SENZA
DI LEI ...
Seguii la cancellata che
circondava il cimitero e la saltai nel punto più vicino alla
cappella funeraria
della mia famiglia, il luogo dove avevamo lasciato Elena a
"riposare". Un incantesimo ne impediva l’entrata a chiunque,
ma non a
me. Avevo chiesto questo favore
a Bonnie
… me lo doveva: in fondo non l’avevo ancora uccisa.
Appoggiai
le mani alla porta
sigillata e la spinsi delicatamente: la serratura cedette docile alla
pressione
dei miei palmi.
Un
intenso odore di polvere e
stantio impregnava l’aria.
Non
ero mai stato lì prima di
quella sera: saperla chiusa in una bara era un dolore troppo forte.
La
visione della cassa di legno
lucido fece perdere parecchi colpi al mio cuore.
Passai
le mani sul cofano coperto
di polvere e andai a cercare la fessura che lo separava dalla bara, per
infilarci le dita e sollevarlo.
Quella
notte avevo davvero
bisogno di lei, di illudermi di averla vicino, di sentirla accanto a me.
Ogni
sera, rientrando a casa –
quando e se decidevo di rientrare – il pensiero che non
l’avrei trovata mi
annullava. Il suono dei miei passi echeggiava nel vuoto che lei aveva
lasciato.
Non accendevo nemmeno la luce: non volevo vedere la sagoma della sua
assenza.
Entravo
barcollando nella mia
camera: il letto sempre disfatto e le lenzuola, che avevano ormai perso
il suo
odore, giacevano stropicciate in fondo materasso.
Disordine.
Disordine ovunque.
Sul
pavimento del bagno si accumulavo
i miei vestiti sporchi mentre sul mio volto la barba incolta segnava il
passare
del tempo, che non scorreva mai abbastanza in fretta.
Spesso
mi svegliavo nel cuore
della notte scosso da incubi, percorso da brividi che mi attraversavano
dalla
pelle al midollo.
All’alba
mi alzavo stanco e
sfibrato, sempre solo, fradicio di sudore e rabbia.
Il
dolore non passava. Il gelo
non si scioglieva.
Mi
mancava Elena.
I
giorni passavano ed io ne
tenevo il conto tracciando fregi sull’anima.
Era
trascorso quasi un anno e
sembravano cento ma, ne ero certo, una volta risvegliata Elena, tutto
questo
tempo non sarebbe stato che un ticchettio stonato, un rintocco spezzato
dell’orologio della torre.
Bonnie
sarebbe potuta
sopravvivere sessant’anni o sessanta giorni …
forse solo sessanta minuti, se avessi
dato ascolto al mio desiderio folle di soffocarla nel sonno
… comunque per
troppo tempo.
Mi
ripetevo che il giorno dopo
non poteva essere peggiore di quello appena trascorso, che ogni minuto
era un
minuto in meno da aspettare, un minuto lasciato gocciolare nel passato
verso un
futuro con lei.
Un
pensiero mi tormentava,
fastidioso come un picchio dentro la mia testa: se il tempo
dell’attesa, se pur
lento, fosse infine passato, con quale velocità avremmo
esaurito il nostro
tempo insieme?
Un
giorno o cent’anni non
sarebbero stati che un respiro, un lampo di luce dopo
un’eternità di buio.
Lei
umana. Io umano.
Un
battito e tutto sarebbe stato
inghiottito nell’oblio.
Ero
convinto che ne sarebbe valsa
la pena, ma sapevo bene che non mi sarebbe bastato … mai.
Scacciai
i tormenti e fissai lo
sguardo sul suo volto addormentato.
La
magia aveva lasciato i suoi
tratti inalterati; solo il colore era scomparso dalle sue guance
lasciando un
velo di grigio sulla sua pelle.
Posai
la mano sul suo cuore per
cercare un segno di vita.
I
battiti erano lentissimi,
dilatati nel tempo, quasi inesistenti per un orecchio umano.
Non
era morta, ma non era nemmeno
viva.
Se
non fossi stato al corrente
della folle tortura a cui ci aveva sottoposti l’immagine
distorta di una
Malefica al maschile, sarei caduto nell’inganno e, come Romeo
vedendo Giulietta
nella cripta, avrei gettato nella bara il mio anello e sarei andato ad
abbracciare il primo raggio di sole.
Le
sue palpebre chiuse erano un
muro che m’impediva di vedermi riflesso nei suoi occhi,
l’unico specchio che mi
rimandava un’immagine accettabile della mia anima tetra.
Allungai
una mano per
accarezzarle la fronte.
Avevo
voglia di parlarle.
Avevo
voglia di sentire la sua
voce.
Avevo
voglia di lei.
Afferrai
la sua mano fredda e me
la portai alle labbra e, illudendomi che mi potesse sentire, chiusi gli
occhi e
incominciai a parlarle.
Dammi
ancora un attimo,
un ultimo respiro, uno sguardo.
Elena, io ti salverò,
anche se dovessi strapparmi il cuore,
e salverò il nostro amore
anche se ciò significa rinunciare a te.
Lo metterò in una bottiglia di vetro,
lo sigillerò col sangue e un tappo di sughero.
lo affiderò alla tempesta,
ai venti impetuosi della disperazione,
affiche attraversi l’oceano del tempo
e approdi sulla spiaggia di quel futuro
in cui ci ritroveremo.
Non ci sarà bonaccia …
Non si infrangerà contro gli scogli del destino ..
Tu camminerai seguendo le tracce delle mie orme cancellate dalle onde,
inciamperai in questo relitto … intatto,
ed io sarò lì
fradicio di pioggia e sale,
ad aspettare che tu rompa quel vetro,
per ricominciare a vivere.“Elena, spero che tu
ti stia riposando per
bene. Sappi che sto contando le notti che mi devi e, per ogni notte di
attesa,
mi dovrai restituire una notte di sesso folle.
Io,
per ora, sopravvivo.
Qui
fuori c’è un gran casino, dentro di me
c’è un gran casino, ovunque
è un gran casino.
Le
cose per me non sono facili. Sono perennemente arrabbiato con me
stesso, con te … con Bonnie che non si decide a schiattare
… scherzo.
Anche
no.
Stefan
tenta di essere comprensivo ma la sua pazienza mi fa stare
peggio, mi fa sentire indegno. Mi parla di te nei miei momenti
più duri, mi
ricorda che ti risveglierai.
Ma
io vivo nel terrore che, risvegliandoti, non mi vorrai più,
che mi
odierai per non aver ucciso Bonnie, per essermi lasciato andare alla
deriva,
per non essere rimasto con te in questa bara, ad aspettare il tuo
risveglio, a
dirti che ti amo fino a quando le mie vene non si fossero essiccate.
Sono
tutti comprensivi, ma
nessuno capisce fino in fondo cosa mi ha scavato dentro la tua
mancanza, il
fatto di saperti qui e non poterti avere, di saperti viva ma non
vitale,
sveglia ed eccitata al mio fianco.”
Parlare
e non ricevere risposta
era frustrante.
La
sua immobilità mi faceva
sentire impotente, furioso e stanco … soprattutto stanco.
Stanco
di combattere una battaglia
persa contro la mia solitudine, contro la voglia di premere
quell’immaginario
bottone e spegnere ogni emozione che abrade il mio cuore come carta
vetrata.
Stanco
di esistere e di
resistere.
Quella
sera il cielo era oscurato
da nubi e l’assenza di luna rendeva tutto più
tetro. Non c’erano raggi argentei
che filtravano tra i vetri ad illuminarle il volto, né una
candela a
rischiarare la cripta: solo il buio, fuori e dentro.
Avevo
passato la giornata ad
evitare lo sguardo indagatore di mio fratello, il giudizio patetico
degli occhi
di mia madre e la tentazioni omicida delle scorribande con Enzo.
La
situazione era resa
insostenibile dalle continue tensioni tra la polizia e gli
“amici” di Lily, che
dominavano la città con la loro oscura magia e la loro sete
di sangue, tenuta
sotto controllo solo dalla ferma determinazione di mia madre
affinché la sua
famiglia, quella che si era scelta, ovviamente, avesse una dimora
stabile e non
si trasformasse in una banda di squartatori.
Bonnie
si teneva cautamente alla
larga da mie eventuali perdite di controllo e aveva sviluppato un certo
sesto
senso, o un incantesimo ad hoc, che la avvertiva ogni qual volta mi avvicinavo a lei.
La
città era avvolta nella
polvere di una noia mortale: tutto era sotto il ferreo controllo di
umani e
vampiri, coesi in un equilibrio tanto precario quanto necessario
perché non si
finisse in un bagno di sangue.
Era
come vivere in uno di quei
film futuristici post catastrofici, in cui l’imposizione di
un ordine era la
causa stessa di un'imminente rivoluzione.
Io non mi ero schierato.
Non
volevo essere parte di
squadre punitive munite di manganelli di legno appuntiti, né
far parte di una
cerchia di assassini sanguinari che mantenevano una pace apparente per
poter
continuare ad illudersi di essere una schiera di esseri eletti,
destinati a
dominare il mondo.
Io
volevo essere un vampiro, un
uomo … qualsiasi cosa, forse nulla, in attesa di riavere il
mio futuro, la mia
donna, la mia vita, che giacevano nella bara di fronte a me.
Incapace
di resistere oltre,
appoggiai le mie labbra sulla sua fronte fredda.
Sperai
in una sua reazione, ma
lei non ero Aurora ed io non ero il principe Filippo.
Il
mio volto scivolò più in basso
e le nostre guance si sfiorarono, accendendo in me il bisogno di avere
di più.
A
detti stretti maledii il
destino e la mia debolezza, poi spensi la coscienza per non farmi
seppellire
dalla follia che stavo per compiere.
Nel
silenzio della notte, le assi
della bara scricchiolarono mentre m’infilavo in quello spazio
angusto e mi sdraiavo
accanto a lei.
Al
suo fianco: quello era il mio
posto.
Incrociai
le mie dita alle sue e
chiusi gli occhi, la mia fronte incollata alla sua tempia.
Aspettai
il battito del suo cuore
e cercai di entrare nella sua mente: se stava dormendo, forse sognava.
Buio.
Avrei
sognato io per lei.
E
questa volta non sarebbe stata
una strada, non sarebbe stato un ballo, una resa, un addio.
Questa
volta no.
Un
altro battito: il leggero
scorrere del sangue nelle sue vene mi diede la scossa e
l’aroma del suo sangue
umano solleticò le mie narici.
Lasciai
la sua mano e immersi le
mie dita tra i suoi capelli, per stringere la sua testa ancora
più vicina alla
mia, quasi a voler entrare fisicamente nel suo cervello.
Ero
indeciso se rivivere un
ricordo o immaginare un futuro, riprovare antiche emozioni o cercarne
di nuove.
Lasciai
scorrere i pensieri sulla
sua pelle e mi ritrovai in camera mia, in un momento senza tempo, in un
giorno
senza data.
Mi
guardai attorno e percepii
qualcosa di diverso.
Certo
quella non era la camera che
avevo lasciato venendo alla cripta, non era la stessa che avevo
condiviso con
Elena per qualche notte, eppure era la mia camera.
Cercai
i piccoli particolari che
le la rendevano diversa, come nel gioco “trova le
differenze”: le tende non
erano le mie tende, le lenzuola non erano le mie lenzuola rosse e le
candele
profumate che riscaldavano l’aria non le avevo accese io.
C’erano
ordine e calore, profumi
e colori diversi, avvolgenti … un tocco femminile ben
integrato nell’inalterato
gusto maschile che permea la stanza.
Era
una camera condivisa, era un
locale in cui due persone trascorrevano insieme parte del tempo della
loro
vita.
Riconobbi
il tocco di Elena nelle
lenzuola blu, negli asciugamani azzurri impilati sulla cassettiera in
attesa di
essere riposti in bagno, nella luce tremolante delle candele al sandalo
che
bruciavano lente.
Lei
era lì. Era stata lì, non
c’erano dubbi. Quella era la “nostra”
camera … nostra e di nessun altro.
Una
voce echeggiò nella mia
testa:
“Ero
un po’ stanca del rosso …”
Elena.
“Elena?
…”
Silenzio.
Mi
guardai intorno ma non riuscii
a vederla.
Mi
diressi verso il bagno
sperando di trovarla immersa in una vasca piena di schiuma …
nulla.
L’immagine
stava svanendo, come
le mie speranze di rivederla, ma al suono di un altro palpito del suo
cuore, la
stanza riprese i suoi contorni.
“Damon
… ti piacciono e tende? Il
velluto di prima era troppo pesante e ho pensato che
…”
“Elena!”
Era
lì. Lei era lì … e dopo un
anno mi viene a parlare delle tende?
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