Black Gloves and Dirty Hands
Black Gloves And Dirty Hands
C’era un breve
angolo di giardino sul retro del casato principale, proprio accanto
alle residenze dei servitori. Un piccolo viale acciottolato,
costeggiato da alberi che in estate mettevano su ricche fronde
verdeggianti, e da cespugli nei quali ci si poteva facilmente
nascondere per gioco.
Non aveva la bellezza del laghetto
davanti all’ingresso principale, non era la prima cosa su cui
occhi esterni si posavano; non sarebbe stato scelto da
personalità importanti in visita come luogo per passeggiare.
Ma non importava sul serio che fosse il miglior punto panoramico, o il più frequentato.
Perché era in quell’esatto punto che Sumeragi Hokuto aspettava il ritorno di suo fratello e di sua nonna.
Le giornate cominciavano a farsi
più calde con l’arrivo della primavera, gli alberi lungo
il vialetto cominciavano ad ornarsi di gemme appena schiusesi: la
bambina era seduta davanti alla porta sul retro, e muoveva avanti e
indietro le gambe lasciate a penzoloni senza null’altro da fare,
ignorando le insistenze dei servitori a rientrare in casa se non voleva
prendersi un raffreddore. Aveva giusto accettato qualcosa da mettere
sulle spalle, ma la sua obbedienza era finita lì.
Non aveva voglia di stare dentro. Voleva essere la prima a sapere del loro arrivo.
La nonna aveva portato Subaru a
Tokyo quella mattina, il motivo preciso Hokuto non lo conosceva. Doveva
essere per via del suo addestramento per diventare Capofamiglia: suo
fratello era bravissimo con l’onmyoudo, e presto sarebbe
diventato il capo di tutti gli onmyouji del Giappone al posto della
nonna. Doveva imparare, le aveva spiegato Subaru, gli occhi verdi
illuminati. Doveva imparare ad essere il Capofamiglia che la nonna
voleva che fosse. Perciò doveva andare via spesso.
Ma a Hokuto certe volte quella storia del Capofamiglia pesava.
Avevano passato un anno lontani per
via dell’educazione speciale che il suo gemello doveva ricevere,
e Subaru gli era mancato in ogni momento, nonostante gli avesse scritto
una lettera ogni giorno -sempre con l’aiuto dei servitori,
perché certe volte era difficile scrivere lettere lunghe; aveva
pianto spesso in quel periodo. Era stato bellissimo potersi
riabbracciare alla fine di quell’anno, tornare a giocare insieme
di nascosto ogni volta che le sedute di meditazione finivano, ogni
volta che la porta della camera della nonna si apriva e gli restituiva
Subaru, ogni volta che il senso di responsabilità di Subaru
cedeva alle sue suppliche e al desiderio di correre un po’
all’aperto. Per questo diventava sempre più difficile
tollerare le ore di addestramento che si facevano sempre più
lunghe ogni giorno.
Hokuto non vedeva l’ora che
Subaru tornasse. Sarebbe stata la prima ad accorgersi di lui, e gli
avrebbe teso un agguato, senza farsi sentire, correndo a buttargli le
braccia al collo con così tanta energia che probabilmente
sarebbero caduti entrambi. Subaru si sarebbe spaventato, Hokuto avrebbe
riso, e suo fratello avrebbe fatto lo stesso subito dopo. Aveva una
gran voglia di stare con lui nel giardino sul retro, lontano dai suoi
compiti da capofamiglia, lontano dalla nonna, lontano da servitori e
dalle sedute di meditazione. E ci sarebbe stato posto solo per loro
due, come quando erano più piccoli e potevano stare insieme
tutto il tempo che volevano.
Si alzò in piedi,
impaziente, e andò di nuovo a sbirciare, ben nascosta, in
direzione dell’entrata principale. Niente.
Sbuffò, annoiata, tornando a
sedersi, la testa appoggiata pesantemente sulle mani. Il cielo era
color arancio per il tramonto.
Fu allora che sentì un improvviso trambusto arrivare nella sua direzione.
Hokuto alzò la testa,
sorpresa. Non succedeva spesso di sentire tanto rumore in quella zona.
Quando succedeva, di solito si trattava dei servitori con qualche
mansione urgente da svolgere.
Stavolta non erano servitori, però.
A bocca aperta, riconobbe sua nonna e suo fratello nelle figure che si affrettavano nella sua direzione.
La bambina scattò in piedi.
Non aveva mai visto la nonna
correre. Lei le passò davanti, i capelli scarmigliati che
sfuggivano alla sua acconciatura elegante e sobria. Sembrò non
accorgersi della sua presenza, gli occhi puntati sull’entrata del
retro. Sembrava una donna inseguita da un lupo.
Fermamente, convulsamente,
stringeva tra le sue mani quelle sovrapposte del bambino che arrancava
dietro di lei incespicando in un abito da cerimonia immacolato, e nello
stringergliele gliene copriva il dorso.
Subaru sembrava non riuscire a
tenere il passo, non riuscire a capire. Aveva il viso pallido, gli
occhi sgranati e confusi, le labbra serrate. Guardava fisso la nonna, e
non le chiedeva nulla. Solo, la seguiva.
A vedere quella scena Hokuto si sentì male, senza sapere perché.
“Nonnina!” Chiamò. “Subaru!”
La nonna non si voltò, tirando ancora le mani del bambino. Suo fratello lo fece, però.
I suoi occhi si posarono su di lei,
disperati, ma non ebbe il tempo di dirle nulla. In un attimo sparirono
all’interno della residenza.
Lei rimase sola.
Si accorse di colpo di avere freddo.
Entrò in casa anche lei, togliendosi in fretta le scarpe all’ingresso. Poi cominciò a correre.
Dove potevano mai essere finiti?
Nel corridoio non c’era più nessuno. Eppure erano entrati
poco prima di lei … si guardò intorno freneticamente.
Finché non si accorse di un piccolo bagliore proveniente da una porta chiusa alla sua destra.
Sussultando, Hokuto corse in quella
direzione, e aprì la porta quel tanto che bastava per sbirciare
al suo interno senza farsi vedere.
La luce stava calando per via del
tramonto, e la stanza era in penombra: nessuno aveva pensato di
accendere le lampade. La nonna era seduta sul tatami di fronte a
Subaru, le mani su quelle di Subaru, e recitava una formula a bassa
voce, gli occhi chiusi.
Subaru era immobile, e continuava a
guardarla, apparentemente incurante dei piccoli lampi luminosi che
circondavano le sue mani. Suo fratello sembrava più spaventato
da sua nonna.
Hokuto sentì una strana
sensazione, come quella che si prova quando si è sul punto di
vomitare. Voleva fare qualcosa –c’era qualcosa di sbagliato
in quella scena. Ma non sapeva cosa avrebbe potuto fare. Non sapeva a
cosa stesse assistendo. Così rimase pietrificata ad osservare,
senza riuscire nemmeno ad aprir bocca.
I lampi cessarono. La nonna
sospirò, come se si fosse tolta un peso, e sollevò le sue
mani grandi da quelle piccine di Subaru. Poi lo guardò dritto in
faccia, e il suo sguardo fu raggelante.
“Non toglierli mai. Riesci a capire, Subaru?”
Subaru si guardò le mani, sollevandole un po’. Solo allora Hokuto se ne accorse.
Le mani di suo fratello erano coperte da piccoli guanti neri.
“Nessuno dovrà vederti le mani, mai più. Nemmeno tua sorella. Promettimelo.”
Hokuto vide suo fratello
sussultare, vide i suoi occhi posarsi su sua nonna, pieni di colpevole
smarrimento, pieni di supplica senza voce.
Ma il viso della nonna rimase severo. “Promettimelo!” Ripeté, con tanta forza da non ammettere proteste.
E Subaru abbassò il capo, lasciando che i capelli gli finissero sul viso.
“… Lo prometto …”
La nonna si alzò in piedi,
gli lanciò un ultimo sguardo, sembrò volergli dire
qualcosa. Non disse nulla. Si allontanò a grandi passi, e
aprì la porta per uscire.
Fu lì che trovò
Hokuto, impietrita, spaventata dalla serietà
dell’espressione della nonna, dal ricordo della sua voce che
monocorde recitava una formula che lei non aveva mai sentito, dal
bagliore terribile di quei lampi che avevano circondato Subaru.
Nonna e nipote si fissarono per tanto tempo. Hokuto si chiese se la nonna l’avrebbe sgridata, se avrebbe punito anche lei.
Ma non fece nulla. Si voltò
e andò via, a passi così leggeri da sembrare un fantasma.
Sparì in breve tempo.
Per qualche secondo la bambina
rimase ferma al centro del corridoio, il cuore che le batteva troppo
forte, a fissare il corridoio di nuovo deserto. Poi si ricordò
di Subaru.
Si riscosse, e si precipitò all’interno della stanza, quasi totalmente buia ora.
Suo fratello era rimasto immobile,
le mani tese di fronte a sé, la testa bassa. Sembrò non
accorgersi di lei quando si chinò accanto a lui, quando si
sedette, quando gli sfiorò la guancia.
“Subaru? Ma che
succede?” Gli chiese con veemenza, arrabbiata perché non
capiva. “Che cosa è successo con la nonna?”
Ma Subaru non le diede una
risposta. All’improvviso le sue spalle avevano preso a sussultare
leggermente, scosse da singhiozzi silenziosi. La mano che lei gli aveva
posato sulla guancia era bagnata di lacrimoni bollenti.
Hokuto si fermò. “Subaru?”
Subaru alzò la testa, e sembrò così addolorato che Hokuto quasi smise di respirare.
“M-mi fa male”, balbettò.
“Che cosa?”
“L-la testa. Mi fa …
tanto male”, singhiozzò, portandosi le mani guantate sulle
tempie e continuando a piangere. “Anche le mani. Fanno
male-”
Non riuscì a dire più nulla, sopraffatto dai suoi singhiozzi. Hokuto lo fissò, terrorizzata.
Non sapeva cosa fare.
Ma prima che potesse muoversi in
qualche modo, una servitrice con l’espressione preoccupata
accorse in stanza. Si chinò, estrasse un fazzoletto bianco di
seta, lo passò sulle guance inondate di lacrime di Subaru.
“Signorino Subaru, venga con
me. Ha bisogno di riposo.” Gli disse a bassa voce. E poi gli mise
una mano sulla schiena, accompagnandolo nelle sue stanze. Subaru
non fece storie, il passo un po’ traballante. Non si voltò
nemmeno più.
Hokuto rimase al centro della stanza vuota, con una gran voglia di piangere.
Lei voleva solo giocare con Subaru.
Cenò da sola, quella sera.
“Signorina Hokuto,
vedrà che domattina a suo fratello sarà passata la
febbre”, cercò di consolarla Nanase, la sua governante. A
Hokuto Nanase piaceva molto. “Non si preoccupi così
tanto.”
“Ma è mio fratello. Se
sta male devo andare da lui”, si intestardì lei,
punzecchiando la sua cena con le bacchette.
“Sta dormendo. Domani potrà stare con lui quanto vuole.”
Hokuto mise il broncio.
“E la nonna perché non viene a cena?” Domandò.
“Il Capofamiglia non ha appetito questa sera, e non desidera essere disturbato.”
Perciò non poteva chiederle niente di quello che era successo a Tokyo, come aveva voluto fare per tutta la sera.
Hokuto non riusciva a capire.
Subaru era sempre stato un bambino ubbidiente, ansioso di imparare,
sempre grato a sua nonna per quello che faceva per lui. Non aveva mai
fatto i capricci, né si sarebbe mai sognato di dare fastidio.
Sembrava più grande dei suoi nove anni … o comunque, dava
molti meno problemi di lei.
Che cosa poteva aver mai fatto per far arrabbiare tanto la nonna?
Sentiva che doveva essere successa una cosa davvero brutta, ma il fatto che nessuno gliela spiegasse la riempiva di rabbia.
Avrebbe voluto essere andata anche lei a Tokyo.
Non solo perché era curiosa,
dal momento che Tokyo non l’aveva mai vista –e si diceva
che fosse grande, gigantesca, niente a che vedere con Kyoto-, ma
perché così avrebbe saputo.
Avrebbe potuto aiutare Subaru e la nonna a fare pace, se avevano litigato.
Avrebbe potuto …
Hokuto inghiottì a stento il boccone. Aveva lo stomaco chiuso.
Avrebbe potuto asciugare quel fiume di lacrime sulle guance di Subaru.
Non lo aveva mai visto piangere così, mai. Non voleva vederlo così mai più.
Le era sembrato fragile, così fragile, come lo stelo di un fiore delicato.
Le era sembrato lontano mille miglia da lei. Come se da Tokyo non fosse tornato mai.
Il giorno dopo si svegliò di buon’ora, e in dieci minuti era già alla porta della stanza di Subaru.
“Subaru? Ti senti meglio oggi?” Fece vivacemente, e senza aspettare risposta aprì la porta.
Grande fu il suo stupore nel vedere il futon vuoto, le finestre spalancate,il sole che entrava a fiotti nella stanza vuota.
Le governanti, affaccendate nel
loro compito di tenere ordinata e pulita la stanza del futuro
Capofamiglia, si voltarono al suo arrivo.
“Signorina Hokuto”, le dissero. “Il signorino Subaru è impegnato con la meditazione stamattina.”
“Meditazione?” Ripeté la bambina con gli occhi spalancati. “Ma aveva la febbre ieri!”
Non si fermò a sentire la
replica delle governanti: corse via, diretta alle stanze di
meditazione, ben decisa a parlare con suo fratello.
Subaru era lì, infatti, inginocchiato sul tatami, gli occhi chiusi, il viso pallido ma concentrato, le mani giunte.
E portava ancora i guanti.
“Subaru!” Esclamò a voce alta, e incurante della meditazione gli buttò le braccia al collo.
Si aspettava che lui si sarebbe
spaventato, si aspettava che l’avrebbe rimproverata per aver
interrotto la sua meditazione.
Non si aspettava quel sussulto.
Subaru aprì di scatto gli
occhi, e si scansò in fretta. Sotto gli occhi stupefatti di lei,
il suo viso si riempì di paura e vergogna.
“Hokuto-chan!”
Non capendo la sua reazione, e
sentendosi un po’ offesa, Hokuto incrociò le braccia.
“Perché fai così? Sono tua sorella!”
“Scusami.” Subaru le
sorrise, ma non era il suo solito sorriso: sembrava distratto. Hokuto
lo vide nascondersi in fretta le mani tra le pieghe del suo abito da
cerimonia. “Non ti ho sentita.”
“Ma perché sei
già qui a lavorare come un adulto?” Hokuto gli mise una
mano sulla fronte, cercando di sentire se scottava. La sua pelle era
fredda. “E se ti viene di nuovo la febbre come ieri? Mi sono
preoccupata!”
“Mi dispiace.” Subaru si scostò dalla sua mano, e abbassò il capo.
Sembrava non volerla guardare. Hokuto se ne sentì ferita.
“Senti, quando finisci qui?
E’ tanto che non giochiamo insieme!” Insistette con forza.
“Fuori c’è il sole, e non passa nessuno nel nostro
giardino. Usciamo!”
Subaru fece una smorfia triste. “Oggi non posso, Hokuto-chan. Devo meditare.”
“E dopo?”
“Dopo ho gli esercizi di onmyoudo …”
“E dopo ancora?”
“Dopo devo studiare sui libri …”
Spazientita, Hokuto sbuffò
sonoramente. “Ma oggi sei sempre impegnato! Almeno un pochino
dovresti riposarti!” Esclamò. “Guarda, lo dico io
alla nonnina che almeno lo studio oggi non lo fai …”
Ma quando nominò la nonna, le spalle di Subaru si curvarono in avanti, come se lui volesse chiudersi in un bozzolo.
Hokuto tacque. L’espressione
di Subaru sembrava quella che gli aveva visto la sera prima, piena di
un dolore di cui non parlava. Non capì.
“Per piacere,
Hokuto-chan”, le disse a bassa voce. “Non dire niente a
– alla nonna. Sono i miei compiti, questi.” Poi
sollevò la testa, e un sorriso piccolissimo comparve sulle sue
labbra. A Hokuto quel sorriso non piacque. “La prossima volta giocheremo insieme, tutto il tempo che vogliamo. Te lo prometto.”
Lei poté solo sbuffare di nuovo, e rassegnarsi. “E’ una promessa, eh!” Gli ricordò.
Così lo lasciò
meditare, e non andò più a cercarlo, quel giorno.
Giocò da sola, cercando di divertirsi lo stesso, ma continuando
a pensare a Subaru che non le raccontava perché era triste.
Gliel’avrebbe detto
però, si ripeteva incessantemente. Perché Subaru le
diceva tutto. L’indomani le avrebbe raccontato tutto.
Ma l’indomani non cambiò nulla. E nemmeno il giorno dopo ancora.
Subaru andava e veniva, una Cosa da
Capofamiglia dopo l’altra, e Hokuto aveva appena il tempo di
vederlo in mezzo al corridoio che subito spariva da qualche
parte, un pallido sorriso di scusa e ancora quei guanti neri alle mani.
Non si riposava un attimo. Non si fermava un attimo a parlare con lei.
Non le spiegava nemmeno perché faceva incubi, da un paio di notti.
Lo sentiva urlare, così
correva da lui, e lo stringeva forte, al buio, mentre il suo corpo
tremava, e le sue labbra dicevano cose che nessuno dei due comprendeva
sul serio.
“I ciliegi …”
Balbettava. Ma poi non sapeva rispondere a nessuna delle richieste di
spiegazione spaventate della sorella.
Dalla nonna continuava a prendere
lezioni, però, come faceva prima di Tokyo. Hokuto si convinse
che avesse fatto pace con la nonna, e almeno questo la confortò.
Li spiò di nascosto, per vedere se stessero andando
d’accordo.
Ma si accorse presto che si era sbagliata. Non avevano affatto fatto pace.
Subaru teneva gli occhi piantati a
terra, non sorrideva mai, e al contrario di come faceva con Hokuto
teneva sempre le mani coperte di nero davanti agli occhi del
Capofamiglia, come se gliele volesse mostrare a tutti i costi. La nonna
invece era più rigida e distante che mai, e si limitava a
impartirgli insegnamenti come un qualsiasi maestro avrebbe fatto. Non
si parlavano mai. Non si abbracciavano mai.
Hokuto cominciò a cercare di
parlare con la nonna, allora. La aspettava fuori dalla sua stanza,
cercava di iniziare un discorso a tavola, sperava che lei li avrebbe
invitati a bere il tè insieme, come spesso facevano, loro due e
Subaru. Ma fu tutto inutile. La nonna sembrava totalmente assorbita
dalle Cose da Capofamiglia Più Complicate; a tavola c’era
anche Subaru, e perciò stavano tutt’e tre in silenzio a
testa bassa senza dirsi nemmeno una parola; il tè insieme non lo
bevevano più da tanto tempo.
Nessuno sembrava curarsi di Hokuto,
che vagava per la residenza principale alla ricerca di una risposta
alle sue domande, e di una cosa qualsiasi che potesse fare per la sua
famiglia. La casa sembrava essere diventata fredda e desolata, e la
bambina non riusciva a sopportarlo.
Si accorse dello spesso kekkai
che aveva circondato la residenza poco tempo dopo l’inizio di
quel gelo inspiegabile: lo scarso potere da onmyouji che aveva
ereditato era sufficiente perché lo notasse. C’era sempre
stato un kekkai attorno alla residenza dei Sumeragi, ma mai così forte.
Era come se mostri e nemici si
fossero messi sulla porta ad aspettare che qualcuno di loro mettesse un
piede fuori: mostri che persino la nonna aveva visto e riconosciuto, e
di cui persino la nonna aveva paura.
Brividi si formavano sulle braccia della bambina, e nessuno era lì a farglieli passare.
Un giorno Hokuto non ne poté più.
“Hokuto-chan?” Confuso
di fronte alla porta ostruita dalla presenza determinata di sua
sorella, Subaru spostò il peso da una gamba all’altra. Era
in ritardo, e lo sapeva. Lo sapevano entrambi. Ma lei non si spostava
da lì.
“Siamo gemelli.” Disse
Hokuto fermamente, guardandolo dritto negli occhi. “I gemelli
esistono per consolarsi l’un l’altro. Non devi piangere da
solo, devi venire da me! Quante volte devo dirtelo?”
Subaru sgranò gli occhi, sorpreso. “Perché vuoi consolarmi? Io sto bene!”
Però le sue mani guantate corsero di nuovo a nascondersi, un movimento automatico.
Hokuto le afferrò prima che scomparissero tra le pieghe di quell’ampio abito bianco, e le strinse forte.
Subaru sussultò, la sua
espressione si fece piena di orrore. Tentò di liberarsi dalla
sua presa, ma Hokuto non glielo permise.
“Sono giorni che porti questi
guanti. Perché? Da quando te li metti non sei più lo
stesso Subaru.” Continuò. “Perché non puoi
toglierli? Perché non chiedi alla nonna di toglierli, visto che
si vede che non ti piacciono?”
“Ti prego, Hokuto-chan.
Lasciami andare.” Subaru, angosciato, guardava ansiosamente le
sue mani rosee posate su quelle nere di lui, e cercava sempre
più fermamente di tirarsi indietro.
“Io voglio aiutarti!”
Esclamò Hokuto con passione. “Ma se tu non mi dici che
c’è non posso farlo! Fammi vedere cosa c’è
sulle tue mani-”
“Non farlo!”
Quel grido terrorizzato la
fermò di colpo mentre cercava di tirare l’estremità
di un guanto verso l’alto, così da toglierlo: subito
Subaru ritrasse le mani, stringendosele al petto.
Hokuto, sconvolta, guardò suo fratello, tremante e silenzioso di fronte a lei.
Impigliate nelle ciglia di Subaru, delle lacrime appena spuntate luccicavano.
“Io sono un bambino cattivo.” Sussurrò, la voce così spezzata che Hokuto lo sentì a stento.
E questo davvero non aveva il
minimo senso. “Ma se sei il bambino più buono del
mondo!” Ribatté con forza.
Subaru scosse energicamente la
testa, i capelli neri che ondeggiavano da una parte e dall’altra.
“Non è vero. Io sono un bambino cattivo.” Le lacrime
piovvero sulle sue guance come gocce di rugiada. “Ho fatto
arrabbiare la nonna … e lei mi ha punito.”
“Ma che è successo?
E’ stato a Tokyo?” Hokuto si avvicinò, gli
scostò la frangia dagli occhi per guardarlo in faccia.
“Perché non me ne parli?”
Subaru singhiozzava liberamente
ora, piangeva tutte le lacrime che non aveva pianto per giorni.
“A Tokyo … Ho sb-sbagliato. La nonna mi aveva detto di
… di non allontanarmi. E io mi sono allontanato.”
Hokuto sgranò gli occhi. Subaru non aveva mai disubbidito agli ordini di nessuno. “Perché?”
“N-non ricordo!” Subaru
la guardò, desolato. “Non ricordo niente, anche se mi
sforzo – Ho sbagliato, Hokuto-chan. E la nonna è
arrabbiata, l’ho fatta stare male … E non ho nemmeno
capito p-perché! La nonna non … non me lo ha
spiegato.” Singhiozzò più forte, tirando su col
naso. “Forse devo capirlo da solo … e se non lo capisco
è perché sono un bambino cattivo … Con le mani
nere. E saranno s-sempre nere, sempre sporche … Sempre diverse
dalle vostre … Non mi toglierò mai più questi
guanti!”
Hokuto pensò all’improvviso che quelle lacrime avrebbero annegato Subaru.
Il suo cuore le faceva malissimo nel petto, era un male insopportabile.
Non era giusto che Subaru soffrisse
così, avrebbe dovuto essere felice. Come era stato felice prima
di partire per Tokyo giorni prima.
I suoi occhi brillavano prima di partire …
Lo abbracciò dolcemente,
lasciando che le bagnasse di lacrime il vestito. Gli accarezzò i
capelli come faceva Nanase quando lei si sentiva triste, cercando di
essere adulta, di essere forte per lui.
“Ssh. Non piangere, Subaru.” Sussurrò.
E nel silenzio della stanza si riempì le orecchie dei singhiozzi sommessi e disperati del suo gemello spezzato in due.
Hokuto era furibonda.
Ce l’aveva con sua nonna,
come mai era successo prima d’ora. Le voleva un sacco di bene, ma
davvero, questa volta aveva esagerato. Non importava che Subaru avesse
disobbedito: non era poi così grave da farlo stare così
male, da punirlo in quel modo assurdo.
Ce l’aveva con lei
perché gli aveva tolto ore di gioco e spensieratezza, e per
cosa? Per farlo sentire cattivo e colpevole, e per farlo piangere. Se
proprio doveva sceglierlo come futuro Capofamiglia, non poteva farlo in
modo che ne fosse felice?
Gliene avrebbe dette quattro, non le importava niente. Sarebbe andata da lei e si sarebbe fatta sentire.
Così irruppe senza pensarci
su nella stanza di sua nonna, e la trovò in compagnia di un suo
sottoposto dai capelli neri, occhiali e abiti formali. Sia lui che la
nonna la fissarono sorpresi.
Hokuto aveva il viso corrucciato quando si rivolse a lei.
“Perché sei così cattiva con Subaru?”
Questo sembrò colpire la nonna. La vide rivolgersi al suo attendente. “Ci lasci”, ordinò.
Lui annuì, e con un inchino rispettoso si congedò, chiudendo la porta senza rumore.
La nonna sembrava stanca, quando le rivolse attenzione. “Siediti, Hokuto.”
Hokuto non si mosse. “Fagli togliere quei guanti.” Insistette.
“Non posso.” Fu la replica.
“Perché? Quanto dura
questa punizione?” La bambina avanzò verso la nonna, la
rabbia che cresceva ancora. “Subaru sta male!”
“Hokuto. Non parlarmi come se io non sapessi quello che faccio.”
La nonna la rimproverò a
bassa voce, ma il suo viso fu così severo che Hokuto dovette
costringersi a tacere, mordendosi la lingua tra i denti. Era meglio non
esagerare quando la nonna faceva quella faccia.
“E ora, per piacere,
siediti.” Continuò il Capofamiglia, traendo un gran
sospiro. “Cercherò di spiegarti come posso.”
Hokuto si sedette, gli occhi fissi sul viso di lei. Aspettò.
“Io non lo sto
punendo.” Disse infine, dopo una breve pausa. “Quei guanti
gli sono diventati necessari, deve per forza indossarli.”
“Perché?” Volle sapere Hokuto.
Il viso di sua nonna si indurì. “Di questo non devi occuparti.”
Hokuto abbassò il capo,
scontenta. Non era per niente giusto. Che cos’erano tutti quei
segreti? Subaru era suo fratello!
“Sono certa che Subaru
capisca: non se ne lamenta, e li indossa come dovrebbe. Se tuo fratello
capisce, puoi farlo anche tu. Devi fidarti di me.”
“Subaru piange.” Mormorò Hokuto.
La nonna si zittì.
Incoraggiata da quel silenzio, Hokuto sollevò di scatto la testa, battagliera.
“Subaru piange tanto, pensa
che tu lo odi!” Esclamò. “Non vuoi dirgli qualcosa?
Non vuoi consolarlo?”
Qualcosa cambiò sul viso
della nonna, e all’improvviso a Hokuto sembrò diversa.
Così diversa che non sembrava neanche sua nonna.
Vide le tante rughe sulle sue
guance e vicino ai suoi occhi, e le sembrò vecchia. Vecchia e
debole. La bambina ne rimase sconvolta.
Era triste anche lei, come Hokuto. Come Subaru. Stava soffrendo.
Vedere quella faccia le fece male,
tanto che si avvicinò a lei e le prese quelle mani gracili per
consolarla, per fare pace.
“Secondo me se vai da lui e
gli parli si aggiusta tutto.” Le disse. “Lui ti vuole tanto
bene, nonnina. Come tu ne vuoi a lui.”
La nonna non disse niente.
Forse non poteva
dirle niente, come non poteva dire niente a Subaru: perché loro
erano i bambini, e lei era l’adulta. Gli adulti tengono per
sé le preoccupazioni più grandi.
La nonna stava cercando di proteggerli. Perché lei si era sempre presa cura dei gemelli, sempre.
Le sorrise, e andò a darle
un bacio leggero sulla guancia grinzosa, prima che lei le ricordasse
l’etichetta e le buone maniere.
“So che farai la cosa giusta, lo fai sempre. Sei la mia super-nonnina!”.
E poi andò via, lasciando la nonna a guardare la sua schiena allontanarsi.
Fece un pensiero, mentre rovistava
per gioco tra vecchi scatoloni inutilizzati nello scantinato, in mezzo
a polvere e oggetti di chissà quanto tempo prima, chissà
appartenenti a chi.
Pensò all’improvviso
che non era vero che non c’era posto per lei, anche se non aveva
abbastanza potere, anche se non sarebbe diventata capofamiglia. Anche
se non capiva cosa stava succedendo a Subaru e alla nonna. Anche se non
ci capiva nulla di quei guanti neri, e non aveva il potere di
toglierglieli.
C’era una cosa che solo lei poteva fare, e ora lo sapeva.
La sua famiglia ora assomigliava un
po’ a quegli oggetti rovinati e sporchi: lei non sapeva
riattaccare i pezzi mancanti, ma poteva lucidarli, così che
brillassero di nuovo. Poteva farli brillare ancora più di prima.
Poteva farlo lei, questo. Perché senza un aiuto, gli oggetti diventano sempre più grigi, e vengono dimenticati.
La nonna forse ne aveva bisogno
meno di tutti: lei era forte, indipendente, e si prendeva cura di tutto
il casato. Però anche lei era impolverata adesso: non sapeva
dimostrare a Subaru che gli voleva bene, come tutte le nonne ne
vogliono ai loro nipoti. Magari solo su quella parte doveva lavorare un
po’, ecco, perché non la si capiva per niente qualche
volta, e sembrava che lei ce l’avesse con lui.
Subaru , invece …
Subaru era sensibile, riservato, un
po’ triste per motivi strani, a volte, che lei nemmeno capiva.
Subaru non voleva parlarle della sua tristezza perché non voleva
farla preoccupare per lui. Subaru pensava di non aver bisogno di
niente, e si stupiva quando qualcuno pensava a lui.
Subaru si teneva le cose dentro, e
preferiva perdere un colore dopo l’altro, un pezzo dopo
l’altro. Finché non ne avrebbe avuti più.
Ma Hokuto era la sua gemella, e
questo non si poteva cambiare. Se Subaru piangeva, lei doveva essere il
suo sorriso. Se Subaru era fragile, lei doveva essere la sua forza. Se
Subaru si sentiva solo, lei doveva essere la sua migliore amica, e la
sua compagna per tutta la vita.
Questo voleva dire essere gemelli: erano un uno diviso in due. Lo aveva sempre saputo.
Forse poteva essere questo il suo potere magico?
Lavorare per tutta la vita per far brillare la sua famiglia?
Far brillare Subaru?
Quell’idea le piaceva, dopotutto.
“Il soldato Sumeragi Hokuto
inizia il suo mandato!” Disse ad alta voce, portandosi una mano
alla fronte come un militare. Poi annuì tra sé, e
ricominciò a cercare qualcosa di interessante in mezzo a quella
roba.
E fu allora che lo trovò.
Era in fondo ad uno scatolone,
così vecchio da essere scolorito, ma Hokuto quasi si
buttò al suo interno, cercando di afferrarlo con le sue braccine
corte. Alla fine, scarmigliata e piena di polvere, riemerse raggiante
con il suo trofeo.
Eccolo lì, il suo lucido.
Corse via, chiamando a voce alta il nome di Nanase.
“Hokuto-chan, ma dove mi porti?”
Subaru glielo chiedeva da due
minuti ormai, ma Hokuto non aveva intenzione di rovinare
l’effetto sorpresa: continuò a tirarlo dolcemente ma
fermamente per la mano, non permettendogli di ritrarla. Rise. “Se
ti sbrighi lo scoprirai!”
Nella fretta urtarono una domestica
che passava di lì. Nel sorpassarla, sentirono le sue urla
scioccate rimbombare per tutto il corridoio. “Signorini, non
correte così! Vi fate male!”
“Non stiamo correndo!” Fu la risposta sfacciata di Hokuto.
Subaru arrossì, voltandosi mortificato verso la domestica. “Ci scusi tanto …!”
Ma Hokuto non aveva tempo per questo. E neanche Subaru. Lo tirò con più decisione.
“Insomma! Ti fidi di me o no?” Lo rimproverò.
Subaru la guardò, titubante. “Certo che mi fido di te, Hokuto-chan. Ma cosa-”
“E allora non serve
altro!” Lo guardò malissimo, gli occhi ridotti a fessure,
a pochi centimetri dal suo viso. “Muo-vi-ti!”
Subaru capì che era inutile
cercare di ottenere altre informazioni: sospirò, e finalmente
prese a correre anche lui come la sorella.
Quando avrebbe visto la sua
sorpresa si sarebbe pentito di aver esitato tanto, si diceva Hokuto
elettrizzata. Lo sapeva che gli sarebbe piaciuta, doveva piacergli. Aveva preparato tutto alla perfezione. Non vedeva l’ora di scoprire la reazione del suo gemello.
Entrarono nella camera di Hokuto:
lei fermò Subaru al centro della stanza, stringendogli ancora un
po’ le mani e sorridendogli sicura. Subaru fissò a lungo
le loro mani intrecciate, rosa su nero, senza dire nulla, poi la
guardò. Aspettava.
Si fidava sul serio di lei, capì la bambina, e sentì un gran calore, dentro di sé.
“Volevo provare una cosa, e
mi servivi come modello”, gli spiegò, il tono di una
maestrina, godendosi la curiosità dell’altro. “Resta
fermo lì.”
“Cosa volevi pro- Oh!”
Si zittì, sorpreso, quando
Hokuto andò ad afferrare il cappello nero con falda larga e
fascia rossa che aveva poggiato sul letto e glielo posò sul
capo. Le mani guantate corsero a toccare la falda con dita esitanti, e
il suo viso si imporporò di imbarazzo a sentire lo sguardo della
sorella su di sé. “Ma che fai?”
“Lo sapevo! Ti sta
benissimo!” Saltellò Hokuto, felicissima. “Sei
ancora più carino del solito! Lo avevo detto a Nanase, di
prenderne uno così! Sai”, aggiunse, tornandogli vicino.
“Ieri ne ho visto uno uguale nello scantinato, ma era vecchio e
impolverato. Non potevo darti quello, era brutto da vedere. Così
ho chiesto a Nanase di comprarne uno nuovo. Ed ecco qui.”
Lo fissò, piena di aspettativa. Subaru sembrava solo confuso.
“Dai, vieni a guardarti. Ti
troverai bellissimo anche tu!” Lo trascinò verso lo
specchio, senza che suo fratello opponesse resistenza. Lasciò
che si guardasse per bene.
Hokuto si mise accanto a lui e
fissò il riflesso di Subaru mentre si guardava con occhi
esitanti. Riuscì a immaginare tutto quello che stava pensando.
Forse che il cappello gli stava un
po’ grande, nonostante cercasse di farlo aderire bene sulla testa
con le mani; forse che non ne aveva mai portati così. Forse si
sentì a disagio, perché arrossì di nuovo.
Guardò il riflesso di sua
sorella, poi di nuovo il suo, poi si toccò di nuovo la falda.
Forse voleva sapere per quanto tempo avrebbe dovuto tenerlo.
“Non capisco”, si scusò.
Hokuto sbuffò per scherzo, fingendosi esasperata. “Il cappello si abbina coi guanti, no? Guarda!”
Subaru si fermò di colpo, i guanti ancora sul cappello. Sgranò gli occhi, e spalancò la bocca.
Se ne accorse, allora.
Si accorse di come stavano bene
quei guanti in pelle con quel cappello nero: sembrava fatto
perfettamente apposta. Non c’era niente di cattivo in quel nero,
niente di sbagliato.
Subaru era bello, persino alla moda.
Hokuto sorrise largamente,
prendendolo di nuovo per le mani e facendolo voltare verso di lei.
“Che te ne pare? Non hai una sorella furbissima?” Gli
chiese vivacemente. “Puoi indossare il cappello quando esci,
così nessuno ti troverà strano. Anzi, ti invidieranno
tutti, perché avrai gli accessori più belli del mondo! E
sarai il Capofamiglia più adorabile di tutti i Capofamiglia
Sumeragi! Hai mai visto qualcuno speciale come te? Sarai unico!”
E poi lo fissò, fiera di sé, aspettandosi un commento.
Ciò che ricevette, invece, fu un abbraccio fortissimo.
Subaru la stringeva come si stringe
la cosa più cara che si ha. Cercava di portarla più
vicina possibile al suo cuore.
“Scusami”, sentì la sua voce soffocata contro la sua spalla. “Scusami, scusami, Hokuto-chan!”
Cosa c’era nella sua voce? Gioia, sollievo, colpa, vergogna, dispiacere? Sembrava tutto mescolato insieme.
Hokuto rise teneramente. “Sciocchino. Hai di nuovo sbagliato quello che dovevi dire, vero? Non è scusa.”
Si staccò da lui, quel tanto che bastava perché potessero
guardarsi, occhi verdi in occhi verdi. Gli sorrise, incoraggiante.
“E’ grazie, Subaru.”
Subaru sorrise. Fu il sorriso più bello del mondo, il più felice del mondo. I suoi occhi brillavano. A Hokuto quel sorriso piacque.
“Grazie, Hokuto-chan.”
Lei gli posò un bacio sul
viso, appena sotto l’occhio destro, sotto la falda accogliente di
quel cappello un po’ grande.
“Lo sai? Quei guanti mi piacciono, in fondo. Forse chiedo a Nanase di comprarne un paio pure per me!”
Subaru non aveva più paura
di stringere la sua mano, ormai, mentre uscivano da quella camera. Il
suo viso era di nuovo roseo.
La guardò con tanto d’occhi. “Ti piacciono davvero?”
“Certo! Possiamo portarli
insieme, così siamo abbinati. Saremo belli in due!” Hokuto
rise, immaginando gli sguardi ammirati di tutti alla vista
dell’eleganza dei gemelli Sumeragi. “Di’, ti
va?”
“Va bene. Se ti piacciono va bene”, rispose Subaru, e le fece un piccolo sorriso.
Poi si fermò di colpo, e si fece tutto rigido.
“Che c’è?” Hokuto, sorpresa, seguì la direzione del suo sguardo.
E poi sussultò. “Nonnina!”
La nonna era di fronte a loro, e li guardava, dritta e immobile.
Era venuta a cercare Subaru. Forse era lì a guardarli da tanto tempo.
Hokuto sorrise, al settimo cielo. Poi lasciò la mano di Subaru, e gli diede una spintarella.
“Dai, Subaru. Di’ alla nonna quello che volevi dirle”, gli sussurrò.
Subaru era terrorizzato, si vedeva.
Non osava guardare la nonna negli occhi. Ma strinse i pugni, e rimase
fermo, perché preferiva avere paura piuttosto che sapere che la
nonna era in collera con lui.
Si inchinò profondamente, la testa bassa. La nonna lo fissava in silenzio.
“Ti chiedo scusa,
nonna”, disse. “Per averti disubbidito, per averti fatto
arrabbiare. Ti prometto che non succederà più.”
E nell’attesa Hokuto lo sentì trattenere il fiato.
Subaru non poteva vedere il viso
della nonna, ma Hokuto sì. Vide la sua espressione distendersi.
Non sembrava più triste come l’ultima volta.
“Ti credo, Subaru.” Gli disse.
Subaru alzò timidamente lo
sguardo. La nonna si avvicinò, lo fissò ancora, per un
lunghissimo momento. Poi gli mise una mano sulla spalla, e gliela
strinse. Gli sorrise.
Subaru, incredulo, confuso, non poté che sorridere a sua volta, con tutto il cuore.
Avevano fatto pace.
“Però non indossare quel cappello con l’abito da cerimonia”, soggiunse poi la nonna, con un sospiro.
Subaru arrossì come un peperone. “Non lo farò!” Promise.
“Ma dai, nonnina, non ti
piace?” Si lamentò invece Hokuto, gonfiando le guance e
tirandola un po’ per la mano. “Non lo trovi
bellissimo?”
“Non è il suo aspetto
fisico che metto in dubbio. Ma quell’abito è formale, il
cappello assolutamente no. Non vi ho insegnato niente sul
protocollo?”
“A me non piace il
protocollo. Daaai, almeno fuori può portarlo? Può? Guarda
come sta bene! Ti prego, ti prego, ti prego …”
“… Non nelle occasioni importanti però.”
“Evvai!”
Hokuto rise, guardando ora
l’espressione rassegnata della nonna, ora quella incerta di
Subaru, che osservava entrambe come chiedendosi se non stessero
litigando. La bambina li prese entrambi per mano, raggiante, e
annunciò loro che avrebbero passeggiato insieme nel giardino
segreto sul retro del casato, nel posto speciale di Hokuto.
Non le importava più dei mostri nascosti là fuori, affamati e diabolici.
Non potevano far nulla, finché quelle dita restavano intrecciate.
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Lo sapevo che prima o poi avrei
finito per scrivere qualcosa su Hokuto, era matematicamente certo: un
posto d'onore se lo merita, questo adorabile guardiano della famiglia
Sumeragi. E poi il rapporto fraterno con Subaru è una cosa di
cui mi sono innamorata fin dalla prima lettura del manga.
Per chi avesse trovato strano l'entusiasmo di Subaru nel ricevere
lezioni come Capofamiglia... sì, lo so, non è quello che
vuole fare davvero, ma penso che per allora non se lo fosse proprio
posto, il problema, complice anche la giovane età. Lui doveva
diventare Capofamiglia, punto: perché la nonna così
voleva. E per il piccolo Subaru era molto più importante avere
la stima e l'affetto dei suoi cari, che mettersi a pensare a quanto i
panni di Capofamiglia gli stessero stretti. Più tardi
avrà tutto il tempo per desiderare di fare lo zoo-keeper...
Cioè, 'tutto il tempo' si fa per dire, purtroppo. Maledette
CLAMP...
Padme Undomiel
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