*NOTA
INTRODUTTIVA*
“Scrivere
qualcosa di così grande come FALL
OF THE KINGDOM - Equestria Rim, significa
tornare continuamente sulle proprie orme per modificare ciò
che si è fatto in precedenza, a beneficio
dell’esperienza che sarà raccontata in futuro.
A
un certo punto della stesura - erano le ultime pagine
dell’ATTO.1 - ACCETTAZIONE - gemmò in me
l’ispirazione per una nuova sottotrama che avrebbe potuto
fare da collante per tutti gli avvenimenti che racconterò
dall’ATTO.2 in poi. L’unico problema, giunti a
questo punto, fu che non c’era abbastanza spazio per
introdurla nel modo dovuto. Dovevo raccontare del IV Attacco, capitolo
di per sé saturo di accadimenti, e la circostanza mi aveva
convinto a limitare questa nuova sottotrama a una semplice citazione,
celata (neanche poi sottilmente) in due semplici righe di dialogo; vi
sfido a trovarle, se siete abbastanza caparbi (si trova nella parte
seconda de “Il Quarto Attacco”).
Avevo
bisogno di un ripiego dunque, qualcosa che mi permettesse
d’introdurre la sottotrama senza scompigliare
l’intricatissimo piano iniziale. Ed è stato allora
che è arrivato “Storie
dall’anno zero”. Questo
fumetto, rilasciato poco dopo l’uscita di Pacific
Rim al
cinema, narra gli antefatti che precedono il film, riassumento per
sommi capi i passaggi fondamentali che hanno portato
all’evoluzione degli eventi, così come li
conosciamo noi.
Era
PERFETTA come ispirazione! E così, ecco “Storia
del Giorno Zero”. Breve
Atto extra che vi racconterà gli avvenimenti subitamente
attigui al Prologo di FALL OF THE KINGDOM - Equestria Rim.
È
a tutti gli effetti un inizio alternativo della stessa storia, che
può essere letto come supplemento del Prologo originale, da
parte dei lettori che già conoscono e seguono ER,
così come dai nuovi lettori, che si avvicinano per la prima
volta al libro.
Giunti
a questo punto, non mi resta che augurarvi una piacevole lettura,
sperando la troviate all’altezza dell’opera
originale, o che magari - se siete tra quelli che sentono parlare di ER
per la prima volta - si convincano a proseguire l’avventura
una volta completate queste pagine.
Un
caloroso grazie da parte mia, e vi lascio liberi di
cominciare!”
Cover
created by Alvin
Miller
CAPITOLO
0.1: L’Eremita
In
principio fu il caos. Esplosioni, morte e distruzione. Un senso
d’impotenza che si tradusse in un’inevitabile
verità: non sarebbe sopravvissuto. Poi il buio si prese ogni
cosa.
Spalancò
gli occhi, e un senso di vuoto lo travolse. Non c’erano fonti
di luce ma barlumi sottili che filtravano attraverso muri lineari,
permettendogli d’intuire quanto fosse ampia la scatola che lo
rinchiudeva. Forse chi lo aveva messo lì non voleva che
vedesse cosa c’era dall’altra parte.
Era
sospeso a mezz’aria, sostenuto da qualcosa in un clima
torrido e caldo.
Si
sentivano suoni uterini provenire dai bordi, come di liquidi
gorgoglianti che serpeggiavano lungo le superfici, attraverso tubi che
non riusciva a vedere. E c’erano voci nella sua testa, che
gridavano di disastri e sventure provenienti dal passato. Cercava di
ascoltarle, senza però essere in grado di dare a ognuna una
propria identità. Era come se migliaia di ricordi, ognuno
diverso dall’altro, si scavalcassero a vicenda per cercare di
predominare sulla sua ragione. Esistenze che credeva di aver vissuto,
ma di cui non poteva avere traccia, perché lui non
era ancora nato.
Aveva
paura, si sentiva a disagio, come se capisse di essere in una forma
diversa da quella che avrebbe dovuto. Erano davvero suoi quegli arti
che sentiva così pesanti sulle spalle, si chiese. E poi quel
corpo, perché gli appariva così diverso rispetto
a come se lo ricordava (ma cosa “ricordava”?)?
Dubbi,
interrogativi, rimembranze… talvolta allucinazioni. Troppe
cose per qualcuno che non si era ancora presentato al cospetto della
vita, e sebbene ciò, si stava già confrontando
con i suoi tormenti.
Non
fu in grado di prendere nota di quanto tempo era trascorso da quando
quella forma di coscienza individuale si era risvegliata dentro di lui.
Le tenebre che lo ingabbiavano lo serbavano in uno stato di
sconfortante confusione, dal quale evadeva solamente quando concedeva a
quelle voci (quelle grida) nella testa di attirarlo verso di loro; si
dimenticava di tutto, e lasciava che i loro pianti lo circondassero,
quindi tutto diveniva sfumato. Smetteva di avere senso. Ma quando
tornava lucido, conscio della situazione e dello stato
d’inutilità che la sua esistenza aveva preso,
opponendosi a forze che non comprendeva nemmeno, allora poteva captare
sulla propria pelle il graffiante passaggio di ogni singolo istante che
gli scivolava addosso.
Più
grave di ogni altra cosa, più opprimente della prigionia
stessa, era proprio la compagnia di quelle voci. Lo mettevano in
malessere, perforandogli i timpani con litanie miserevoli, verso le
quali era completamente alla mercé.
“Smettetela,
non voglio più sentire nessuno! Voglio che mi lasciate
solo!” Così
sarebbe stato il suo pensiero, se avesse potuto comporre delle parole
in una lingua comprensibile.
Compiva
azioni, come portarsi le grandi zampe alla fronte, che nella sua
immaginazione sarebbero servite a scacciare quei gemiti infelici, ma
che produssero soltanto risultati opposti, spingendo le
entità a gridare ancora più forte, in una ruota
della sofferenza che si autoalimentava da sé con i tormenti
dell’una e delle altre parti.
Poi
un giorno, quando stava quasi per abbandonarsi al flagello della sua
effimera esistenza, qualcuno mise a tacere quelle voci, così
come un rigido capobranco avrebbe rimesso in riga la sua famelica torma
di fiere.
Assaporò
per la prima volta il gusto del silenzio, e decise che quello sarebbe
stato il suo modello di benessere assoluto, da quel momento in poi.
In
seguito, la voce che aveva ammutolito le altre iniziò a
rivolgersi a lui. Gli parlò da dentro il suo cervello, in un
modo che lui (non sapeva come) era in grado di comprendere; non
turbò il suo animo, questa intromissione, dato che gli si
rivolse in modo solenne ma affettuoso, impartendogli istruzioni chiare
e alla portata del suo acume. Di più, sembrava comprendere
il suo stato emotivo meglio di se stesso, riuscendo ad anticipare, e
quindi variare la cadenza, non appena la conversazione iniziava a
irritarlo. E quindi la voce si abbassava, e se poco prima era stata
alta e impostata, subito dopo diveniva un sussurro dolce e accogliente.
Gli
disse che doveva muoversi, che doveva raggiungere un posto, e quando
questi manifestò disagio, al pensiero di dover affrontare
qualcosa di nuovo (di ignoto e terribile), la Voce lo
tranquillizzò spiegandogli come fare. Si promise, inoltre,
che lo avrebbe accompagnato nel suo cammino, che non lo avrebbe
abbandonato ai misteri che lo attendevano.
Invece
di trovare conforto, lui s’infervorò ancora di
più, facendo capire che non era quella la condizione alla
quale ambiva: la solitudine era tutto ciò che desiderava,
senza voci nella testa che lo costringessero ad agire per coercizione.
Preso
atto di ciò, la Voce del Capobranco gli promise che da quel
momento sarebbe stata in silenzio. Si sarebbe adagiata sulla sua
spalla, e sarebbe intervenuta solo per dargli consigli, quando lui ne
avesse manifestato il bisogno.
Ci
furono degli stridori metallici, e avvertì che i legami che
lo stavano trattenendo ora si distaccavano da lui, adagiandolo con cura
a un pavimento solido e umido. Era finalmente libero di muoversi.
Il
primo approcciarsi al senso della “vista” fu per
lui un altro motivo di disagio, che si poté aggiungere
all’elenco delle esperienze negative che aveva accumulato.
Fu
accecato da una luce intensa che divampò nello spazio,
aprendo uno scorcio intorno al quale danzarono lingue di fuoco
arancioni. Di primo acchito pensò di allontanarsi da essa,
tenendo fede all’antico proverbio secondo cui bisogna tenersi
alla larga dalle fiamme. La voce del capobranco, però,
mandò un ordine contrapposto, affermando che se voleva
davvero andarsene da lì, c’era solo un sentiero
che poteva imboccare. La via della luce.
Reticente
di fronte a quella prospettiva, voleva però credere che la
sua guida fosse sincera, pertanto doveva fare lo sforzo di lasciarsi
guidare, almeno fino a quel punto.
Con
passi lenti, e la sensazione sempre costante di avere un corpo molto
più ingombrante di quanto non ricordasse (se ricordava),
sfidò il primordiale istinto di sopravvivenza e
compì un ultimo passo verso la breccia.
Si
ritrovò in un posto totalmente diverso, che soltanto a una
prima analisi poteva assomigliare al vuoto dal quale era appena
sfuggito.
La
Voce del Capobranco gli sussurrò di nuovo, (continuava a
parlargli, nonostante la promessa che si sarebbe intromessa il meno
possibile) spiegandogli che adesso doveva avanzare, che nuovi sentieri
attendevano che lui li battezzasse.
Più
calmo di quanto non fosse un istante prima, si concesse una tregua per
studiare quanto gli stava intorno: la luce che proveniva dalla Breccia
illuminava un antro le cui pareti erano di un materiale solido e
diseguale (roccia), con un alto soffitto da cui scendevano goccioline
di condensa, che lui a malapena riusciva a sentire quando cadevano, e
che represse per un po’ la sensazione di essere troppo
ingombrante in quella nuova realtà.
Alle
sue spalle il varco infiammato non era scomparso, e anzi continuava a
risplendere dando colore e consistenza alla grotta buia e immensa, ma
già da adesso, lui sapeva che non avrebbe mai più
varcato quella soglia.
Scorse
una cavità più piccola lungo la compattezza della
parete, e seppe per istinto – non per l’influenza
della Voce – che era da lì che il suo cammino
avrebbe dovuto proseguire.
Marciò
a lungo attraverso il condotto che la natura aveva scavato per lui,
aiutandosi un po’ con le zampe e un po’ con la
vista per superare le asperità che si frapponevano fra lui e
la tappa successiva.
C’era
umidità là dentro, e molti odori diversi, che con
le sue grandi narici s’intrattené a scoprire:
erano le essenze della pietra e dell’argilla, che talvolta
erano più intense, e altre volte si lasciavano sostituire da
quelle più particolari del bitume. Si fermò a
fiutare una grande stalattite che scendeva dal basso soffitto (lo era
per lui), riempiendo le sue cavità nasali
d’inconfondibili odori calcarei.
Realizzò
che questi afrori, a modo loro, lo portavano in uno stato di pace che
non aveva mai provato nel vuoto, e che se doveva immaginarsi un luogo
in cui trascorrere la sua vita futura, voleva che fossero quelle
caverne.
Ma
la Voce del Capobranco aveva altri piani per lui, e voleva che
proseguisse il suo cammino verso l’imboccatura successiva.
Gli disse che, dove lo stava conducendo, c’erano altre
sensazioni da scoprire, e che per assaporare il vero aroma della
libertà, non poteva ridursi al poco che aveva vissuto.
Camminò
ancora e senza tenere conto del tempo che scorreva, lasciando che la
sua mente si seducesse in quel nirvana di piacevolezze. Quando
c’era da arrampicarsi lungo un dislivello, allungava le zampe
anteriori e si aggrappava alle irregolarità del terreno.
Quando invece doveva accucciarsi per superare un budello più
stretto degli altri, piegava le ginocchia e strisciava con attenzione.
Per poco il suo corpo non rimase incastrato dentro un anfratto, e la
Voce del Capobranco lo rimproverò di fare maggiore
attenzione in futuro.
Raggiunse
la riva di un lago sotterraneo, e qui sentì alcune delle
nuove sensazioni che gli erano state promesse. Captò la
salinità dell’acqua, e poi più
indistinti, esalazioni di materia organica distanti, che potevano
provenire dall’acqua, così come da sotto la camera
sotterranea, per quanto ne sapeva.
La
superficie del lago era statica e trasparente, smossa soltanto dalle
increspature provocate dai suoi passi. Sotto la profondità
intravide uno sprazzo di luce naturale blu marino, che lasciava a
intendere che oltre quella pozza si stagliasse un altro universo, nuovo
e ignoto.
Così
come prima, la prospettiva di varcare quel nuovo valico,
riempì il suo cuore di timori primordiali, che il Capobranco
dovette sopprimere per convincerlo a non fermarsi. La pazienza
indefessa, con la quale affrontava ogni suo capriccio, erodeva senza
alcuna difficoltà le difese che volta per volta la sua
coscienza erigeva.
Il
suo primo contatto con l’acqua gli suscitò un
bizzarro sbalordimento, quando gli sembrò che
l’umidità della grotta e del vuoto, di cui si era
già abituato, lo ricoprisse penetrando in ogni suo piccolo
poro, gonfiando ogni grinza di pelle. Si rese conto di sapere
esattamente come avrebbe dovuto comportarsi una volta tuffatosi, come
se lo avesse già fatto innumerevoli volte. Non fu il
Capobranco a suggerirgli come adattarsi al nuovo ambiente,
bensì quei ricordi, che facevano parte del suo bagaglio,
sebbene non li sentisse come propri.
Poi
giunsero, come lampi nel cielo, nuove scoperte sulle sue attitudini
anfibie: scoprì di poter trattenere il fiato a lungo,
nonostante la sua mole suggerisse il contrario, e constatò
che quelle due lunghe appendici che pendevano dal suo dorso erano in
realtà due pinne indipendenti che poteva sfruttare per
tagliare l’acqua e slittarvi attraverso, oppure per
direzionarsi. L’ampiezza delle sue zampe le trasformavano in
efficientissimi remi, con cui poteva darsi la spinta per muoversi in
avanti.
Non
gli ci volle molto per uscire dal condotto sottomarino, e una volta
evaso, gli si aprì un’immensa distesa di blu,
nella quale tante creature abissali (minuscole alcune,
tant’è che difficilmente riuscì a
intravederle) guizzarono via non appena la sua massa imponente fece
capolino dalle viscere della terra.
Avrebbe
voluto fermarsi per esaminare il passaggio degli animali nuotatori, non
fosse che la sua riserva d’aria stava via via andando a
esaurirsi.
Con
grande fretta, rincorrendo l’emergenza di respirare,
seguì il fondale sabbioso laddove realizzò che si
sollevava rispetto al livello del mare. Gattonò su di esso
intorbidendo l’acqua al suo passaggio, con nubi di materia
che s’innalzava da dietro formando una scia.
Arrivò,
infine, a un livello tale che gli permise di poggiare le zampe sul
fondo marino, tenendo per metà il corpo fuori dalla
superficie. Emerse, e senza avere il tempo di riprendere fiato e
scrollarsi l’acqua di dosso, il suo senso della
“vista” dovette arroccarsi contro una nuova
aggressione, dettata dalla luce solare che lo circondò in un
istante.
Era
intensa oltre ogni misura, e gli bucava le pallide retine finora
abituate solo all’oscurità, come frecce
arroventate. Usò le zampe anteriori per coprirsi, grugnendo
e rantolando. Poi ci fu dell’altro, una seconda sensazione,
come di qualcosa di velenoso nell’aria, che gli divorava la
pelle.
Non
era doloroso, come l’azione di un acido, ma piuttosto come
nuotare nella sabbia arroventata, e sentire le proprie cellule
epiteliali morte desquamarsi dal corpo. Una sensazione più
sgradevole che altro, che però gli fece domandare quanto a
lungo potesse resistervi prima che fosse tardi.
Ora
gli occhi erano diventati un poco più condiscendenti verso i
raggi del sole, e osò scoprirli per esaminare il territorio,
sebbene avesse già la nostalgia delle sue grotte.
Davanti
a sé: una distesa uni-cromatica di azzurro, con una sola
divisione tra il sopra e il sotto, lungo la linea
dell’orizzonte, che divideva il cielo dall’oceano.
La volta sovrastante era sgombra da qualsiasi cosa, salvo piccoli
ammassamenti bianchi (nuvole), che la sua memoria (memorie?)
percepì come familiari, e allo stesso tempo sconosciuti.
Si
voltò verso sinistra e per qualche grado non scorse alcuna
differenza, salvo le onde che il suo lento oscillare sollevava
sull’acqua. Quindi ecco una novità, e fu qualcosa
che la sua coscienza non seppe come approcciare in un primo momento:
Terra. Una distesa sconfinata di verde, con diverse
irregolarità da una parte (montagne) e grandi pianure che si
estendevano più lontano di quanto il suo campo visivo gli
permettesse di vedere, intervallate da colline e rilievi di ogni sorta.
Riconobbe
in quelle punte qualcosa delle caverne nelle quali voleva tornare
– le stalattiti che gli avevano inebriato l’olfatto
– e decise che ne aveva abbastanza di quel sole tanto
impetuoso e di quell’aria così caustica.
Stava
quasi per tuffarsi di nuovo, convinto che nessuno questa volta glielo
avrebbe impedito, quando la Voce del Capobranco, stentorea e severa,
tornò a ripetergli che il suo cammino non si poteva
arrestare.
“Non
mi piace tutto questo, voglio tornare da dove sono venuto! Qui non mi
sento al sicuro!” Si
lamentò di rimando, e ancora una volta, rimpianse di non
poter esprimere a suoni queste parole, che pure sentiva così
nitidamente dentro la sua testa. Dalle sue fauci emersero solo
gracchianti singhiozzi.
“Non
c’è niente di cui avere paura”,
fu la contro-risposta della Voce del Capobranco,
“anzi”
gli disse, era il mondo che ora aveva qualcosa da cui nascondersi; lui
era la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle
terre, era il Signore di quel lontano pianeta!
Non
capì quell’affermazione, neanche ripensando alle
sue proporzioni rispetto all’ambiente circostante. Credette
semplicemente di non essere riuscito a interpretare le sue parole.
Ora
però, questo gli disse di continuare a girare; gli
rammentò che c’era ancora qualcosa
che
non aveva visto, alla sua sinistra, e per capire cosa,
doveva
completare quel cerchio.
Come
un servo ubbidiente, ormai completamente assoggettato alla Voce del
Capobranco, seguì le istruzioni, e stavolta vide
ciò a cui essa si stava riferendo: un’isola
circondata dall’acqua.
Le
sue geometrie e la sua composizione erano diverse da quello che aveva
osservato fino a un istante prima, come facessero parte di un piano
materiale a sé stante, cadute in quel mondo da una
discrepanza dimensionale, come era successo a lui: punte longilinee
grigie e levigate, come stalagmiti scolpite da una mano demiurgica,
atta a generare strutture regolari nello spazio (grattacieli), si
estendevano sulla superficie emersa occupandone ogni ombra di terreno.
Una sottile strada, come un prolungamento orizzontale sopra il mare,
collegava l’isola grigia al resto della terra verde alla sua
destra (un ponte).
Da
essa, i suoi sensi captarono suoni mai uditi e sgradevoli odori di
composizioni acre e pungenti, che gli fecero arricciare il muso.
“Vai”,
gli
disse la voce, anche se lui avrebbe preferito non farlo. “Vai
da loro, e scoprirai il perché della tua ragione su questo
mondo. Vai da loro e conquistali!”
Ma
chi erano questi “loro” a cui la voce del
capobranco si riferiva, e perché li doveva conquistare? A
queste domande non ottenne risposta.
*(Questa
parte di capitolo è stata scritta sulle note di questa
colonna sonora: https://www.youtube.com/watch?v=nOvZD7lp4SM.
Ascoltatela mentre leggete per godere al massimo
dell’esperienza di coinvolgimento)*
Marciò
a passo lento verso l’isola grigia. Le sue zampe che
perforavano l’acqua, generavano onde anomale che si
rovesciavano lunga la costa, affondando piccole cose e strutture
edificate. Vide ora alcuni di questi “loro”
nominati dal suo padrone. Erano creature minuscole, che spaziavano in
un’ampia scala di colori sgargianti e variopinti. La loro
reazione al suo arrivo, come aveva predetto la voce, fu di un terrore
animalesco, una paura viscerale che s’inerpicò su
per le loro schiene e destituì la loro capacità
di ragionare.
Non
comprese perché quelle creature si comportassero
così, fino a quando non emerse dai flutti, e non si accorse
di averne calpestate alcune per sbaglio.
Ascoltare
quei piccoli corpicini scoppiettare sotto la pianta della zampa, fu per
lui come risvegliare una parte assopita della sua
personalità, che aveva oziato fino a quel momento:
l’istinto della caccia verso un animale da preda, ed era lui
quel predatore. Un superpredatore mandato in quel mondo per cancellare
ogni cosa, e nessuno avrebbe potuto fare nulla per impedirgli di
procedere. Lui era il più potente di quel mondo, ed era il
più grande di tutti. Lui era…
“…
la creatura più temibile che avesse mai solcato quelle
terre”.
Piegò
la testa da un lato, guardando la facciata di una di quelle grandi
strutture grigie dai riflessi lucidi. Al suo interno altre di quelle
piccole creature si accalcavano lungo i bordi d’insolite
barriere trasparenti, studiandolo a loro volta con movimenti
guardinghi. Erano animaletti curiosi, pensò, insignificanti
e apparentemente inadatti al dominio, eppure erano stati capaci di
conquistare parte del cielo con quei loro alveari (o erano nidi?)
dall’architettura sublime.
Alcune
delle costruzioni erano alte e terminavano con punte o insolite figure
sui tetti, che sembravano davvero voler toccare il firmamento, e
più si addentrava nell’isola grigia, maggiori
erano le stazze che potevano raggiungere quei rifugi stretti e dai
colori freddi.
Non
sarebbe mai riuscito ad arrivare fino alla cima di alcuni di essi, per
scoprire quali altri segreti si nascondessero al di sopra, ma poteva
guardare in basso e contemplare il fiume di creaturine che scemavano
per strada o si chiudevano ai lati pur continuando a fissarlo.
Era
forse questo il suo scopo? Si chiese allora. Mondare la Terra dalla
loro presenza, per fare spazio a una razza più meritevole di
esistere?
Compì
qualche passo e alcune cose esplosero (vetri, idranti, alcuni mezzi a
traino), e fu di un sadico divertimento vedere come le scosse facevano
incespicare e addirittura cadere alcuni degli esserini.
Grugnì
con un verso roboante, e di risposta alcuni di loro gridarono,
più frenetici di quanto già non lo fossero. Ogni
suo movimento all’interno dell’isola grigia era
accompagnato da reazioni simili a quelle appena descritte.
Un
fischio acuto e dalla lunga gittata sfrecciò
nell’aria (un allarme cittadino), e si disperse nello spazio
aprendosi da più punti, rendendogli impossibile individuarne
l’origine. Si davano il turno toni acuti e toni
più bassi, e questo gli restituì parte
dell’inquietudine che credeva di essersi lasciato alle
spalle. Non gli piacque per niente, era un’invasione al suo
senso dell’ “udito”.
Si
agitò, come se qualcosa lo stesse aggredendo nelle
cavità auricolari. Una zampa fuori controllo incise uno dei
nidi degli animaletti colorati, aprendovi tre squarci profondi lungo la
facciata perpendicolare. Lui fissò a lungo il segno degli
artigli lasciatovi sopra, e rimase stranito nel constatare quanto
fossero fragili e delicate quelle strutture: avrebbe potuto buttarle
giù in pochi colpi, se soltanto l’avesse
voluto…
Invece
avanzò lungo il sentiero, scegliendo d’ignorare
quell’idea. Qualcosa si smosse dentro di lui.
Si
accorse solo adesso che alcune delle creaturine avevano delle
protuberanze sulla fronte, lì dove ad altre mancavano invece
del tutto. E alcune erano munite persino di gracili alette, con le
quali schizzavano via prima che lui le raggiungesse. Le altre
purtroppo, che non avevano modo di fuggire, finirono sotto le sue zampe.
In
tutto questo tumulto la Voce del Capobranco era rimasta silenziosa e
assente.
La
strada si faceva più stretta man mano che avanzava, come se
l’isola grigia avesse deciso di stringersi tutto intorno,
intrappolandolo in una morsa fatale. Ruggì, capendo che la
situazione si era ribaltata a suo sfavore.
Provò
a retrocedere, ottenendo come risultato d’ingamberarsi su se
stesso, affondando la sua zampa dentro un grande agglomerato di
costruzioni triangolari (un complesso industriale).
Estraendola
dalle macerie – ignorando quanta desolazione avesse provocato
quella semplice azione – capì che il solo modo per
uscirne era di farsi strada con la forza attraverso i nidi, proseguendo
lungo la via.
Passo
dopo passo, calpestando l’esistenza di quelle piccole
creature, cancellando la loro storia in maniera arbitraria e insolente,
ora che la marcia si era fatta difficoltosa e si sentiva mancare il
fiato mentre cercava di attraversare l’isola, gli era tornato
tutto il disagio della sua coscienza repressa… di “tutte”
le
sue coscienze represse, che bussavano da dietro la calotta cranica e lo
supplicavano di ragionare. Aveva ricominciato a sentire le voci del suo
risveglio, che gridavano e piangevano, soffrendo per il male cui le
stava costringendo ad assistere.
A
esse si aggiunsero il fischio onnipresente dell’isola grigia,
come un pianto echeggiante, e le grida di dolore dei suoi variopinti
abitanti.
L’istinto
dell’animale da preda allentò la sua morsa, e gli
tornò il desiderio di ridiscendere nelle sue grotte.
Completò
altri due passi, attraversando l’intrico di alte costruzioni
e raggiungendo una zona dove lo spazio si era fatto più
ampio, e dove finalmente poteva farsi un’idea di quanto gli
mancasse prima di uscire.
Si
appoggiò a una struttura, senza immaginare che questo gesto
sgraziato avrebbe fatto crollare i soffitti interni dei vari piani che
lo componevano, uccidendo sul posto alcuni degli ignari occupanti.
Esserini
volanti, con strane pelli blu e motivi a saetta tracciati sui loro
petti (Wonderbolts) piroettavano sotto le sue spalle, mentre altri, non
meno agguerriti ma privi di ali (e corazzati), lo pizzicavano con
insoliti attacchi a distanza, provenienti dai loro corni.
Sollevò una zampa e la ribassò con un urto
violento, schiacciandone alcuni e sbalzandone via altri. Fu sorpreso da
quell’approccio offensivo, non si sarebbe mai detto che gli
animaletti dell’isola grigia fossero capaci di reazioni di
difesa, oltre che scappare.
Imparò
una dura lezione sulle regole di quel mondo: che forse non era poi
così invincibile come la Voce del Capobranco gli aveva
spacciato. Se pochi di quegli animaletti sgargianti potevano pungerlo e
costringerlo a rallentare, un gruppo meglio in arnese (magari come
quelli che aveva visto fluire per strada) avrebbe potuto e negargli
ogni via di fuga, e a quel punto sarebbe potuto succedere di tutto.
Ciò
gli diede ancora più urgenza di allontanarsi
dall’isola.
Gli
animali volanti che aveva intravisto in precedenza, gli ruotarono
dietro e quindi lo colpirono con attacchi fisici provenienti dai loro
stessi, incalliti corpicini.
Non
avrebbe dovuto sentirli, a giudicare dalla robustezza della sua scorza,
ma il veleno invisibile che permeava l’aria aveva
assottigliato i suoi strati cutanei rendendogli ipersensibile
l’epidermide di sotto. Più che dolore in senso
lato, questo si poteva esprimere come un fastidio, una turba al suo
senso del “tatto”.
La
Voce del Capobranco soppresse i lamenti interiori, e tornò a
sedersi sul suo trono imperiale.
“Devi
difenderti!” Scandì
in maniera chiara e sintetica, senza possibilità di
fraintendimento. Il braccio di ferro con la sua coscienza individuale
vide la disfatta di questa. Ruotò bruscamente il tronco, e
le pinne dorsali frustarono l’aria scacciando via le
bestioline alate, per poi scoperchiare il tetto di un nido.
Non
vide il piccolo edificio rosso che aveva sotto di sé (una
tavola calda) e finì con l’inciampare su di esso,
strappando un pannello di legno (l’insegna) dal tetto, che
finì sotto le sue zampe quando lui cadde in avanti.
Si
aggrappò su un altro nido, evitando così di
crollare del tutto.
“Che
cosa sto facendo?” Avrebbe
voluto chiedere mentre si rialzava. “Devo
smettere di fare così, tutto ciò è
sbagliato!”
«Invece
è proprio così che deve andare. È
questo il tuo scopo!»
Gli
rispose qualcuno, che a dispetto delle apparenze, non era il
Capobranco. Era una voce piena e marcata, come di qualcuno che gli
stava sussurrando da dentro l’orecchio, non solo dalle
larvate profondità del suo cervello.
“Cosa?
Io non capisco… ” Latrò
la sua parte cosciente.
«Ti
abbiamo creato noi per questo! Esisti per assolvere al nostro scopo!»
“Uccidere
per voi? Devo fare del male a queste creature solo perché
siete voi a ordinarmelo?”
«Devi
ucciderli, così che noi potremmo prosperare e continuare a
vivere»
la
voce prese del tempo, così che lui potesse meditare su
quelle parole, quindi ripeté «è
questo il tuo scopo!»
Un
ricordo dal passato gli fece sbarrare gli occhi cerei, flash
d’immagini gli suggerirono quale fosse la sua vita
precedente. La loro vita. Sua e di tutte quelle voci che gemevano nella
sua testa.
“No!
Ora ricordo… lo sterminio… quello che ci avete
fatto… volete replicarlo su questo mondo! Volete
costringerci a ripetere per mano nostra quello che è
successo a noi!”
«La
vita che ricordate non significa più nulla ormai.»
La
voce martellò nei suoi timpani, causandogli dolore.
«Siete
parte del nostro esercito ora, e lavorerete per noi e per la
prosperità della nostra razza!»
Serrò
gli occhi e fece come per strapparsi di dosso qualcosa dalla faccia.
“Scordatevelo,
non esiste, non lo faremo più!”
“Staremo
a vedere.” La
voce tacque, come se avessero interrotto un qualche collegamento a
distanza.
Rimase
immobile sul posto, circondato dai “palazzi” ( che
ora ricordava come chiamare), fermo e senza muovere un muscolo, col
timore che facendolo avrebbe scaricato una nuova ondata di distruzione
sulla “città”, e su quelle piccole e
innocenti creature.
Poi
qualcos’altro dentro di lui cambiò, come un
pulsante di spegnimento che viene pigiato da un operatore senza volto.
La sua coscienza lo abbandonò di nuovo, e con essa anche i
ricordi delle vite che gli erano state portate via. Restò
dentro di lui solo la paura, quel senso di smarrimento di chi si era
appena risvegliato in una terra aliena.
Si
guardò intorno, non capendo dove si trovasse. Le cose che lo
circondavano apparivano come monumenti monolitici che serravano i
ranghi con l’intento di inghiottirlo. Oltretutto,
c’erano rumori che lo assordavano, e cose cattive che
convergevano da tutte le direzioni per fargli del male.
L’aria poi era tossica e asfissiante, lo bruciava da dentro e
da fuori.
Tutto
ciò fu troppo per lui, creatura triste e abbandonata che si
sentiva come se qualcuno l’avesse appena privata dei suoi
ricordi più preziosi.
Scattò
con una corsa animalesca verso la limpidezza del mare, ignorando le
cose vive o inanimate che buttava giù o che finivano sotto
le sue zampe.
Si
tuffò per nuotare e raggiunse così la riva della
grande distesa terrosa, dove subito, prima che fosse tardi,
iniziò la sua disperata ricerca di un rifugio. Voleva un
luogo oscuro e solitario, dove potesse trascorrere per sempre la sua
misera esistenza da eremita senza memorie.
Poco
prima di svanire dalla vista delle creature natie di quel luogo, gli
sembrò di sentire una voce nella testa, che gli
suggerì qualcosa da fare. Lui la ignorò, troppo
spaventato per fermarsi ad ascoltarla.
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