre il sorriso mellifluo di poco prima lasciava il posto
ad un
bieco sarcasmo, per quanto filtrato dal tono carezzevole della sua voce.
Millicent
mise
da parte tutto l’amore che aveva per lui e lo
fulminò con lo sguardo,
riprendendo la propria strada.
«Non
le sei di
grande aiuto, Blaise, lo sai?» non poté fare a
meno di soggiungere a pochi
passi dalla rampa di marmo bianco che portava al piano superiore.
Blaise le
sorrise più indulgente, restando in silenzio per un
po’. Lo sguardo adagiato
sul piano in cristallo del tavolo che aveva davanti, sembrava stesse
scrutando
una verità più profonda nascosta nella goccia di
liquore scivolata dal
bicchiere.
«Non
è nei miei
piani esserlo».
Ancora
più
infastidita Millicent gli voltò definitivamente le spalle.
Del resto quel
legame tra Blaise e Pansy lei non era mai riuscita a comprenderlo.
Aveva sempre
pensato che forse c’era troppa affinità tra quei
due perché un terzo potesse
avere voce in capitolo, ma se così fosse stato, era
costretta a chiedersi quale
fosse il ruolo di Draco Malfoy lì in mezzo. Decisamente
strano, continuava a
ripetersi tutte le volte che finiva con il pensarci. Ogni tanto aveva
provato a
chiedere a Pansy di spiegarle come fosse successo che lei, Blaise e
Draco
fossero diventati tanto amici, ma non otteneva mai risposte. Un
po’ perché
Pansy non era a proprio agio con le domande, un po’
perché infondo una vera
risposta non l’aveva neanche lei probabilmente, non
esprimibile a parole
quantomeno. Di certo però tutti e tre nascondevano
accuratamente agli altri la
chiave di volta di quel loro legame, e nessuno era mai riuscito a
trovare quel
nascondiglio. Erano stati dei custodi astuti, schivi, silenziosi ed
irridenti.
Tipicamente Slytherin.
●●●
Can it be that it was all so
simple then
Or has time rewritten every line
If we had the chance to do it
all again,
Tell me, would we, could we?
[The way we were –
Barbra Streisand]
Tuttavia
parlare
di Draco Malfoy adesso non era
certamente una buona idea, e onestamente Millicent non riusciva a
capire
neanche come potesse Pansy trovare del conforto nel frequentare ancora
Blaise
Zabini, quando non faceva altro che sbatterle in faccia il fatto che il
trio
d’argento si era diviso da tempo, ormai.
Ben inteso
che a
lei non potesse che fare piacere, aveva molte più occasioni
di girare intorno a
lui in quel modo, ma le sembrava inequivocabile l’assenza che
permeava ogni
loro silenzio da quando gli anni di Hogwarts erano finiti e Draco
Malfoy e
Pansy Parkinson avevano smesso di rivolgersi la parola, di guardarsi,
di
incontrarsi, in qualsivoglia occasione.
«Pansy?»
domandò
bussando leggermente alla porta. Dall’interno non giunse
alcuna risposta se non
un fruscio di vestiti e un sospiro. Pensando che con molta
probabilità stava
provando il vestito per il ricevimento di quella sera, Millicent
sospinse la
porta ed entrò nella stanza immersa nella penombra, offrendo
un sorriso
conciliante all’amica.
«Volevo
chiedere
un parere a Blaise, visto che ha un indubbio buongusto, ma mi ha
infastidito
come al solito e ho lasciato perdere» comunicò
sfogliando le diverse tipologie
di partecipazione fino a trovare il prototipo che le sembrava
più appropriato. «Secondo-
».
In piedi su
quello che comunemente verrebbe chiamato sgabello da sartoria, Pansy
sembrava
poggiata su un piedistallo, avvolta nel bianco del suo vestito da
sposa,
lasciava che il tessuto di seta fine le fasciasse il corpo mentre
ruotava di
mezzo giro sulle punte, per potersi guardare meglio nello specchio.
Aveva lasciato
le tende semichiuse, così tutto quello che svettava nella
penombra della stanza
era il candore luminescente del vestito e la luce dei suoi occhi scuri,
fissi
nello specchio, eppure incredibilmente lontani.
Millicent
non
mosse un passo, restando a guardarla. I capelli neri erano raccolti in
uno
chignon approntato alla svelta poco dopo il risveglio, alcune ciocche
le erano
scivolate sul viso, adombrando la sua pelle chiara. Non le era mai
parsa tanto
bella e fragile come in quel momento, pensò distogliendo lo
sguardo come
abbagliata.
«Sei
bellissima».
Quella frase
era
risuonata nella stanza come fosse colpevole, mormorata flebilmente come
fosse
un’accusa o una verità scomoda e sconveniente da
dover tenere nascosta.
Millicent sapeva che Pansy non voleva sentirselo dire, ma era
così palese,
quanto fosse diventata bella nel tempo, che non aveva potuto fare a
meno di
rendere giustizia alla verità e lasciarselo sfuggire a mezza
voce, in un
respiro mozzato.
Alle sue
parole
tutto quello finì.
Pansy scese
dalle
punte, tornando ferma sulle piante dei piedi, gli occhi abbandonarono
il
riflesso di se stessi dallo specchio, e recuperando la bacchetta Pansy
ordinò
alle tende di aprirsi alla giornata. La luce della mattina
inondò la stanza,
travolgendo la figura esile di Pansy e macchiando di colore il bianco
perfetto
del vestito. Lo chignon si disfece del tutto mentre la regina di
ghiaccio
scendeva dal suo piedistallo e si toglieva il vestito da cigno. Con una
morsa
allo stomaco ancora più colpevole, Millicent non
poté fare a meno di pensare
che era comunque troppo tardi per rinnegare, e che se fosse stato
lì in quel
momento, Draco Malfoy l’avrebbe trovata ugualmente bella. Con
i capelli sparsi
disordinatamente sulle spalle, un vestito troppo lungo e, soprattutto,
con il
cuore spezzato dal susseguirsi di eventi della sua vita.
«Fa
vedere»
replicò ignorando il commento di prima.
Non avrebbe
permesso a nessuno di trovarla bella. Qualunque osservazione, qualunque
complimento che le venisse rivolto aveva il potere di farla
innervosire, di
mandare in pezzi il suo autocontrollo, di violentare la sua
intimità. Nessun
altro avrebbe dovuto posare gli occhi su di lei, a stento permetteva a
suo
marito di toccarla; quando facevano l’amore lei teneva gli
occhi chiusi e
approfittava della distrazione nell’estasi di Theodore per
poter cercare una
via di fuga in cui annidare i propri pensieri fino a quando tutto
quello non
fosse finito.
Millicent le
porse i cartoncini, sbottonando per lei la chiusura del vestito. La
seta
scivolava tra le dita con la stessa fuggevolezza con cui Pansy evitava
lo
sguardo di chi la conoscesse troppo bene.
«Blaise
è ancora
qui?» domandò continuando a scorrere i modelli di
partecipazione, con una
velocità che rasentava quasi la frenesia.
«Beve
brandy nella
Sala da Ricevimento» rispose Millicent lasciando trapelare in
tutta onestà un
certo astio nella voce. Le labbra di Pansy si adagiarono nella
morbidezza di un
sorriso lontano.
«Con
quel suo
impeccabile manierismo, riesce ad offuscare del tutto la maleducazione
del
gesto in sé» proseguì mentre Pansy
lasciava cadere il vestito ai propri piedi,
dimenticandolo in terra mentre trovava qualcos’altro da
mettere addosso.
«Sembra
che non
si ponga mai alcun problema lui, come ad esempio cosa
penserà Theodore del fatto
che qualcuno beve tutto il suo brandy».
Pansy
scrollò le
spalle con indifferenza, portando un pettine tra i capelli, davanti
allo
specchio.
Millicent si
domandò se avesse sentito anche mezza parola di quanto le
aveva detto, e notò
che aveva lo stesso sguardo lontano e sornione di Blaise poco prima,
tutto
preso a guardare quella goccia di liquore.
«Theodore
non
sopporta il brandy. Lo trova stucchevole».
Millicent le
lanciò un’occhiata sbalordita, ma non
riuscì a perforare la coltre di pensieri
segreti che Pansy condivideva con la propria immagine nello specchio.
Così
a Nott
Manor c’era una riserva speciale di Brandy per il signor
Zabini.
«Pans.
Certe
volte mi chiedo come faccia Theodore a sopportare tutto
questo».
Ammise
lasciandosi cadere sul letto con un sospiro.
Pansy le
offrì
un sorriso un po’ triste.
«Non
poteva
avermi ad altre condizioni».
What’s next
“Forse tra tutti e due, poteva credere di
amare più lui Pansy Parkinson di Draco Malfoy.
Si era dovuto ricredere, quando aveva
assistito di nascosto all’ultimo sguardo che lui le
lanciò.”
“Cosa mi avresti detto, Blaise? Se non ti
avessi detto che mi sposo.”
Chiese infine, con la dolcezza di un
perdono.
Lui non aspettava altro che il permesso di
poter cedere.
“L’ho visto”.
|