La
storia partecipa al contest “It's too cliché”
indetto da rhys89 sul forum di EFP
http://freeforumzone.leonardo.it/d/11034207/It-s-too-cliché-multifandom-solo-AU-originali-/discussione.aspx/1
Is
not really hard to find a solution
Avrei
voluto essere a casa a rilassarmi di fronte alla tv, invece i miei
compagni di classe avevano insistito per fare quella stupida uscita
di gruppo.
Stava
per terminare l'anno scolastico, eravamo arrivati quasi tutti illesi
in quinta superiore e ci sentivamo sfiniti, nonostante sapessimo di
dover fare un ultimo sforzo per l'esame di maturità.
Mi
trovavo bene con i miei compagni, non era questo il punto. Il
problema era che non amavo le discoteche e i locali troppo affollati,
anche se la loro compagnia non mi dispiaceva.
Le
mie compagne erano venute in massa a casa mia prima dell'uscita,
costringendomi ad infilarmi in un miniabito di satin azzurro
elettrico e a sfoggiare tacchi vertiginosi, i quali mi distruggevano
letteralmente i piedi. Tuttavia, mi sentivo favolosa e odiavo
ammettere che per essere belle bisognava davvero soffrire.
La
serata procedeva bene e io me la cavavo abbastanza bene, se evitavo
di muovermi troppo o declinavo con successo gli inviti che i ragazzi
continuavano a farmi, offrendomi un giro in pista a ritmo delle hit
del momento.
Ad
un certo punto, Daniele mi si avvicinò sorridendo con fare
malizioso. Era uno dei più carini della classe e sapeva sempre
come ammaliare una ragazza. Mi ero presa una cotta per lui durante la
quarta superiore e da allora speravo che mi notasse, senza mai
ottenere grandi risultati.
«Deny,
che fai qui tutta sola?» mi domandò, avvicinandosi
ancora un po' e guardandomi dritto negli occhi.
«Non
sono una grande ballerina, così mi limito a ridere di voi»
ribattei, trattenendomi per non lanciare un'occhiata terrorizzata
alle zattere che avevo ai piedi.
«Brava.
Mi accompagni a fumare?»
Rimasi
interdetta per un attimo, poi mi sciolsi in quello che ai suoi occhi
doveva essere un sorriso ebete.
«Lo
prendo come un sì» aggiunse, offrendomi il braccio.
Saltai
giù dallo sgabello e lo afferrai, grata per quel gesto. Avere
un'ancora di salvezza in quel momento corrispondeva al più
ambito dei miei desideri.
Ci
avviammo all'uscita sul retro, senza che nessuno dei nostri compagni
si accorgesse di nulla. Tutti erano impegnati a ballare come matti o
ad ubriacarsi in qualche angolo della discoteca. La mia parte
maliziosa elaborò un pensiero: avrei scommesso qualunque cosa
che qualcuno era finito a copulare in un bagno.
Una
volta fuori, la fresca brezza di fine maggio mi accarezzò
braccia e gambe, rinfrancandomi un po'. Fosse stato per me, sarei
rimasta là fuori per tutto il tempo, finché tutta la
combriccola non avesse deciso di andarsene.
Osservai
Daniele fumare con calma, leccandosi le labbra ad ogni boccata. Era
una caratteristica che avevo sempre amato di lui, anche quando ci
ritrovavamo tutti insieme sulle scale antincendio, a scuola.
«Denise,
hai mai provato?» mi domandò all'improvviso, agitando
leggermente la sigaretta.
«Una
volta. Stavo per morire soffocata» raccontai con ironia, mentre
mi osservavo furtivamente le scarpe. Detestavo il dolore e
l'instabilità che mi procuravano, ma ormai era troppo tardi
per rimpiangere un paio di sandali raso terra.
«Non
mi dire» ridacchiò lui, per poi gettare a terra il
mozzicone.
Feci
per avviarmi nuovamente verso la porta, ma lui mi afferrò con
un gesto fulmineo, stringendomi con forza il polso.
Rimasi
impalata a fissarlo, mentre mi rendevo tristemente conto che eravamo
completamente soli e che nessuno avrebbe potuto sapere che eravamo
lì, insieme. I nostri compagni, tra l'altro, avrebbero
senz'altro pensato che ce la stessimo spassando.
«Daniele,
che succede?» balbettai, cercando di divincolarmi dalla sua
presa.
Per
tutta risposta, mi afferrò le braccia con entrambe le mani e
mi sbatté al ruvido muro che fiancheggiava la porta, mentre il
fiato mi si mozzava in gola.
«Ci
conosciamo da molto tempo, Denise... ma solo oggi capisco cosa mi
sono perso» mormorò, accarezzandomi una coscia.
Soffocai
un grido, sperando che stesse scherzando. Sì, Daniele mi
piaceva, ma non avevo la minima intenzione di concedermi così
a lui. Non ero pronta per questo!
«Non
capisco...» balbettai, cercando di spingerlo via.
«Sei
sexy con questo vestito, anzi... direi che sei... scopabile»
aggiunse, leccandomi avidamente un orecchio.
«Daniele...
forse dovremmo rientrare, gli altri...»
«Oh
no, forse dovresti darmela e non fare la preziosa, eh, Denise?»
«No,
Daniele!» sibilai, incapace di pronunciare quelle parole con
decisione. Ero terrorizzata e mi pentii di avergli sbavato dietro per
un sacco di tempo. Non era altro che un verme.
«Ma
sì, sta' ferma» ordinò, infilando una delle sue
cosce tra le mie per farmele divaricare.
Proprio
mentre stava per toccarmi tra le gambe, lanciai un gridolino e tentai
ancora di respingerlo. Lui però si opponeva con forza,
ridacchiando in maniera disgustosa.
A
quel punto udii una voce alle sue spalle.
«Ragazzino,
cosa cazzo fai?»
Daniele
balzò letteralmente indietro, lasciandomi andare. Io,
stravolta e indebolita dal terrore, mi lasciai scivolare contro la
parete e fissai dritto davanti a me, abbracciandomi le ginocchia con
le braccia.
Un
uomo sulla trentina se ne stava in piedi con i pugni serrati,
guardando Daniele con fare minaccioso.
«Io...
noi... stavamo solo scherzando, non è vero, Deny?»
arrancò il mio compagno di classe.
Il
mio salvatore mi scrutò, poi colpì Daniele con un pugno
in pieno viso. Quello crollò a terra e si premette entrambe le
mani sul naso, bestemmiando come un idiota.
«Stai
bene?»
La
voce dell'uomo si era fatta più vicina, così mi resi
conto che si stava rivolgendo a me. Spostai i miei occhi su di lui e
lo trovai accovacciato di fronte a me che mi osservava con
attenzione, esaminando le mie condizioni.
«Sì,
credo... oh, non ci credo» blaterai, nascondendo il viso tra le
ginocchia.
«Sei
da sola con lui?» insistette lui, con tono deciso.
«No.
Dentro ci sono i nostri compagni di classe.»
«Vieni»
mi incitò, sfiorandomi appena la spalla. D'istinto, mi
ritrassi. Non ero smaniosa di essere toccata dopo la brutta
esperienza di poco prima.
«Scusami...
riesci ad alzarti?»
Annuii,
poi raccolsi tutte le mie forze e mi sollevai da terra. Mi spazzolai
distrattamente il vestito, ma ero troppo scossa per riuscire a
camminare. Sospirando, tesi la mano verso lo sconosciuto, senza mai
guardarlo in viso. Ero in uno stato di shock che non mi permise di
osservarlo.
Intanto,
Daniele aveva smesso di imprecare e stava immobile sul pavimento, con
le mani sulla faccia.
Proprio
in quel momento, Angelica ed Elena uscirono dal locale e rimasero
impalate a fissare la scena.
Non
appena si accorsero delle mie condizioni, corsero a sostenermi.
Allora
cominciarono a pormi un fiume di domande alle quali non sapevo
rispondere, non riuscivo a capire tutto ciò che mi veniva
detto e stentavo a reggermi in piedi.
Non
so come rientrai a casa quella sera, ma prima di scivolare
definitivamente nel sonno, ringraziai mentalmente l'uomo che mi aveva
salvato.
Il
mio lavoro poteva essere soddisfacente e piacevole, a volte.
In
quel caso, infatti, lo sarebbe stato. Mi sentivo bene quella mattina,
mentre mi preparavo per recarmi nel posto prestabilito.
Indossai
quello che ormai definivo un costume di scena: una lunga parrucca di
dreadlocks (sì, avevo trentadue anni e non mi rimaneva un solo
capello in testa), un bel cappello da cowboy alla Slash, pantaloni
larghi a cavallo basso (comodi e funzionali, ma soprattutto
giovanili) e una t-shirt a maniche corte con una stampa appariscente
in stile graffito. Ero favoloso!
Il
mio fedele amico, nonché autista e accompagnatore, Alessio mi
venne a prendere alle otto e mezza e ci mettemmo in marcia.
Non
appena giungemmo a destinazione, fissai con curiosità
l'edificio di fronte al quale avevamo parcheggiato: le mura
grigiastre erano ricoperte di graffiti, mentre non si contavano le
scale antincendio e qualche gruppetto di persone intento a fumare e
chiacchierare. Il cortile, tuttavia, era semideserto.
Ci
trovavamo in un liceo, perciò calcolai che alle nove meno
cinque del mattino la maggior parte degli studenti doveva essere in
classe.
«Patrizio,
andiamo?» mi esortò Alessio, chiudendo a chiave l'auto.
Scrutai
il mio amico attraverso le lenti gialle a specchio dei miei occhiali
da sole, poi annuii e ci avviammo.
Una
volta entrati nell'atrio della scuola, i bidelli sobbalzarono,
fissandomi con disappunto.
«Cosa
desiderate? Non vogliamo comprare niente» bofonchiò una
bidella bassa e grassoccia, notando il borsone che Alessio portava
per me. Lì dentro c'era tutto il mio sapere, ciò di cui
avrei parlato ai ragazzi di quinta superiore e, in più,
qualche omaggio per loro. I fan si conquistano per gradi, uno dei
segreti per farlo è coinvolgerli e farli sentire sempre
importanti.
«Non
siamo qui per offrirvi delle meravigliose calze in spugna»
risposi, sfilandomi gli occhiali da sole e sorridendo gaiamente alla
donnina. «Salve, bella signora. Siamo qui per il seminario
musicale dedicato alle classi quinte. Vorremmo parlare con il
professor Carmine Lugli» aggiunsi, stringendo con vigore la
mano paffuta della bidella.
Lei
mi lanciò un'occhiataccia e borbottò in direzione dei
suoi colleghi. Uno tra i più giovani scattò a cercare
l'insegnante e io indicai ad Alessio i distributori automatici.
«Prendiamo
un caffè?» proposi.
Lui
sospirò e si trascinò fin lì, cercando qualche
moneta nelle tasche dei suoi consunti jeans.
«Vuoi
qualche spicciolo?» domandai, tanto per essere cortese.
«No,
no...»
Alessio
si fece preparare due caffè dal distributore, poi li
sorseggiammo in silenzio.
Nel
frattempo, un uomo dall'aspetto eccentrico, i capelli bianchi a
spazzola e un sorriso smagliante ci raggiunse, scortato da un
trafelato bidello.
«Salve,
lei deve essere Patrick the Prince, sono molto lieto di averla qui!»
esordì il professore, stringendomi la mano.
«Salve,
professor Lugli. Il piacere è tutto mio. Può chiamarmi
pure Patrizio e darmi del tuo. Lui è Alessio, il mio fedele
braccio destro, mi accompagna sempre durante le serate»
spiegai, con tono professionale.
«Anche
tu puoi darmi del tu. Piacere, Carmine. Bene, se avete finito la
colazione, potete seguirmi. Tra qualche minuto suonerò la
campanella e potremo andare insieme nella prima quinta che dovrete
visitare.»
«Certo,
certo! Alessio, buttami il bicchiere per favore, eh? Andiamo, su!»
Alessio
ci seguì controvoglia, dopo aver gettato i rifiuti e aver
afferrato il mio borsone.
Chiacchierai
per un po' con Carmine, poi la campana suonò e lui ci condusse
lungo il corridoio principale, per poi entrare in un'aula spaziosa e
ben illuminata.
Gli
studenti stavano facendo un baccano infernale, così attendemmo
che lui rimettere in riga i ragazzi prima di entrare.
«Bene,
vi presento con orgoglio Patrick the Prince e il suo aiutante, ehm...
Alessio. Sono qui per parlarci del loro lavoro, di cosa significa
fare musica e andare in giro a farla conoscere a tutti. Dategli il
benvenuto e fategli un bell'applauso!» tuonò Carmine.
Noi
facemmo il nostro teatrale ingresso, mentre uno scrocio di applausi
ci accoglieva calorosamente.
Osservai
con curiosità la classe: c'era egual numero di ragazzi e
ragazze, più o meno. Erano tutti sorridenti dall'aria
accaldata. Mi fecero ricordare i tempi in cui anche io ero stato uno
studente. I bei tempi dell'Alberghiero...
Poi
i miei occhi si posarono su una ragazza minuta e in disparte, che
indossava abiti sportivi e sfoggiava una coda di cavallo.
La
mia mente la riconobbe all'istante, mentre i ricordi mi appannavano
la mente: la rividi stravolta, con un abito blu che la copriva a
malapena, dei tacchi su cui non sapeva camminare e un'espressione
terrorizzata a distorcere il bel viso.
Istintivamente,
cercai con lo sguardo il suo aggressore e lo trovai stravaccato su
una sedia, con un cerotto sul naso e l'aria indifferente di chi
riesce ad ottenere sempre ciò che vuole.
Il
sangue mi ribollì nelle vene e tornai a concentrarmi sulla
ragazza. Qualche ciuffo dei suoi capelli castani ricadeva sul viso,
facendola sembrare triste e sconsolata. Doveva essere provata
dall'esperienza di pochi giorni prima, perché sollevò a
malapena il viso quando salutai e ringraziai Carmine per l'invito.
Notai
che la sua compagna di banco, una biondina con un po' troppa
ricrescita corvina, le sussurrava qualcosa all'orecchio. La mora
sollevò il suo sguardo su di me, ma non parve riconoscermi.
La
cosa mi ferì, però tentai di non pensarci troppo e mi
concentrai su ciò che dovevo fare.
«Bene
ragazzi, ho portato qualcosa per voi» cominciai, senza degnarla
più di uno sguardo.
«Deny,
mi sembra di averlo già visto quello... mamma, come ti
guardava!» mi bisbigliò Elena, mentre il tizio che il
prof Lugli aveva contattato per il seminario musicale blaterava su
quanto fosse stancante la sua vita all'insegna di viaggi, concerti e
ore in studio di registrazione.
Ci
aveva da poco distribuito delle stupide cartoline con la sua faccia
da ebete stampata sopra e io non ne potevo più di ascoltarlo.
In più, sentire quel cretino di Daniele sghignazzare
dall'altra parte dell'aula mi dava letteralmente sui nervi.
Una
cosa positiva di quel Patrick fu che non perdeva mai l'occasione di
punzecchiare Daniele, come se l'avesse preso in antipatia fin da
subito e non sopportasse a priori il suo modo di fare. Per questo,
guadagnò un punto nella scala della mia scarsa sopportazione.
«Deny!»
sibilò ancora la mia amica, dandomi un leggero colpetto sulla
spalla.
Mi
voltai a guardarla, sbuffando.
«Non
mi interessa, può anche evitare di guardarmi. Dopo la storia
con il troglodita non ne voglio sapere. In più, è
davvero ridicolo, andiamo! Hai visto quei capelli?»
«Oh,
sono sexy. Stanno bene con quel cappello da film western e i jeans da
gangster» ridacchiò, strizzandomi l'occhio.
Mi
venne da ridere, perché in effetti consideravo quel
bell'imbusto un personaggio più che ridicolo. Alcuni miei
compagni sembravano conoscerlo e apprezzarono molto la sua presenza e
i suoi piccoli regali.
Quando
il seminario terminò, tirai un sospiro di sollievo e mi
preparai per andare a recuperare la prima dose di caffeina della
giornata.
Mi
alzai, mentre rovistavo distrattamente nel portamonete e chiesi ad
Elena se aveva voglia di accompagnarmi.
«Andiamo,
prenderò un tè, così ti faccio compagnia.»
Uscimmo
dall'aula poco prima che lo facessero Patrick e il suo aiutante, che
intanto erano stati fermati da una piccola folla di fan che speravano
di sapere qualcosa in più rispetto a ciò che lui aveva
già raccontato. Qualcuno chiedeva di poter fare qualche foto
con lui o di avere un suo autografo.
«Ele,
penso che saresti dovuta nascere in Inghilterra. Non tutti sono
predisposti ad assumere teina come fai tu» commentai, prendendo
Elena sottobraccio.
«Me
lo dici sempre, amore, penso che prima o poi mi trasferirò.»
Ridendo,
continuammo a camminare, finché non udii qualcuno che gridava
alla mie spalle e ciò mi indusse ad arrestarmi di botto. Mi
voltai, spaesata, scrutando lungo il corridoio, e notai Patrick che
si sbracciava nella mia direzione, camminando a passo svelto verso me
ed Elena.
Io
e lei ci scambiammo un'occhiata interrogativa, corrugando la fronte.
«Scusate,
scusate se vi interrompo!» esordì lui, fermandosi a
pochi passi da noi.
Elena
ridacchiò, lisciandosi una ciocca di capelli biondi.
Osservai
il nostro interlocutore, confusa, non sapendo esattamente cosa
dirgli.
«Potrei
parlare con te?» mi domandò, facendo scontrare i suoi
occhi scuri con i miei.
Se
escludevo il resto, quelle iridi non erano niente male. Però,
a livello estetico, non era decisamente il mio tipo. Mentre lo
esaminavo, una domanda pigra e maliziosa mi attraversò la
mente: chissà se quei capelli erano veri...
«Con
me? Perché, scusi?» mi informai, mentre notavo Elena
soffocare una risata.
Lui
annuì, senza aggiungere altro.
«Ehm...
okay, mi dica» gli concessi.
Patrick
lanciò uno sguardo eloquente ad Elena, la quale smise di
ridere e sgattaiolò verso i distributori automatici,
lasciandoci soli.
Ancora
non capivo cosa volesse da me, dal momento che non ci conoscevamo e
che non ero io ad essere la star, fino a prova contraria.
«Volevo
soltanto chiederti se ti ricordi di me» disse infine lui, dopo
qualche attimo di silenzio.
Scossi
il capo, sconsolata. Non avevo idea di chi fosse fino a quella
mattina, ma la cosa non mi importava poi tanto.
«Mi
dispiace, non la conosco.»
«Non
darmi del lei, del resto ho solo trentadue anni e non mi piace
sentirmi vecchio. Sono Patrizio, piacere» ribatté,
tendendomi la mano.
Gliela
strinsi con cautela, trovando in essa una strana sensazione di
conforto e di tranquillità.
«Io
sono Denise. Ma, ehm... dimmi, come mai dovrei ricordarmi di te? Ci
conosciamo? A me non sembra» mi affrettai a chiarire, senza
lasciar andare la sua mano.
Lui
mi guardò negli occhi e mi sentii avvampare. Non capivo
esattamente cosa stesse accadendo, comunque cercai di mantenere la
calma.
Allora
Patrizio compì un gesto che mi lasciò sbalordita: mi
accarezzò con estrema delicatezza il dorso della mano, prima
di mollare la presa.
Poi
sganciò la bomba: «Ero io, l'altra notte. Quando quel
ragazzo cercava di... insomma, ero io».
Rimasi
interdetta. Non sapevo se mi avesse spiazzato maggiormente la sua
carezza o le parole che l'avevano seguita.
L'unica
cosa che riuscii a farfugliare fu: «Ah, eri tu?».
Non
saprei spiegare neanche a me stesso cosa mi spinse, quel giorno, ad
aprirmi così tanto con Denise.
Forse
aveva diciotto anni, ma non ne ero certo. Era pressoché una
bambina, eppure mi sentivo in qualche modo in dovere di proteggerla.
Non mi era mai capitato di assistere ad una tentata aggressione, né
tantomeno di riuscire ad interromperla.
Perciò,
raccontai a Denise, mentre sorseggiavamo un caffè, chi ero
veramente.
«So
che ti viene difficile credermi, ma quella sera non avevo la
parrucca. Be', sì... è imbarazzante, non ridere! Il
fatto è che non mi è rimasto più neanche un
capello in testa, così – per sembrare un po' più
simile e vicino ai miei fan, che sono essenzialmente ragazzini –
ho trovato quest'alternativa.»
«Quindi
quella sera eri in... borghese?» domandò, stringendo con
forza il bicchiere di plastica tra le mani.
«Brava.
In borghese. Solo chi mi conosce davvero, può riconoscermi
quando non sono Patrick the Prince.»
Denise
scosse energicamente il capo, poi finì di trangugiare il suo
caffè e sospirò.
«Ma
è una cosa tremendamente stupida!» esclamò
infine, lanciandomi uno sguardo colmo di pietà.
«So
che può sembrarlo, ma...»
«Lo
è, punto e basta» tagliò corto, per poi andare a
gettare il bicchiere vuoto.
Quando
tornò da me, aveva stampato in viso uno strano sorriso,
difficile da decifrare.
«Grazie
comunque, se non fossi arrivato tu, Daniele... non mi aspettavo
sarebbe arrivato a tanto» affermò con rabbia.
«Ma
non è successo, questo è l'importante» la
rassicurai. Impulsivamente, le lasciai una carezza sul capo,
sistemandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Lei
si ritrasse e mi fulminò con lo sguardo.
«Scusa,
scusa... okay, be', sono contento di averti conosciuto, Denise.»
«Anch'io.
Parlare con te non è poi così male.»
Rimasi
piacevolmente sorpreso da quelle parole. Stavo per ribattere, quando
la sua amica biondina la raggiunse, incitandola a tornare in classe
con lei perché si era fatto tardi.
«Devo
andare» mi disse Denise, sorridendomi.
«Se
ti va, sabato ho una data qui vicino. Mi farebbe piacere vederti tra
il pubblico» le proposi. Poi aggiunsi: «Cercami su
facebook con il mio nome d'arte, così ti spiego tutto».
Lei
sollevò il pollice in segno di assenso e corse via insieme
alla sua compagna, ridendo e animando il corridoio con la sua voce
dolce e melodiosa...
«Patri,
non è che ti sei preso una cotta per quella bambina?» mi
apostrofò Alessio, poi afferrò il mio borsone e insieme
raggiungemmo nuovamente Carmine, mentre io borbottavo indignato per
la bassa insinuazione del mio braccio destro.
E
così giunse sabato.
Alla
fine, avevo cercato Patrizio su facebook e avevamo parlato della
serata a cui mi aveva invitato. Inizialmente non ero tanto sicura di
volerci andare, poi ne avevo parlato con Elena e Angelica e loro non
avevano voluto sentire storie: dovevamo assolutamente esserci!
Quindi,
mi ero infilata in un paio di jeans, avevo indossato una camicetta
leggera a maniche corte e affidato i miei piedi alle mie fedeli
scarpe in tela rosse.
Quando
le mie compagne di classe mi videro, scossero sconsolate il capo, poi
osservarono con disgusto il mio abbigliamento, per poi sorridere nel
rendersi conto che il loro look era – fortunatamente –
appropriato.
L'evento
si teneva all'aperto. Più precisamente, era stato organizzato
dai gestori di un chiosco situato all'interno di un bel parco.
Una
volta giunte a destinazione, notammo subito una figura familiare che
giocava a palla con un bambino. I finti capelli di Patrizio erano
inconfondibili, perciò lo riconobbi all'istante.
Facendo
in modo che non mi notasse, trascinai le mie amiche su una panchina
poco distante, che rimaneva in una zona in ombra e lontana dai
lampioni disseminati qua e là nel parco.
Tutte
e tre ce la ridemmo, mentre notavamo Patrizio divertirsi e
complimentarsi con il piccolo, che doveva avere al massimo sei anni.
Mi domandai pigramente se fosse suo figlio, ma su facebook non avevo
trovato niente che lo collegasse ad una compagna o ad una paternità.
Chissà chi era quel delizioso marmocchio.
Dopo
un po', udii una bella canzone reggae in sottofondo e ciò mi
fece venir voglia di ballare. Quel ritmo era trascinante e
bellissimo. Avevo ascoltato qualcosa di Patrick su YouTube e mi ero
resa conto che la sua musica non era niente male. Aveva una bella
voce e cantava su splendidi ritmi reggae e di vari sottogeneri. Era
stato anche questo a convincermi a partecipare a quella serata.
Dopo
qualche minuto, decisi di andare a salutarlo, incoraggiata da quelle
perfide delle mie amiche.
«Sì,
va bene, vado! Noiose!» borbottai, alzandomi dalla panchina e
avviandomi con calma verso Patrizio e il suo piccolo compagno di
giochi.
Proprio
in quel momento, una pallonata calciata dal bimbo mi colpì in
pieno viso e mi fece barcollare. Imprecando, mi portai le mani a
tastarmi il sopracciglio destro. Mi accorsi che stavo perdendo sangue
e imprecai nuovamente.
In
quel momento, Angelica, Elena e Patrizio mi circondarono,
preoccupatissimi.
Cominciarono
a chiedermi come stavo, mentre io cercavo a stento di non piangere.
Il dolore era abbastanza forte, ma non era il caso di farne una
tragedia, così sollevai le mani in segno di resa e scossi il
capo, indietreggiando.
«Basta,
calmatevi! Sto bene!» sbottai.
Le
mie amiche si scambiarono un'occhiata, poi Elena parve illuminarsi e
afferrò Angelica per un polso.
«Andiamo
al bar a prendere del ghiaccio» ordinò, e insieme
partirono di corsa verso il chiosco.
In
quel momento mi accorsi che Patrizio mi stava stringendo la mano con
apprensione, scrutandomi in viso.
«Sicura
che sia tutto a posto?»
Annuii,
incapace di dire qualsiasi cosa. Ero sotto shock, mentre la tempia mi
pulsava.
«Elia,
vieni qui!» gridò una voce femminile.
Il
bambino che giocava poco prima con Patrizio ci raggiunse, trafelato.
«Ti
sei fatta tanto male?» mi chiese, guardandomi con gli occhi
appannati per le lacrime. Evidentemente si sentiva in colpa e la cosa
non mi piacque affatto.
«Elia,
andiamo!» strillò ancora la donna, con voce stridula.
Patrizio
regalò al piccolo Elia un bel sorriso, scompigliandogli i
capelli.
Io
gli accarezzai con delicatezza il visetto liscio e paffuto e non
potei fare a meno di sorridere.
«Non
ti preoccupare, sto benissimo. La prossima volta però voglio
la rivincita, va bene?» gli sussurrai.
Lui
scoppiò a ridere, poi scappò via, raggiungendo la madre
che si sbracciava da qualche minuto. Quella continuò ad
inveire contro il figlio, mentre lasciavano il parco.
Io
e Patrizio ci fissammo, poi all'unisono esclamammo: «Povero
Elia!».
«Comunque
sto bene, non sento più alcun dolore» aggiunsi, perché
si era creato uno strano silenzio tra noi.
Patrizio
allungò con cautela una mano e mi toccò leggermente il
sopracciglio. Non mi ritrassi, ipnotizzata dai suoi occh fissi sui
miei.
«Tra
poco le tue amiche porteranno il ghiaccio e guarirai più in
fretta» disse, con dolcezza.
«Patrizio?»
«Sì?»
«Vorrei
proprio vedere come sei, senza quella parrucca. Non ricordo granché
di quella sera» ammisi, senza neanche accorgermene.
Patrizio
rimase per un po' in silenzio, poi lasciò andare la mia mano e
indietreggiò.
Inizialmente
non compresi cosa fosse successo, poi le mie amiche ci raggiunsero
con in mano un grosso involucro poco promettente.
Angelica
me lo premette con delicatezza sulla parte lesa e io strinsi i denti.
«Ti
fa male?» domandò Elena, con tono colmo d'apprensione.
«Un
po'» mormorai.
Patrizio
si schiarì la gola e disse: «Vado, tra poco cominciamo.
Ciao ragazze, a dopo».
Era
diventato improvvisamente freddo nei miei confronti e io lo osservai
andar via con nel cuore una punta di tristezza.
Non
sapevo se fossi davvero pronto a rivelarmi a Denise per come ero
realmente. Mi sentivo sempre inadeguato e meno sicuro, senza la mia
corazza protettiva.
Era
come se i miei continui travestimenti mi facessero davvero sentire
come una persona completamente diversa dal banale Patrizio. Con la
mia parrucca e tutto il resto avevo la spavalderia di Patrick the
Prince, ero aperto e sfacciato, in grado di fare battute e di parlare
con tutti. Quando poi rientravo a casa e nel buio mi svestivo per
andare a letto, non avevo il coraggio di guardarmi allo specchio. Mi
sentivo ridicolo nell'accorgermi di non essere niente di tutto ciò
che mostravo e mi inventavo con il mondo esterno.
Mentre
salivo sul palco, quella sera, non pensavo a Patrick, ma a Patrizio
con tutta la sua inutile normalità e monotonia. Trovavo me
stesso noioso e controproducente, concludendo che senza il mio alter
ego non avrei fatto niente di ciò che stavo facendo e in cui
mi ero impegnato fino a quel momento.
Eppure,
Patrizio aveva salvato Denise da q uel depravato diciottenne in crisi
ormonale. Io l'avevo aiutata, senza parrucca, né altri
artifici.
Ma
lei si era dimenticata di me, non mi aveva riconosciuto e ora voleva
da me qualcosa che non sapevo come affrontare.
Intanto,
pensai a sfogarmi con le mie canzoni, senza degnare nessuno di uno
sguardo. Mi esibii nei soliti discorsi di circostanza ma non badai
troppo al pubblico che assisteva allo show. Il tempo trascorse
velocemente, e quasi senza accorgermene mi ritrovai ad un lato del
palco che rovistavo nel mio borsone alla ricerca di un asciugamano e
di una maglia pulita. Stavo sudando tantissimo, l'energia e la carica
della musica mi faceva sempre un effetto devastante.
Dopo
aver rivolto un cenno ad Alessio, mi diressi verso il bagno e
comiciai a rinfrescarmi, per poi cambiarmi la t-shirt. Sfilai la
parrucca e mi tamponai la fronte e il capo, senza spostare
minimamente lo sguardo dal pavimento.
Poco
prima di rimettermi la parrucca, però, mi fermai e sospirai,
ripensando a ciò che mi aveva detto Denise.
Forse
avrei potuto pensare alla sua proposta, o meglio, al suo candido
desiderio. Era una ragazza sensibile e badava poco alle apparenze,
per quanto potessi giudicarla. Da quando mi aveva aggiunto su
facebook, avevo dovuto lottare con me stesso per non mettere “mi
piace” ad ogni sua fotografia e per non cercarla freneticamente
in chat. C'era qualcosa in lei che mi piaceva, mi attirava e mi
affascinava.
Quindi,
non c'era niente di male a mostrarle la mia pelata. Lanciai una
furtiva occhiata allo specchio, poi scossi il capo e tornai ad
indossare quei capelli tremendamente falsi e non miei.
Per
la prima volta, li sentii estranei alla mia persona e ne fui quasi
disgustato.
Ero
certo che Denise guardasse oltre, che vedesse qualcosa in me che,
forse, neanche io riuscivo a scorgere.
Sgattaiolai
fuori dal bagno e uscii furtivamente sul retro del chiosco, cercando
un angolino tutto per me dove fumare in pace. Non ne potevo più
di quella lanugine informe sulla testa e volevo trovare un posto dove
poterla scaraventare da una parte. Quel giorno non avevo proprio
voglia di stare sul palco ad animare la serata mentre i dj
selezionavano ancora della musica per far ballare i più
temerari. Quella sera volevo stare per i fatti miei.
Mi
appollaiai su un muretto, lontano da tutto e tutti, gettai la
parrucca da una parte e cominciai a fumare freneticamente. Sì,
mi sentivo proprio un idiota, un fallito e un buono a nulla. Avevo
costruito la mia fama e la mia carriera su bugie e illusioni, e ora
ne pagavo le conseguenze.
E
tutto per colpa di una ragazzina di diciotto anni che aveva rischiato
uno stupro e che l'aveva scampato grazie a me.
Ancora
stentavo a crederci.
Immerso
com'ero nei miei pensieri, non mi accorsi di qualcuno che avanzava
con cautela verso di me, così non feci in tempo ad indossare
la parrucca. La afferrai con un gesto veloce, ma una voce familiare
mi fece immobilizzare e gelò il sangue nelle mie vene.
«Non
lo fare!» sibilò Denise, annullando la distanza tra di
noi in un attimo che mi tolse il fiato. Afferrò la parrucca e
la nascose dietro la sua schiena, mentre percorreva con calma il mio
viso con i suoi occhi attenti e indagatori.
Le
iridi verdi screziate di marrone scintillarono mentre mi guardava.
Per
un attimo fui invaso dal panico: senza quella parrucca mi sentivo
perso. Mi alzai e, barcollando, allungai un braccio con l'intenzione
di riprendermela. Dovevo essere proprio disperato, perché mi
ritrovai premuto contro di lei, tentando di strapparle quella roba
dalle mani.
«Smettila,
non ti serve questa schifezza, Patrizio!» sbottò lei,
spingendomi con forza e costringendomi così ad indietreggiare.
Denise
esaminò con aria disgustata la parrucca, poi la lasciò
cadere a terra.
Feci
per chinarmi, ma lei mi afferrò per i polsi e me li strinse.
Non avrei mai immaginato che possedesse una forza tale da provocarmi
dolore.
«Mi
fai male, ragazzina!»
«E
tu fai male a te stesso, idiota! Mi fai davvero incazzare, lo sai?»
«Senti,
ma chi ti credi di essere?»
Denise
sollevò il mento con fierezza e mi lasciò andare,
sprezzante.
«Ma
guardati. Sei ridicolo, non te ne rendi conto? Vai in giro con in
testa una fottuta parrucca, ti vesti come un quattordicenne che finge
di provenire dal ghetto e ti dai arie da grande artista! Ma cosa sei,
in fin dei conti? Sei una persona insicura e incapace di stare al
mondo!»
Il
suo tono mi ferì più delle parole che aveva appena
pronunciato, così rimasi immobile a fissare il vuoto,
incassando con più dignità possibile il colpo.
Fu
orribile rendermi conto che aveva pienamente ragione. Quelli erano
gli stessi pensieri che mi avevano tormentato da quando lei aveva
espresso il desiderio di vedere il vero Patrizio. E ora si stavano
srotolando di fronte a me, materializzandosi come un incubo troppo
vero per considerarlo tale.
Mi
sentii invadere da un senso di inadeguatezza senza eguali e mi
lasciai cadere sul muretto, scalciando via la parrucca che, ormai, si
era riempita di polvere e altre schifezze.
«Patrizio...»
mormorò Denise, facendo un passo avanti.
«Lasciami
stare.»
«No,
senti... non volevo offenderti» attaccò, sfiorandomi
timidamente una spalla.
«Vattene
e lasciami in pace, hai capito?» sbottai, sollevando il capo
per sfidarla con lo sguardo.
Lei
non si mosse di un millimetro e rimase a fissarmi senza battere
ciglio.
Poi,
si accovacciò di fronte a me.
«Non
fare lo stronzo, tu non hai bisogno di questo per essere apprezzato.
E non hai bisogno di una parrucca, possibile che non te ne rendi
conto? Non volevo offenderti, ma detesto chi finge di essere ciò
che non è. Specialmente quando non ha motivo per farlo.»
Denise mi prese la mano tra le sue e proseguì: «Stai
tranquillo, Patrizio. Nessuno ti può giudicare se sei
semplicemente te stesso. E sappi che io apprezzo quel poco che
conosco del vero Patrizio, lo apprezzo più di tutta la
facciata che hai costruito con il principe Patrick e tutte queste
stronzate».
Non
potevo credere alle mie orecchie. Mai avrei immaginato che potesse
esistere qualcuno in grado di leggermi così tanto nel profondo
in così poco tempo. In quel momento, non avvertii la
differenza d'età che intercorreva tra me e Denise, sentii
soltanto quanto potesse essere bello parlare con una donna in grado
di comprendere che anche un uomo aveva le sue debolezze e che non
sempre era in grado di nasconderle o superarle.
«Grazie»
sussurrai, incapace di dire qualcosa di meglio.
«Sei
uno stupido. Perché ti vergogni? Stai molto bene senza
quell'orribile medusa di lana in testa» commentò Denise,
regalandomi un magnifico sorriso colmo di dolcezza e di sincerità.
Poi,
allungò una mano verso il mio viso, titubante.
Fremetti,
non sapendo quali fossero le sue intenzioni.
Mi
sfiorò la fronte, poi mormorò: «Posso?».
Annuii
senza neanche accorgermene e lei prese ad accarezzare dolcemente il
mio viso, poi il capo, regalandomi una sensazione di beatitudine mai
provata prima di allora. Non avrei mai creduto che qualcuno potesse
trovare affiscinante la mia nuca, ma mentre Denise mi toccava,
compresi che doveva essere proprio quello ad averla affascinata, non
tanto in quanto particolarità fisica; lei riusciva a scorgere
il disagio che provavo nell'aver perso prematuramente i miei capelli
e stava cercando in qualche modo di confortarmi, facendomi capire che
quello non era un problema e che per lei io ero interessante a
prescindere da quel dettaglio insignificante.
«Wow.
Non avevo mai toccato la testa di un calvo» ridacchiò
Denise, dandomi un colpetto sulla mano che ancora stringeva nella
sua.
«Mi
prendi in giro, ragazzina?» mi infuriai, senza però
arrabbiarmi davvero. Avevo intuito il tono scherzoso della sua voce e
non potei fare a meno di ridacchiare.
«Ah,
sta' zitto» mi rimbeccò, rimettendosi in piedi.
La
guardai dal basso verso l'alto, trovandola bella, illuminata dalla
timida luce della luna. Incrociai il suo sguardo e mi ci persi, prima
di riuscire a mettermi in piedi a mia volta.
Le
scostai dal viso una ciocca di capelli e, stregato dal suo viso dai
lineamenti delicati, mormorai: «Credi che potresti uscire con
me, ragazzina?».
«Tu
che dici?» ribatté. Poi si sollevò sulle punte
dei piedi e mi regalò un piccolo e fugace bacio a fior di
labbra.
Non
ebbi neanche il tempo di realizzare ciò che era appena
successo, che lei era già corsa via ridendo.
Prima
che scomparisse dalla mia vista, la sentii gridare: «Scrivimi!».
Angelica
mi sistemò con aria soddisfatta il vestito che si era
premurata di portarsi dietro, quando le avevo chiesto aiuto.
Giugno
era cominciato da pochi giorni e io ero emozionata. Quella sera sarei
uscita con Patrizio e ancora stentavo a credere di averlo baciato.
Non che quello che gli avevo dato potesse essere definito un vero e
proprio bacio, ma comunque avevo superato un limite e stranamente non
me n'ero pentita, come capitava spesso quando facevo qualcosa di
avventato e fuori dal mio solito e noioso razionalismo.
«Oh,
sei una dea, se Elena fosse qui diventerebbe lesbica solo a
guardarti!» esclamò Angelica, con la sua solita
delicatezza.
Sbuffai,
sollevando gli occhi al cielo. Però, nonostante non volessi
ammetterlo, mi sentivo favolosa: guardandomi allo specchio, notai le
mie gambe insolitamente lunghe e affusolate, sovrastate da un abito
che arrivava sopra il ginocchio di un delizioso color porpora. La
gonna scampanata scendeva morbida lungo le cosce e il corpetto
aderiva ai fianchi e al seno, mentre le spalline sottili ricoperte di
un sottile strato di pizzo erano impreziosite da minuscole rose nere.
Le
scarpe erano abbinate alle decorazioni delle spalline, con un tacco
non troppo alto e grosso. Mi ero rifiutata di usare i trampoli della
volta precedente, nonostante Angelica se la fosse tentata. Io, però,
ero stata categorica.
I
capelli mi ricadevano sciolti e mossi sulle spalle, mentre la mia
amica aveva insistito per truccarmi un po'. Avevamo raggiunto un
compromesso, così il trucco risultò leggero e fresco,
proprio come piaceva a me.
«Sì,
sei una favola. Oh, aspetta, scatto qualche foto e poi la mando ad
Ele, impazzirà!» cinguettò Angelica, afferrando
il suo smartphone.
La
lasciai fare, assumendo qualche posa da cretina e facendo smorfie e
linguacce in direzione dell'obiettivo.
«Un
book fotografico degno di nota» commentò lei, esaminando
gli scatti. «Meno male che abbiamo la stessa taglia, uh, quel
vestito ti calza a pennello!»
Mi
arresi all'evidenza che la mia amica fosse completamente andata e
afferrai la mia borsetta nera, ficcandoci dentro un copri spalle
abbinato.
«Andiamo»
conclusi, sottraendole il cellulare, al che lei mugugnò e mi
seguì all'esterno.
Salutai
velocemente i miei e raggiunsi con Angelica la piccola piazza situata
non molto lontano da casa mia.
Qualche
minuto dopo, la figura alta e snella di Patrizio comparve dall'altro
lato della strada. Sapevo che non aveva la patente e sicuramente
l'aveva accompagnato Alessio.
Angelica,
al mio fianco, soffocò un'imprecazione e mi mollò una
gomitata sulle costole, strappandomi un gridolino.
Forse
avrei dovuto avvertirla della vera natura di Patrizio, però
non ci avevo proprio pensato e non sapevo neanche se lui desiderasse
essere riconosciuto senza la parrucca.
«Ma
è... è... il tizio che ti ha aiutato con Daniele. O
sbaglio?» bisbigliò Angelica, io annuii.
«Ciao»
esordì Patrizio, una volta giunto di fronte a noi. Sorrise ad
entrambe e io ricambiai, sentendomi così felice all'idea che
fosse lì, di fronte a me, senza nessuna maschera o
travestimento.
«Bene...
io vi lascio, divertitevi, eh!» fece Angelica, poi girò
sui tacchi, mi stritolo velocemente una mano e se ne andò di
tutta fretta.
Patrizio
la osservò, sconcertato, poi mi lanciò un'occhiata
interrogativa. Infine domandò: «Non gliel'hai detto?».
Scossi
il capo e feci spallucce.
Poi
notai i suoi occhi posarsi su di me, esaminare il mio abbigliamento e
indugiare un istante sulla scollatura rotonda e deliziosamente
decorata da roselline identiche a quelle delle bretelle.
Mi
sentii avvampare, poi notai il suo sorriso allargarsi.
Scosse
il capo e ridacchiò.
«Lo
prendo come un complimento, Patrick» lo apostrofai, per poi
prenderlo sottobraccio.
«Dove
andiamo?» domanai.
«Ti
va una pizza?» propose, sorridendo.
Annuii,
grata che non avesse pensato a una cena elaborata in qualche posto
troppo chic e alla moda per me.
Dopo
cena, andammo a sederci sulla terrazza esterna alla pizzeria.
Mi
sentivo estremamente bene quella sera, non avevo alcuna barriera a
separarmi da Denise e dalla sua bellezza.
Ormai
non potevo più negare di esserne attratto, specialmente dopo
quel bacio che si era permessa di rubarmi. Avrei voluto approfondire
quel contatto nel momento stesso in cui era avvenuto, ma lei era
fuggita e io non avevo fatto altro che pensarci finché non
l'avevo pregata di uscire con me quella sera.
E
così, aveva accettato e la serata si stava svolgendo nella
maniera giusta ed era estremamente piacevole stare in sua compagnia.
Il
vestito che Denise indossava era perfetto per lei, le conferiva
un'aria raffinata e più matura, nonostante in quanto ad
intelligenza non avesse niente da invidiare a molte delle mie
coetanee.
Mentre
sedevamo su un divanetto di vimini situato in un angolo del terrazzo,
intrecciai le mie dita alle sue e la guardai negli occhi.
«Sei
contenta di essere qui o ti annoi?» le domandai, accarezzandole
il viso con la mano libera.
«Quanto
sei insicuro da uno a dieci, Patri?» mi canzonò, per poi
accostarsi di più a me. Mi circondò il collo con le
braccia e premette la fronte contro la mia, scuotendo leggermente il
capo. «Io credo... almeno... venticinque» sussurrò,
prendendosi beatamente gioco di me.
Punto
nel vivo, la attirai bruscamente a me, sentendo un desiderio quasi
incontrollabile di baciarla.
Lei
parve sorpresa, ma non si ritrasse e sollevò leggermente il
viso verso il mio, per potermi osservare meglio.
«Ne
sei certa?» feci, poi la baciai, non potendone più di
quell'attesa. Desideravo farlo da troppo tempo e non mi curai
minimamente delle differenze che c'erano tra noi. Avrei voluto che
Denise fosse mia, che divenisse la mia donna e la mia compagna,
perché era stata l'unica a comprendere quelle che erano le mie
difficoltà ed era stata da subito determinata a farmi superare
ogni mia insicurezza.
Lei
non perse tempo e approfondì il nostro contatto, come se fosse
impaziente quanto me.
Giocai
per un po' con la sua lingua, poi mordicchiai il suo labbro inferiore
e mi scostai per riprendere fiato.
Osservai
attentamente la sua reazione e mi sentii al settimo cielo quando la
trovai che sorrideva. Prese ad accarezzarmi il capo, stringendosi al
mio corpo.
«Tu
non hai bisogno di qualcuno che giudichi le tue apparenze. Sarebbe
bello se potessi accettare la mia presenza nella tua vita»
sussurrò, affondando il viso sul mio petto.
La
strinsi con forza, desiderando di non lasciarla andare per nessuna
ragione al mondo. Mi sentivo in pace con il mondo e sapevo che con
Denise avrei potuto superare qualunque ostacolo.
«Non
potrei accettare» risposi, accarezzandole un fianco, «di
perderti. Fai già parte della mia vita, non ho fatto altro che
pensare a te da quella sera, da quando quel bamboccio ti ha messo le
mani addosso e io mi sono sentito morire».
«Daniele
è solo un cretino, non pensarci più, capito?» mi
rimproverò, cercando nuovamente il mio sguardo.
Annuii,
anche se avrei volentieri impedito che quel demente importunasse
qualcun altro per il resto della sua vile esistenza.
«Patri,
adesso baciami e non pensare a niente» mi ordinò Denise,
strizzandomi l'occhio con espressione maliziosa.
Mi
gettai a capofitto sulle sue labbra, senza pensarci due volte.
Il
mondo sarebbe potuto finire in quel momento che non me ne sarei
minimamente reso conto, tant'ero felice e innamorato.
Se
fino ad allora avevo creduto che l'amore non esisteva, mi ero
sbagliata.
Da
quando io e Patrizio stavamo insieme, avevo rivalutato tutti gli
standard e i paletti del mio razionale cervello.
Non
riuscivo a trascorrere troppo tempo senza vederlo e accoccolarmi tra
le sue braccia. Lo seguivo ad ogni concerto e non facevo altro che
sostenerlo, cercando di fargli capire che anche al suo pubblico
sarebbe piaciuto il vero Patrizio, che avrebbe conquistato chiunque
senza quella dannata parrucca. Tuttavia, non potevo impedirgli di
indossarla nelle occasioni di lavoro, ma lo minacciai di morte se
solo avesse provato a mettersela in mia compagnia. Lui aveva
accettato di buon grado, segno che con me si sentiva a suo agio.
La
cosa mi faceva immensamente piacere, anche perché non avrei
mai pensato di colpire in quel modo un uomo di trentadue anni. Io ne
avevo diciotto e mi ero appena diplomata. Da quando io e Patrizio
eravamo usciti per la prima volta, era trascorso quasi un mese e il
caldo torrido di luglio mi stava letteralmente facendo impazzire.
Una
sera andai con lui ad una serata e, mentre cenavamo con un panino
offerto dai proprietari del chiosco, notai che era piuttosto
pensieroso.
«Patri,
che c'è?» gli domandai, preoccupata.
Mi
posò distrattamente una mano sulla coscia e scosse il capo.
Non
riuscii a curarmi particolarmente di quel suo gesto, perché il
suo silenzio colmo di tensione mi metteva ansia. Afferrai la sua mano
e la strinsi tra le mie, cercando di confortarlo.
«Vuoi
dirmi che succede?» insistetti.
Si
voltò per guardarmi e io cercai di ignorare la parrucca, anche
se ormai ci avevo fatto l'abitudine e non gli dicevo più
niente quando la indossava durante i concerti.
«Pensavo
di non usare questa, oggi» ammise infine, sfiorando la parrucca
con la mano libera.
Sgranai
gli occhi e dovetti fare del mio meglio per non saltargli addosso e
festeggiare in maniera poco casta quella rivelazione.
«Dobbiamo
festeggiare!» esclamai, concedendomi uno dei suoi magnifici
baci.
Quando
mi staccai da lui, lo trascinai in piedi e mi diressi verso il bagno
degli uomini, sotto lo sguardo interrogativo dei presenti. Non me ne
fregava niente.
Una
volta dentro, gli strappai via la parrucca e gli gettai le braccia al
collo, baciandolo con rinnovato trasporto.
«Attenta,
ragazzina, prima dovrei esibirmi» mormorò con tono
sensuale, mordicchiandomi il labbro, per poi passare al lobo
dell'orecchio.
Mi
lasciai sfuggire un piccolo gemito e lo spinsi via, ridendo.
«Dopo,
festeggeremo dopo» lo ammonii, poi indicai la porta e aggiunsi:
«Andiamo. Vai vedere a tutti chi sei, Patri. Sei una persona
speciale e io temo di essermi innamorata di te, com'è
possibile?».
Il
mio tono voleva sembrare scherzoso, però Patrizio si fece
terribilmente serio e mi spinse contro la parete, fissandomi dritto
negli occhi.
«Io
mi sono innamorato perdutamente di te, Deny. Fattene una ragione.»
«Sciocco»
sussurrai, baciandolo con dolcezza.
Scosse
il capo e mi prese la mano, poi insieme uscimmo dal bagno, lasciando
la parrucca dentro il cesto dei rifiuti.
Sapevo
che quello sarebbe stato un meraviglioso cambiamento per lui e io gli
sarei stata accanto, comunque fosse andata. Ormai ero la sua compagna
e non avevo la minima intenzione di abbandonarlo.
Fu
uno spettacolo esplosivo. Molti dei suoi fan sembravano sorpresi, ma
per altri non cambiò essenzialmente nulla. Furono felici di
accoglierlo e tutti insieme ci divertimmo a ballare e cantare con
Patrick the Prince.
Quando,
qualche ora più tardi, ci ritrovammo a casa sua, ero così
felice ed euforica che non gli lasciai via di scampo.
Lo
trascinai sotto la doccia e mi presi cura di lui, lasciando che lui
facesse lo stesso. Il sesso tra noi era stato magico fin da subito,
ma quel giorno c'era davvero tanto da festeggiare e io mi impegnai
affinché quella serata fosse fantastica per lui.
«Mi
hai reso la donna più orgogliosa di questo mondo» gli
sussurrai all'orecchio, mentre lo spingevo dolcemente sul materasso,
dopo averlo asciugato con cura.
Lui
si preoccupò di slacciarmi l'asciugamano che avevo legato
attorno al corpo e io feci lo stesso con il suo, lasciandolo cadere
sul pavimento.
Mi
stesi sopra di lui e lo baciai con passione, desiderando che mi
facesse sua al più presto.
Ci
rotolammo sotto le lenzuola per un po', mentre io impazzivo per ogni
suo piccolo gesto e per il modo buffo e sexy in cui gemeva: la sua
voce assumeva sempre una nota disperata mentre facevamo l'amore e io
adoravo sentire quella disperazione, perché sapevo che celava
un piacere immenso e solo nostro.
Quella
notte lo amai intensamente e seppi di appartenergli come non avrei
mai creduto possibile.
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