Sung'bar, dihe 12, Vaedhorri, 2 henn del III Chranhenn.
Mi ci è voluto del tempo per
raccogliere e dare una forma ed un senso alla gran quantità
di materiale che ho accumulato durante e dopo i fatti che sto per
raccontare. La parte più difficile è stata
proprio parlare con colei che mi era stata più vicina, tra
tutti coloro che ho incontrato. Nonostante avessi passato giorni e
giorni in sua compagnia, non ero riuscito ad avere tutte le
informazioni di cui avevo bisogno per quest'opera, perché
lei doveva andare incontro al destino che si era scelta per poter
vivere come lei desiderava. Grazie al Fato, mi è possibile
dire di conoscerla piuttosto a fondo, o quantomeno di capirla meglio di
molti, anche se sempre meno dell'unico uomo con cui abbia condiviso la
sua intera esistenza e che non la abbandonerà tanto
facilmente. Perché dopo averla scoperta davvero non la si
può lasciare, non ci si può allontanare da lei,
prima di sentire un gran vuoto.
Quel che vi sto presentando non è una ballata, né
un poema epico; non è un racconto di guerra, né
una storiografia; non si può definire la vita di tutte
queste persone, Uomini, Elfi, Lucenti, Inferi, Divinità, che
hanno vissuto questo momento cruciale della storia del Mondo Profano,
con poche parole. Proprio per questo ho scritto questo lungo alternarsi
di voci, pensieri e fatti che portarono alla fine del Secondo Grande
Anno, per tramandare ai posteri, nel modo più efficace e
realistico possibile, le gesta dell'Esercito della Fenice, di grandi
dei e di instancabili Inferi. Perché tutto questo non venga
dimenticato e sia trattato come si deve, cosa possibile solo a chi ha
vissuto direttamente tutto questo. Cioè io.
Potrò sembrare presuntuoso, ma non è da me
vantarmi. Sono solo realista e metto ciò in chiaro sin da
subito. Forse nel parlare di qualche protagonista sarò un
po' imparziale, ma starà a voi scegliere se accettare la mia
visione o vedere la verità senza il filtro delle mie parole,
come ha sempre cercato di fare Lei. Non sono mai stato un uomo dalla
mente aperta, nonostante non possa permettermelo vista la mia natura,
ma proprio per questo motivo ho incontrato sul cammino della mia vita
quella donna.
A Lei dedico questa mia fatica, sperando che al suo risveglio le capiti
una copia del mio lavoro tra le sue mani oramai immortali. Spero anche
che il suo eterno amato mi perdoni per aver osato tanto, lui
comprende quel che provo.
Lo capisce, lo conosce, lo vive.
Buona
lettura,
A.
I.
Sung’bar
Il Myurohon lasciò alle sue spalle la
pianura del Regno del Nord, addentrandosi nella savana, al confine dei
Campi di Sangue, avanzando instancabile, mettendo un piede davanti
all'altro, rapido e spedito. Gli era stato dato un ordine e lo avrebbe
portato a termine a qualsiasi costo. Nella sua mente, solitamente
vuota, riecheggiavano solo le parole del suo Manipolatore. Non vedeva,
non emetteva altro suono se non qualche verso inarticolato, non provava
fatica né stanchezza. Il soldato perfetto per l'esercito
delle Divinità. Un non-morto, uno zombi senz'anima e senza
sentimenti.
Vai a Sung'bar e segui
ogni suo movimento.
Non si poneva alcuna domanda riguardo a quell'ordine privo di alcun
senso per lui. Non pensava, non gli serviva pensare. Lui doveva
eseguire e basta. Era inutile qualsiasi altra funzione che lo avrebbe
reso vivo. Il divino Al non aveva bisogno di compagni, amici, fedeli,
ma solo di schiavi. Quale miglior schiavo di un Myurohon?
I giorni passarono, i chilometri si susseguirono veloci, portando lo
zombi nel Deserto di Zinco, con le sue dune dorate e le terrificanti
creature che abitavano nel buio a miglia sotto terra. Havernio,
Cantabros, Svethios; poi la Notte con le sue ancelle Cathina
l'arancione, Hyustas viola, Illiriha la verde, la grande Elvitias
gialla ed infine Shillas la cremisi, per poi riprendere il ciclo
d'accapo. I Soli e le Lune si susseguivano, noncuranti di coloro che
illuminavano dall'alto della loro dimora. Ed il Myurohon proseguiva
imperterrito verso la carovana che si iniziava ad intravedere
all'orizzonte. Poco più di una giornata di cammino e
l'avrebbe raggiunta.
Il soldato continuò a camminare anche di notte, non aveva
bisogno di dormire. Si fermò solo quando sentì la
Voce di qualcuno molto potente investire tutto il deserto al suo
passaggio. La forza di quella mente lo investì in pieno,
raggelandolo e facendogli quasi dimenticare gli ordini ricevuti. Quasi: essi,
infatti, erano stati impressi molto in profondità,
perché il suo Manipolatore non voleva disattendere il volere
del suo sovrano. Non volontariamente.
Ci volle un po' perché il Myurohon si riprendesse e
ripartisse. Aumentò il passo, andando quanto più
veloce gli permetteva la sabbia sottile del Deserto di Zinco, che gli
bruciava i piedi sotto i Soli cocenti. La carovana era sempre
più vicina e, non appena Svethios calò, il gruppo
di uomini, cammelli e cavalli del deserto si accampò. Era
fatta, li aveva quasi raggiunti.
Le tende furono montate e, dopo un veloce pasto, gran parte delle luci
fu spenta e alcuni soldati rimasero svegli per la ronda, mentre un
grosso fuoco al centro dell'accampamento rischiarava la notte, aiutato
dalle Lune. Il Myurohon si appostò su una duna sopra la
carovana ferma e si distese sulla sabbia, poggiato sui gomiti. Avrebbe
atteso lì, a distanza di sicurezza, che il gruppo
riprendesse il viaggio per eseguire gli ordini che gli erano stati dati.
La rena fu smossa da qualcosa. O qualcuno. Lo zombi si voltò
si scatto e, senza poterle vedere, si ritrovò due spade
puntate alla gola, uno spadone a due mani ed un'elegante sciabola
snella e lucente. Gli occhi bianchi, le cui pupille si erano rivolte
verso l'interno della testa quando era stato richiamato alla vita dal
negromante, rimasero fissi nel vuoto, ma se ne avesse avuto la
possibilità li avrebbe sollevati.
«Un Myurohon», osservò una voce
maschile, profonda e seria.
«Dannazione, cosa ci fa qui?», si
lamentò una ragazza.
«Non ne ho idea...»
Lo spadone si allontanò dal collo del Myurohon e l'uomo si
accovacciò davanti allo zombi, fissandolo curioso.
«È innocuo, non penso gli sia stato ordinato di
uccidere».
«Non mi fido. Uccidiamolo».
La sciabola premette contro la gola del soldato delle
Divinità ed una goccia di sangue nero scivolò
lungo la pelle, incontrando le cuciture sul collo, che gli permettevano
di avere il capo attaccato al busto.
«Fate quel che vi pare, dopotutto siete voi la
regina.» si arrese l'uomo, mettendosi in piedi.
La ragazza sollevò il braccio sinistro, con cui reggeva la
sciabola, e calò il fendente mortale sul Myurohon, che
rimase immobile davanti alla distruzione, senza poter reagire in alcun
modo. Perché non gli era stato ordinato. E perché
la sua morte non valeva niente.
Era solo un granello di sabbia, nulla più.
Una goccia scivolò lenta dal ghiaccio alla schiena nuda del
dio. I sensi risvegliati del signore dei Venti gli permisero di
sentirla ed accoglierla con gioia e piacere. La sua prigionia era
giunta al termine.
Avrebbe voluto stiracchiarsi, ma aveva le braccia bloccate da catene ed
il resto del corpo dal blocco d'acqua congelata. La sua prigione. La
sua gabbia. Tutto per un capriccio di Al. Non sapeva bene
perché, ma qualcosa in lui gli diceva che era quel dannato
la causa di tutto ciò. E
perché, poi?
Non trovando la risposta, rimase in attesa. Anche la memoria sarebbe
tornata, con calma, assieme alla libertà. Che fretta c'era?
Dopotutto aveva l'eternità. Seicento anni rinchiuso in una
cripta ghiacciata, al centro di una collina nel Regno d'Ovest, non
erano nulla.
La rabbia lo pervase e lui si agitò, furente. Sì, che
erano qualcosa. Un ricordo doloroso lo assalì e gli venne
voglia di gridare, senza però che la voce si liberasse dalla
sua gola. Strattonò ancora le catene, che si rifiutarono di
lasciarlo libero. Continuò a ribellarsi come una belva in
gabbia, inferocito e disperato, mentre i ricordi gli annebbiavano la
mente e lo dilaniavano. Cercò di urlare, di nuovo, e gli
uscì solo un cupo ruggito. Si abbandonò, stremato.
Doveva attendere e pazientare. Ancora
un po'.
Helena si rigirò nel letto, sempre più avvolta
nelle lenzuola, finendo per far impigliare le gambe nella stoffa della
camicia da notte. Poi, spazientita, si liberò dalle coperte
e scese dal baldacchino. Doveva fare altro, doveva distrarsi, era
orribile passare la notte insonne. S'infilò le pantofole ed
una vestaglia, cercò qualcosa per far luce, ma alla fine si
accontentò di usare la magia.
«Lahat».
(1)
Una sfera di luce si
materializzò davanti a lei e rimase fluttuante in quella
posizione, finché Helena non si mosse, diretta verso la
specchiera. Si guardò e fece una smorfia contrariata. Aveva
delle occhiaie spaventose ed i capelli corti e biondi arruffati. Ma
quelli non erano un grosso problema. Afferrò una spazzola e
li fece tornare l'ordinato caschetto dal taglio scalato di sempre.
Gettò un altro sguardo al suo riflesso e incontrò
di nuovo i suoi occhi azzurri, cerchiati di viola, nello specchio. Per
fortuna Marihus era con Alexya, altrimenti il mattino dopo si sarebbe
lamentato perché non era stata capace, ancora una volta, a
dormire in santa pace.
Ma non ci posso fare
niente, si consolò Helena, voltando le spalle
al suo clone sul vetro. Si passò le mani sul volto e poi
decise cosa fare. Dato che era preoccupata, sarebbe andata a placare i
suoi timori. Nello studio, dunque.
Uscì dalla camera da letto, con le pareti rivestite di
tessuto spesso e pregiato, passando nel soggiorno dai muri affrescati,
in un perfetto ordine quasi innaturale. Si trovò nel
corridoio dell'ultimo piano dello Smeraldo, il palazzo reale del Regno
d'Ovest, a poca distanza da Borgo Smeraldo, la capitale che si
estendeva ai piedi della colline del palazzo reale, fino alla costa
sabbiosa. Si avviò verso le scale di marmo chiaro e le
scese, silenziosa.
Tutto il castello dormiva nell'oscurità, a malapena
rischiarata dalle Lune velate da nubi. Beati loro,
sospirò tra sé la donna. Sollevò da
terra un lembo della vestaglia che rischiava di farla inciampare ed
andò avanti, preceduta dalla piccola sfera di luce.
Giunse fino al pianterreno e svoltò a destra verso un
corridoio più ampio degli altri, percorso da nicchie in cui
avevano trovato alloggio le statue dei precedenti re. Erano parecchi,
così quelli più antichi erano stati tolti di
mezzo, eccezion fatta per il fondatore del regno, Anathor, e le sue
prime regine, le capostipiti delle due famiglie reali, Lahacilla e
Thenesha.
Helena lanciò un rapido sguardo ai suoi antenati, sentendosi
i loro occhi addosso. Sembra quasi che la stessero biasimando per la
sua ansia e preoccupazione eccessiva. Pensa a te stessa e vai a dormire,
parevano dirle, rimproverandola severi. O forse era il suo subconscio.
Scosse la testa. Doveva calmarsi, in qualsiasi modo, o non sarebbe
riuscita a chiudere occhio.
La donna arrivò nella sala dei due troni, in legno con la
seduta e lo schienale imbottiti, alle cui spalle pendeva enorme lo
stendardo verde del Regno d'Ovest, uno smeraldo davanti a due armi
incrociate, uno spadone a due mani ed una sciabola. Ai lati dei seggi
soprelevati, due porticine che quasi non si vedevano sulla parete
affrescata con scene mitologiche e finti marmi. Si diresse proprio
verso una di esse, vi posò la mano sul battente e spinse con
delicatezza e decisione. La porta si schiuse e lei la aprì
maggiormente, per accedere allo studio ordinato dietro di essa. Si
guardò intorno e si sentì frustrata. Come si
vedeva che non aveva avuto nient'altro da fare in quei giorni: le due
scrivanie, messe una di fronte all'altra, erano in perfetto ordine,
persino quella della cugina che aveva sempre mucchi di fogli e libri
sui lati; gli scaffali erano impeccabili, tutti i tomi erano messi
seguendo l'argomento e l'ordine alfabetico; i fiori nei vasi e le
piante erano perfettamente freschi e curati.
Helena lanciò uno sguardo alle sue spalle, verso la parete
delle porte e vide l'unica cosa che non c'era modo di rassettare: la
mappa dipinta sulla parete, la Terra dei Cinque Popoli si estendeva in
verticale sul muro, circondata dal Mare di Smeraldo ad Ovest e dal Gran
Mare di Zaffiro ed Est; sopra gli ingressi si intravedevano le Terre
della Magia che occupavano il resto del globo terrestre. La donna si
avvicinò alla pittura e vide i due dischi, uno bianco con
una L incisa sopra, uno nero con una T, che indicavano la posizione
delle due Regine d'Ovest. Quello di Helena era situato sulla scritta
“Borgo Smeraldo”. La pedina nera, invece, era a
poca distanza da Sung'bar, la città del deserto, nei Campi
di Sangue.
Alla vista del disco ancora aderente al muro, la regina bionda si
rasserenò, solo un poco. Fosse morta Alexya, lei avrebbe
trovato il tassello a terra. Helena sorrise e si diresse verso la sua
scrivania, rivolta verso la finestra. Aprì un cassetto e
prese il suo specchio per le comunicazioni, mettendolo in piedi con
l'apposito supporto. Non le era bastata la rassicurazione della mappa,
la sua ansia era dura a morire. Voleva controllare di persona e
quell'artificio magico l'avrebbe aiutata.
«Ojha-vuls
Alexya!» (2)
Lo specchio baluginò, come
reazione alla magia, e sul vetro apparve un cielo stellato.
Quell'oggetto permetteva di vedere chi si voleva attraverso qualsiasi
superficie riflettente presente dei pressi di tale persona.
Fece capolino nello specchio un viso maschile, giovane ma segnato dalle
fatiche della guerra e da una larga cicatrice che partiva dalla tempia
destra e finiva sullo stesso zigomo. Le folte sopracciglia si
inarcarono, in un moto di sorpresa. I capelli erano dello stesso colore
degli occhi, castani, tagliati corti e disordinati, con un codino alla
base del collo ornato da anellini che riprendevano il verde scuro della
divisa militare.
“Milady, mi avete fatto prendere un colpo”,
iniziò Johan, il capitano delle guardie reali.
Helena si corrucciò. «Non credevo che la mia vista
ti provocasse tali moti di orrore, Johan».
“No, per carità, milady! È solo che non
mi aspettavo di sentirvi di nuovo, oggi”, replicò
il soldato, a mo' di scusa, non troppo convinto delle sue parole. In
realtà la stava accusando: siete talmente ansiosa che non
vi è bastato parlare con vostra cugina tre ore fa.
Helena finse di non aver colto il reale significato delle parole di
Johan e chiese di parlare con Alexya.
Il capitano scosse il capo e si grattò il mento, dove la
barba sfatta gli provocava un fastidioso prurito. “Sono
spiacente, ma Alexya sta dormendo. Lei non può permettersi
occhiaie, dato che deve partecipare al Consiglio”.
La regina bionda aprì la bocca ed assunse un'espressione
contrariata, senza però dir nulla. Subito di
calmò, la rabbia non aveva mai trovato terreno fertile per
le sue radici, nella sua anima.
«Sta bene?», domandò, infine.
Johan sospirò, esasperato. “Certamente,
milady.” Guardò la donna riflessa nello scudo.
“Non dovete preoccuparvi di vostra cugina, ha raggiunto la
maggiore età e sa difendersi molto bene. Potrei persino
lasciarla senza guardia del corpo...” Il capitano vide la
regina precipitarsi a dare una risposta, ma glielo impedì:
“...se solo questo non fosse l'unico modo per impedirle di
avere sempre il vostro fiato sul collo. Dovete star tranquilla, vivere
la vostra vita, ad Alexya ci penso io. Ed anche il vecchio
Marihus.”
Vivere la mia vita,
quando mai?, si domandò con una nota amara
Helena, abbandonando la schiena contro la poltrona. Semplicemente il
suo essere regina le impediva di vivere la sua vita. Doveva pensare al
suo popolo, alla sua corte e pure stare attenta agli Anziani, anche se
sembravano più interessati alla rovina della cugina ventenne
che a quella di una donna matura come lei, sebbene solo sei anni
separassero la nascita delle due regine. Helena doveva anche badare ad
Alexya, che non le era sembrata tanto indipendente. Come poteva proprio
Johan, una delle stampelle che mantenevano in piedi la giovane regina,
dire a lei,
Helena dei Lahacilliarum,di non preoccuparsi del sangue del suo sangue?
«Va bene, va bene», lo accontentò la
bionda, giusto per far tacere il capitano. Poi osservò
meglio l'uomo e vide che portava sottobraccio una cassetta di legno
dipinto, che lei conosceva bene. «Johan, cosa ci fai con il
portagioie di Alexya sottobraccio?», domandò
sospettosa. «Non dovrò crederti un
ladro...»
Il capitano fece un gesto noncurante “Oh, non è
niente, milady, ho solo strappato il cuore a vostra cugina e lo
conservo con cura”.
Helena lo fulminò, non sopportava simili scherzetti.
«Johan», tuonò alterata.
L'uomo sorrise ed il suo volto parve tornare quello giovane e
tranquillo di un tempo. “Alexya ed io siamo andati a fare una
passeggiata ed abbiamo trovato un bel Myurohon tra le dune. Ovviamente vostra
cugina ha fatto quel che fa sempre quando si trova davanti ad
un'incognita: l'ha distrutto senza troppi complimenti. Questo a
dimostrare che Alexya è capacissima a badare a...”
«Cosa?!»
strillò Helena, balzando in avanti, gli occhi dilatati dalla
sorpresa. «Un Myurohon?
E cosa ci faceva lì?
Dovevate interrogarlo!»
Johan proseguì, ignorandola. “...se stessa. Fatto
a pezzi il Myurohon, ci siamo incamminati verso l'accampamento, ma
quello schifoso si è ricomposto, così ho dovuto
assistere a vostra cugina che si accaniva sullo zombi. Si è
sporcata il vestito, Marihus gliele ha dette di tutti i colori, anche
perché non c'è acqua e quella potabile non
possiamo sprecarla per lavare i vestiti. Alla fine, il Myurohon lo
abbiamo messo in questo portagioie per non farlo fuggire. Appena a
Sung'bar cercherò un negromante che lo uccida
definitivamente”.
Helena era sparita da davanti allo specchio.
“Milady?” la chiamò Johan, diverse volte.
«Taci,
maledetto soldato!» ordinò Helena, da qualche
parte nello studio. Attese di calmarsi, per tornare alla poltrona della
sua scrivania. «Mi stai dicendo che un Myurohon seguiva
mia cugina e che nessuno
si è preoccupato a capirne il motivo?»,
sibilò, massaggiandosi le tempie.
“Cosa volevate che rispondesse? I Myurohon non parlano, non
hanno lingua, e soprattutto il loro Manipolatore non ordinerebbe mai
che lo facciano.” L'espressione allegra e serena era svanita
dal volto di Johan, lasciando uno sguardo duro e spietato, quello di un
guerriero al servizio del trono d'Ovest.
Helena fu costretta ad accettare la dura realtà. Ma non si
dava pace. Se un soldato delle Divinità stava pedinando
Alexya, perché sapeva che era così, allora ci
doveva essere un motivo. Le tornarono in mente le parole della cugina,
la sera prima della partenza, il lampo di ribellione e sfida nei suoi
occhi mentre le annunciava cosa voleva proporre al Consiglio degli Otto
Sovrani. Qualcuno aveva ascoltato il loro discorso ed esso era giunto
fino alle orecchie del divino Al. Non vi era altra spiegazione.
La regina bionda si passò una mano sul viso. Poteva dire
addio al sonno. Non sarebbe più riuscita a dormire
finché non avesse avuto notizie di Alexya dopo il Consiglio.
Congedò Johan e si avvicinò alla parete alla sua
sinistra, nascosta da uno scaffale pieno zeppo di libri. Si
avvicinò all'unico libro che non seguiva nessun ordine
razionale, dalla copertina verde smeraldo, che recava inciso sul fronte
il titolo “La storia del Regno d'Ovest – Da Anathor
alla XXIII Famiglia”. Lo prese in mano, mentre infilava il
braccio libero nel posto lasciato vuoto dal tomo. Incontrò
una leva sul fondo della libreria e la ruotò verso destra.
La parete indietreggiò e si fermò con un tonfo.
Helena entrò nel varco lasciato libero dallo scaffale e
posò il libro verde per terra, lasciando l'ingresso aperto
alle sue spalle. Davanti a lei, nella più completa
oscurità, delle scale di fredda pietra grigia la condussero
fino ad un cunicolo, umido e stretto, terminante in una vasca a raso di
acqua cristallina che emetteva una lieve luce. La regina
abbandonò le pantofole ed attraversò la piscina
di purificazione, giungendo davanti ad una grande porta di legno
massiccio. Dai battenti emergevano le figure scolpite di Niharn, dea
dell'Aria, protettrice del Regno d'Ovest, e di suo figlio Zephiro, il
dio dei Venti, patrono della famiglia reale. Le loro mani reggevano
grossi anelli di ottone, che Helena tirò a sé per
aprire il portone.
Dinanzi a lei, la cripta nella roccia, illuminata da un'innaturale luce
azzurrina, si spalancò con le colonne eleganti che la
percorrevano in lunghezza, dividendola in cinque navate, il pavimento
di marmo celeste e, in fondo alla sala, l'altare col piano di zaffiro,
sopra il quale era sospeso un blocco di ghiaccio di forma piramidale.
Una goccia cadde sull'altare, dando il benvenuto alla gran sacerdotessa
di Zephiro.
Un botto e acqua da tutte le parti. Helena cadde all'indietro, gli
occhi sgranati, mentre il signore dei Venti libero dalla sua prigione
di ghiaccio atterrava sullo zaffiro dell'altare. Le ali azzurro cielo
erano spalancate e gocciolavano, il gonnellino con decorazioni
geometriche blu e verde chiaro era completamente zuppo, il corpo
statuario del dio era imperlato di gocce d'acqua.
La regina bionda deglutì a fatica, tenendo le mani premute
sul petto, mentre gli occhi scivolavano su Zephiro in piedi
sull'altare. Il dio ritrasse le splendide ali, che si ridussero ad un
tatuaggio sulle scapole. I chobi,
decorazioni per i capelli usate da poche Divinità antiche,
batterono contro il petto di marmo del signore dei Venti, attaccate
alle punte di due grosse ciocche di capelli turchesi che cadevano ai
lati del viso dai lineamenti spigolosi del dio, mentre il resto della
sua chioma era fermato dietro la testa da due bastoncini decorati
seguendo il motivo ad onde sfumate di blu dei chobi.
Zephiro lanciò uno sguardo curioso alla donna seduta per
terra ed il suo cuore si riempì di gratitudine. Erano state
le preghiere ardenti di quella donna a permettergli di tornare libero
più in fretta di quanto avesse previsto. Scese dall'altare
con un balzo aggraziato e si avvicinò alla regina bionda,
che lo fissava ancora a bocca aperta.
Il signore dei Venti si accovacciò davanti a lei e le
accarezzò un guancia. La sensazione della calda pelle umana
fu un accoglienza piacevole e dolorosa nel contempo. I ricordi che lo
avevano torturato durante il suo lento risveglio erano ancora vividi
nella sua mente, ma quella donna minuta e splendente sembrava adatta a
lenire la sua sofferenza.
«Posso sapere chi siete, milady?», le
domandò Zephiro, con un filo di voce, leggera e calda come
una brezza estiva, che Helena sentì chiaramente nella sua
testa.
La regina gli disse nome, famiglia di appartenenza ed il suo titolo. La
fronte di Zephiro si aggrottò un attimo, al passaggio di un
pensiero molesto, ma si rasserenò, come se non fosse
capitato nulla.
«Oh, milady, non posso far altro ringraziarvi»,
così dicendo le posò un delicato bacio sulla
frangia che copriva la fronte.
Helena restò immobile, non sapendo bene che fare. Quando era
stata investita gran sacerdotessa di Zephiro, le era stato detto che il
suo dio era imprigionato in quella cripta, ma con tutte le volte che si
era recata lì per pregare, il dio addormentato nel blocco di
ghiaccio non aveva mai dato segni di vita. Non capiva come fosse
possibile che quella notte il signore dei Venti fosse balzato fuori
dalla sua prigione. Quindi, quel giorno, era giunta la fine della sua
pena. Non poteva esserci altro motivo.
«Di cosa, divino?» domandò la donna, con
tono sommesso.
Zephiro le rivolse un sorriso dolce e le accarezzò di nuovo
la guancia, questa volta provando solo il piacere della carne calda e
vellutata di una donna umana. Gli Uomini gli erano sempre piaciuti per
quello, fragili e mortali come lui non era mai stato.
«Mi pare logico che non lo sappiate, ma per ripagarvi per
l'aiuto che mi avete dato sarò sempre al vostro fianco e vi
spiegherò quel che nessun altro conosce, oltre a noi
Divinità. Ma vi prego», si interruppe il dio dei
Venti. Posò le mani sulle braccia di Helena e la
sollevò da terra. Quando furono entrambi ritti in piedi vide
che la donna gli arrivava appena all'altezza delle sue spalle. Il suo
cuore si riempì di tenerezza. Così piccola,
così fragile, Helena gli sembrava una bella bambola.
Indietreggiò verso l'altare e si poggiò ad esso,
abbassandosi un po', per permettere alla regina di guardarlo negli
occhi.
Helena rimase incantata quando rivolse il suo sguardo verso quello del
dio. Era risaputo in tutto il Mondo Profano che il segno distintivo
delle Divinità, prima di qualsiasi altra cosa, erano i loro
occhi neri: nessun'altra creatura in tutto il globo poteva avere le
iridi color della tenebra, se non chi aveva nelle proprie vene sangue
divino; e comunque, gli occhi dei mezzosangue non erano di quel colore
così stupefacente, di ossidiana pura, di pece liquida,
capace di soggiogare all'istante. La regina finì nelle
catene di quello sguardo nero e solo il dio avrebbe potuto liberarla. E
lo fece, chiudendo gli occhi. Soltanto allora la donna notò
che il bistro con cui tutte le Divinità mettevano in risalto
la loro unicità non era presente. Vi erano dei rimasugli del
trucco nero degli occhi, ma erano privi d'importanza.
«Milady,» richiamò la sua attenzione
Zephiro, sfiorandole il viso con la punta delle dita.
«Ricordate quel che vi sto per dire. Le Divinità
maggiori hanno una capacità che le rende diverse a quelle
comuni: ogni volta che il loro nome viene pronunciato da una creatura
del Mondo Profano, esse acquistano potere. È così
che, grazie al vostro fervore religioso, io ho avuto il potere
necessario per liberarmi più in fretta dalla mia prigione.
Avete capito?»
Helena rimase senza parole. Ecco perché l'aveva ringraziata.
Chinò il capo, umilmente.
«Ho fatto solo ciò che era in mio dovere, divino.
Non avete nulla di cui ringraziarmi, non avete nessun debito nei miei
confronti», si affrettò a dire la regina.
Il dio dei Venti le afferrò il mento e la costrinse a
guardarlo negli occhi. La donna cadde ancora una volta
vittima dell'incanto del suo sguardo di pece liquida.
«Non mi interessa, Vostra Grazia, io ho deciso
così. Perciò accettate la mia offerta, altrimenti
potrei prenderle il vostro rifiuto come un'offesa».
Sconfitta, Helena annuì e chiese perdono per il suo
comportamento. Zephiro sorrise.
«Mi pregavate di aiutare vostra cugina. Per quale
motivo?», domandò il dio, prendendo la mano della
regina ed avviandosi verso l'uscita dalla cripta.
Helena si tormentò il labbro inferiore, prima di rispondere.
«Ha in mente idee che la metteranno in una posizione
pericolosa di fronte al divino Al», biascicò la
donna. Nella sua mente tornò prepotente il ricordo del
discorso prima della partenza.
La Guerra Millenaria,
cugina. Io diventerò colei che sarà ricordata in
tutto il Mondo Profano, per i secoli a venire, come l'unica ad aver
posto fine allo scontro eterno tra Divinità ed Inferi.
Già mi ci vedo, in piedi davanti ad Al che mi implora
perdono.
Alexya aveva riso sguaiatamente alla fine di quella frase, ma Helena
era impallidita mortalmente. Quando la regina bionda
raccontò a Zephiro, di cui non poteva far altro che fidarsi
ciecamente, i piani segreti della cugina, negli occhi del signore dei
Venti lampeggiò qualcosa di indecifrabile. Helena rimase
interdetta da quel che aveva visto, però si
lasciò trasportare dal dio all'interno dello Smeraldo, senza
domandarsi nulla.
I tre Soli erano alti nel cielo e segnavano il mezzogiorno. Dinanzi
agli occhi meravigliati di Alexya si stagliò verso il cielo
la colossale torre di pietra nera, dalla base tozza da cui partivano
quattro tentacoli affondati nella sabbia del deserto, e che andava
assottigliandosi per culminare in una grossa struttura ottagonale di
vetro, tagliata come una gemma preziosa. Quello era il luogo in cui si
riuniva il Consiglio degli Otto Sovrani, dove si sarebbe recata la
Regina d'Ovest il giorno successivo.
Sung'bar, la capitale del deserto, si estendeva sotto la superficie
terrestre, nascosta sotto la sabbia dorata che si estendeva ovunque.
Johan lanciò uno sguardo attorno a sé,
riflettendo ancora una volta sulla bizzarria di quel luogo. Vi si era
recato spesso, al seguito della regina Helena, eppure non finiva mai di
sorprendersi. Non che lo vedesse da prospettive differenti o notasse
nuovi particolari, ma semplicemente non riusciva mai a risolvere
l'enigma di quel luogo sconclusionato. Nei Campi di Sangue l'unica
certezza era il Deserto di Zinco, centrale allo stato, mentre il resto
del territorio variava dalle lussureggianti pianure ad Est, alle paludi
e alla savana a Nord, dalla steppa a Sud alla grande foresta ad Ovest,
che procedendo verso il fiume Sudrione, che nemmeno passava da quei
territori, ma che costituiva comunque un beneficio per essi, la Foresta
Grigia faceva da padrona. Helena aveva detto che i Campi di Sangue
erano così a causa della Guerra Millenaria, che concentrava
una grossa quantità di magia in quei luoghi che subivano
inevitabilmente mutamenti senza senso.
«Finalmente
civiltà!» cantilenò a
squarciagola Alexya, sollevando le braccia in aria, in segno di
vittoria.
Marihus sbuffò sonoramente e la risposta della regina fu un
semplice gesto, che mandava il maggiordomo a quel paese.
«Suvvia, vecchio, è una bambina e poi siamo tutti
amici qua», lo rassicurò Johan, affiancandosi alla
giumenta dell'uomo di mezza età, vestito di tutto punto
persino nel deserto.
«Una bambina lo dici a qualcun altro! Guardala!»
indicò Alexya, in sella ad un elegante cavallo del deserto,
comprato apposta per quel viaggio, che gridava oscenità
assieme ai soldati della sua guardia. «Ha vent'anni, Johan, e
continua a non rendersi conto del suo ruolo!»
Johan tirò una pacca a Marihus, che quasi cadde dalla sua
cavalcatura con un urlo disumano. Il capitano della guardia reale gli
agguantò un braccio e lo tenne in groppa alla giumenta. Il
maggiordomo si aggiustò i capelli brizzolati, tirandoseli
all'indietro, e borbottò contro il giovane.
«Eh, la sottovalutate, te ed Helena. Quella ragazza un giorno
vi lascerà senza parole!» disse Johan, sicuro di
sé. Poi, con un colpo di talloni ai fianchi del suo cavallo,
spinse l'animale verso la regina, che continuava a ridere con i
soldati. Il capitano sorrise benevolo. Quella ragazza aveva la stoffa
per comandare un esercito, dopotutto era figlia di Garstand, uno dei re
più abili in guerra della storia del Regno d'Ovest. Suo
padre l'aveva cresciuta a pane e arti militari. Inoltre, Alexya aveva
avuto lui, Johan, come insegnante di arti marziali, quindi non era
altro che la guerriera più letale dell'Ovest. Ne andava
fiero, sapeva di aver ragione, e la stima dell'esercito era una
conferma. Questo, però, non significava che negli altri
ambiti se la cavasse altrettanto bene.
«Milady, spero non vogliate entrare in Sung'bar vestita in quel
modo», la rimbrottò Johan, con fare bonario.
Alexya inarcò le sopracciglia e lanciò uno
sguardo ai suoi indumenti: pantaloni larghi, di tela leggera, una
camicia da uomo di lino, rubata dalla sacca di Johan, stivali di pelle
da cavallerizza. «Da quando in qua un rozzo soldato come te si preoccupa di
cosa indossi una regina del mio calibro? Non è che viaggiare
con Marihus ti ha fatto prendere la sua stessa malattia?».
Johan rise, mentre i soldati rimanevano indietro.
«Tranquilla, milady, sareste splendida anche vestita di
stracci. È solo che non tutti i vostri pari apprezzano tanta
semplicità».
Alexya tirò un pugno in testa al capitano, con un ghigno.
«Taci, adulatore di...»
Un urlo di Marihus impedì alla regina di proseguire.
«Non usate quel linguaggio da scaricatore di porto,
milady!» gridò ancora il maggiordomo. E
continuò, con un tono di voce normale ed un'espressione
contrariata. «Ecco cosa succede a passare il proprio tempo
tra i rozzi soldati, puah».
La regina roteò gli occhi verdi e fermò il
cavallo. «Mi cambierò qui!» Fece per
slacciare i legacci della camicia, quando Hanan, l'unica ancella cui
avesse permesso di seguirla, strillò piena d'orrore. Marihus
spalancò la bocca, esterrefatto.
Alexya e Johan, invece, scoppiarono a ridere. Lei non aveva davvero
intenzione di denudarsi davanti a soldati in astinenza come quelli che
la seguivano. Non era così stupida.
«E allora sbrigatevi, ritardatari!»
gridò ai due che si avvicinavano lentamente, il maggiordomo
in groppa alla sua giumenta stanca e bizzosa, Hanan sul cammello che
avevano acciuffato durante il viaggio e che era carico di bagagli,
alleggerendo così i cavalli.
Quando la regina fu pronta, uscì dalla tenda che era stata
montata per farla vestire al riparo da occhi indiscreti. Non sembrava
decisamente di buon umore.
«Provate a toccarmi i capelli e vi taglio le mani!»
ringhiò passandosi le dita nella sua castana chioma
boccoluta, gli occhi verdi che lanciavano fiamme.
Johan fece per avvicinarsi alla regina per aiutarla a salire a cavallo,
ma due soldati lo precedettero, sghignazzando. Non appena Alexya li
vide porgerle le mani, lanciò un urlo e saltò in
groppa alla sua cavalcatura spaventata dall'aura tempestosa del suo
conducente.
«Tornate a fare i soldati, marrani!»
ringhiò e spronò il cavallo, costringendolo al
galoppo nella sabbia bollente.
Johan ringraziò il cielo perché non era andato di
persona ad aiutarla. Con i soldati si era trattenuta, ma contro di lui
avrebbe sfoderato la spada. Anche perché lei sapeva che, se
il capitano le avesse mostrato mai un qualche gesto di cortesia, lo
avrebbe fatto solo per prendersi gioco di lei.
Sung’bar, dove due millenni fa Nephas, il primo re degli
Inferi, era stato ferito a morte da Al, era una città piena
di vita: le strette stradine erano sempre affollate, le case di roccia
scura erano attaccate le une alle altre, vi era un gran chiasso, tra le
grida dei mercanti ed il chiacchiericcio della gente. Ma quello era
solo il primo livello, il secondo già iniziava ad essere
più tranquillo ed era lì che si trovavano le
dimore dei nobili; mentre al terzo livello abitavano coloro che
solitamente si trovavano nelle periferie dei centri urbani:
attori, maghi, ciarlatani, medici, guaritori, negromanti.
Per entrare in quel mondo sotterraneo si doveva passare un posto di
blocco lungo le basse mura che attorniavano la torre di roccia nera. La
cinta muraria era realizzata con mattoni di pietra rossastra e si
alzava da terra solo di due metri. Non erano delle vere e proprie
fortificazioni, ma solo la protezione per la rampa che circondava la
città e scendeva sotto terra.
Johan entrò nel tunnel e cominciò a sudare
freddo. Odiava i posti così chiusi e bui. Dopotutto era un
soldato, non doveva vivere in simili cunicoli per ratti. Mentre il
capitano della guardia reale cercava di tranquillizzarsi, Alexya gli si
accostò e, ancora nervosa per il vestito troppo elegante e
sfarzoso che aveva dovuto indossare, rigirò il coltello
nella piaga.
«Trovo questo posto molto confortevole, non è
così, Johan? Umido e scuro al punto giusto. Poi quest'odore
di chiuso è spettacolare!»
Piccola vipera,
imprecò il soldato, stringendo i denti per non dar voce ai
suoi pensieri. L'avesse fatto, Alexya si sarebbe divertita ancor di
più ed avrebbe continuato a tormentarlo ad oltranza.
Dopo diverse battutacce riguardo la claustrofobia di Johan, Alexya si
stufò e spinse il cavallo ad accelerare il passo. Passarono
dalla porta del primo livello ed i soldati, al sentire il vociare
continuo, l'odore di cibo, di sudore, di animali, presi dalla nostalgia
dopo quei quattro giorni passati lontani dalla gente, domandarono il
congedo al loro comandate, che glielo accordò senza pensarci
due volte.
«Ah, dopo ci voglio andare anch'io!»
annunciò Alexya, quando le guardie reali si furono
allontanate nella folla.
Marihus gemette, al pensiero della sua regina in mezzo a gente rozza e
malintenzionata. Ma si ricordò che andava spesso con Johan
in giro per taverne a Borgo Smeraldo e che aveva sempre utilizzato
quelle “passeggiate” per conoscere meglio le
persone. Proprio grazie a questo suo mischiarsi al popolo che Alexya
era abbastanza ben voluta dagli abitanti della capitale d'Ovest. Il
maggiordomo sospirò, mentre Hanan gli lanciava un'occhiata
preoccupata.
Proseguirono fino al secondo livello e si addentrarono nelle sue strade
tranquille e silenziose, più ampie rispetto a quelle del
piano superiore.
L’albergo Liocorno era noto in tutto il Mondo Profano per
essere il più sontuoso e regale in assoluto, tanto da poter
far invidia al divino Al in persona: non a caso era stato sempre scelto
come alloggio momentaneo per i sovrani del Consiglio. Un’aria
dorata e lucente lo circondava, completamente differente
dall’ocra, dal rosso, dal marrone e dal nero degli altri
edifici. L’entrata era ampia, tanto da permettere alle
carrozze di entrare nel cortile interno, che conduceva ai corridoi
degli appartamenti ed alla hall dell’albergo. Le pietre delle
pareti non erano quelle tipiche dei Campi di Sangue, erano invece di un
colore dorato e più malleabili delle altre. La placca che
indicava il nome era in oro ed aveva inciso un unicorno che galoppava
con i crini al vento.
La comitiva entrò nel cortile e fu accolta da servitori in
livrea, eleganti e garbati, che aiutarono le donne a scendere da
cavallo e presero i bagagli per portarli all’interno
dell’albergo.
Johan non abbandonò la sua cavalcatura e, non appena un
servo prese il portagioie contenente il Myurohon prigioniero, lo
intercettò e lo caricò sul suo cavallo. Il
ragazzo lo fissò perplesso, ma riprese a fare il suo lavoro
senza porre domande.
Il comandante attese di vedere Alexya accompagnata di Marihus far il
suo ingresso nella hall e tornò in strada, diretto al terzo
livello, alla ricerca di un negromante che potesse uccidere lo zombi.
Il suo lavoro, per ora, lo aveva terminato. Un maggiordomo era
più utile di un rozzo soldato nel parlare con gente
raffinata come quella del Liocorno.
.-.-.-.
Minidizionario Maholhan-Italiano:
(1) Lahat: luce
(2) Ojha-vuls Alexya!:
voglio vedere Alexya!
Ciao! Per chiunque sia
arrivato sino alla fine, grazie!
Spero non sia
stata una lettura pesante o noiosa, soprattutto perchè non
accade tanto in questo capitolo ed è più
introduttivo.
Credo di aver
trovato e corretto tutti gli errori, ma nel caso ve ne siano
perdonatemi (ed indicatemeli, così li correggo ;]).
Per qualsiasi
informazione o dubbio, chiedete pure!
Kanako
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