«Hey bambolina!» la voce giunse disturbata agli altoparlanti, ma tutti i tecnici tirarono un sospiro di sollievo e Malyke non potè che fare altrettanto senza neanche preoccuparsi di nascondere il sorriso che le increspò le labbra. Tutti la guardavano, imbarazzati. Era stata lei in fondo a essere nominata, nessuno di loro poteva rispondere per lei e poi comunque era lei il capo, no?
«Cerca di non farti ammazzare Capitano» ordinò sorridendo, parlando al microfono della Sala di Controllo.
«Non ci penso neanche Bambolina! Passo e chiudo!» Malyke vide distintamente due ingegneri scambiarsi del denaro. Scommesse. Su tutto ciò su cui dovevano scommetere proprio su quello dovevano giocare? Malyke scosse le spalle e sorrise. Per ora c'erano. Poi si sarebbe visto.
Prologo
MALYKE
L'oscurità era quasi una benedizione. Luce significava lui, luce significava tortura. Non fisica, certo, una società così (sotto)sviluppata non si sarebbe mai sporcata le mani con tortura fisica. Mentale. Vedere quell'uomo, fantasma di ciò che forse un tempo era stato sfilarsi le mille maschere che indossava come Luogotente e Mano del Presidente, crudele carenefice di migliaia di bambini innocenti, era una tortura mentale che mai avrebbe pensato di subire. Vedere quell'essere sfigurato e dimentico di qualsiasi umanità improvvisamente perdersi nel vuoto dietro ricordi di un tempo passo e lasciato a marcire nei più oscuri recessi della sua mente, era una tortura tale che a volte Malyke pregava che l'oscurità l'avvolgesse e non la lasciasse più andare. Aveva sempre temuto la gabbia, rimanere lì, seduta su quel letto improvvisato in una stazione spaziale a centinaia di anni luce da dove era nata, sennon migliaia; senza neanche avere la forza di provare a scappare da quella prigione. Dov'era finita la ragazzina che correva per i vicoli dei Bassi Fondi della Capitale di Luna il satellite più piccolo di un pianeta mediocre che ruotava intorno a una Stella per nulla speciale, senza temere nulla? Era cresciuta. Ed era stata imprigionata. Ecco cosa le era successo. E ora sperava solo che la luce se ne andasse presto, che il prima possibile quel mostro che le sedeva davanti con quell'espressione vacua si svegliasse dal suo torpore e alzandosi di scatto se ne andasse senza una parola. Lo faceva sempre . Era quasi ironico come avrebbe preferito che lui parlasse piuttosto che stare lì seduto, muto come senza parola perso dietro chissà quali pensieri.
Stava seduto di fronte a lei, le mani poggiate sui braccioli della sedia bianca sul quale sedeva ogni volta. I suoi occhiali da pilota, che portava sempre indosso erano poggiati sulle sue gambe, e i suoi occhi ciechi guardavano fissi nel vuoto. Rimaneva immobile come in contemplazione. O in meditazione. Sapeva, da quel poco della storia che aveva imparato dalla Maestra del Basso Fondo, che era stato allenato per un periodo dall'Ordine, e che, nonostante potesse impugnare un'arma di Stella fusa, non aveva mai completato il proprio addestramento. Il Pugnale di Stella Fusa anche, giaceva sulle sue gambe quasi dimenticato, sempre all'interno della sua guaina. Eventualmente le sue dita si stringevano così tanto al bracciolo da diventare bianche, quando un ricordo probabilmente si faceva troppo pesante per lui. Era strano come era arrivata a provare pietà per il proprio carnefice. Ma era un uomo distrutto, spezzato. Sul suo polso sinistro una piccola cicatrice carminia. Aveva sentito dire che lui stesso se la infliggeva per impedire al nome di sparire. Coloro che avevano le capacità di appartenere all'Ordine avevano sul proprio polso sinistro scritto il nome della loro anima gemella, della persona che avrebbero protetto anche a costo della propria vita. Quell'unica persona che sarebbe sempre venuta prima anche dell'Ordine e della sua Sacra Missione. Quando quella persona moriva il nome diventava una cicatrice e col tempo svaniva. Ma quella era carminia. L'uomo continuava a infliggersela per non dimenticare la donna che aveva amato e che aveva fallito di proteggere. Non era mai riuscita a leggere il nome completo. Ogni volta che i suoi occhi si soffermavano sulle prime lettere “So” l'uomo, quasi rendendosi conto di ciò che accadeva si alzava di scatto e nascondeva il polso alla vista. Nessuno sapeva chi lei fosse, ma sapeva che era la sua maledizione e la sua benedizione insieme.
«Le somigli così tanto» ripeteva spesso con voce rauca e stanca, fermandosi a fissare i suoi capelli castani con occhi ciechi alla realtà, ma come se la vedesse. Subiva quella tortura tutti i giorni perchè assomigliava alla donna che lui aveva perduto, ma era ancora viva per la stessa ragione, quindi, chiunque questa “So” fosse le era grata e ingrata allo stesso tempo, poteva stare più attenta e non farsi uccidere! Forse quest'uomo sarebbe stato felice e lei non imprigionata! Ma non sapeva niente di lei e forse sarebbe dovuta rimanere in silenzio, sperando di non scoprire mai quale atroce destino aveva impedito a un uomo così potente come Lui di non riuscire a proteggere la donna che amava.
Fu riscossa di colpo quando lui si alzò di scatto e uscì senza dire una parola mentre la sua sedia bianca veniva risucchiata dal vortice e la cella tornava nell'oscurità; fu allora che, scattata in piedi com'era anche lei un laccio dei suoi anfibi si incastrò nel vortice, impedendo che si chiudesse del tutto. Una piccola luce si intravedeva da quel piccolo esagono che restava aperto, bloccato dal laccio della sua scarpa e mentalmente lei esultò. Non aveva mai davvero pensato a come fuggire dalle celle della Stazione Spaziale, sapeva che era quasi impossibile, ma forse la fortuna era dalla sua parte. Estraendo delle pinzette dalla propria coda spettinata riuscì ad estrarre il laccio senza far chiudere l'esagono, poi inginocchiatasi per terra infilò due dita dentro l'esagono e cominciò a tirare sperando di dargli il comando di aprirsi. La tecnologia era così, vero bisognava dargli il comando, ma se si iniziava la trazione dell'oggetto che si doveva muovere quello avrebbe continuato lo scorrimento per inerzia. Finalmente il vortice si riaprì, inonandano la camera di luce bianca e lei sorrise orgogliosa di sé. Per poi con un salto entrare nel vortice, e scendere come lungo uno scivolo. Attorno a lei pareti illuminate da led bianchi e un tunnel che sembrava non finire mai.