suono delle cicale
Ciao a tutti. Benvenuti :-) Vi presento questa nuova
one-shot molto breve, scritta dal POV di Bulma. Inizialmente doveva
essere una
flashfic ma non sono riuscita a stare nelle 500 parole. Spero che vi
piaccia e
di essere riuscita a trasmettervi un sentimento. Mi farebbe piacere
ricevere un
vostro feedback.
Premetto che questo non è il mio genere e non penso di
esserci molto tagliata. Io preferisco l’angst ma avevo
bisogno di “ripulirmi”
dalla mia ultima fiction scrivendo qualcosa di più leggero.
Anche per
esercitarmi un po’. Buona lettura.
PS: La fiction è situata all'inizio della loro convivenza
alla Capsule Corporation, quindi proprio agli albori della loro storia.
Adonide
[ I
can see the light
But
in the darkness
I'll
follow you ]
Nero
– Into The Past
Il
suono delle cicale tesse l’aria in un canto malinconico.
Le lanterne disseminate nel giardino brillano di fuoco, agitate dal
vento
fresco della sera. Nella penombra tutto sembra congelato, immobilizzato
nel
tempo. Il profumo dell’estate che finisce, le prime foglie
accartocciate allontanate
in un fruscio impercettibile.
Cammino a piedi nudi, lieve fra la coltre di smeraldo. Mi
avvicino a una candela e con un soffio la estinguo, grata per il bacio
dell’oscurità
sempre più densa. Arrivo in fondo, nella parte del giardino
più lontana dalla
casa, più osservata dalle stelle e noto una sdraio, la mia
sdraio, voltata
verso il cielo immenso. I miei passi accelerano, mia madre deve averla
dimenticata nel pomeriggio. Ma non è vuota.
I suoi lineamenti sono scavati dal crepuscolo, profondi come
strade, più dolci di quanto li ricordassi. Non avevo mai
notato quanto i tratti
di Vegeta fossero delicati, incisi nella sabbia. La sua
alterità sgorga dagli
occhi, pietre affilate e impietose, pronti a secernere veleno come le
fauci di
un serpente. Ora quelle braci nere sono celate, dimenticate
nell’abisso. Sdraiato
su un fianco e completamente addormentato, non sembra diverso da un
uomo normale
plasmato dalle sue debolezze.
Noto la camicia azzurra che gli ho comprato giorni fa, tesa
sui muscoli del petto, i bottoni danzanti in un equilibrio precario.
Noto i pantaloni
stretti, gli osservo i piedi, le vene in evidenza, immagino le miglia
che ha
percorso. Probabilmente io in tutta la vita non camminerò la
metà di quanto ha
camminato lui, non potrò osservare quanto ha osservato lui,
carpire la vastità
dell’universo che lo ha toccato.
A volte dimentico che Vegeta non è Goku, non è un
terrestre.
Questo cielo non è suo, quest’aria non gli
appartiene, questa terra non ha
impastato il suo sangue. E il cielo che gli apparteneva,
l’aria che gli
apparteneva, la terra che ha partorito le sue vene non esistono
più, dilaniate
nella luce spietata. Gli sfioro un tallone, gelido, ruvidissimo. Vado a
prendere una coperta e quando ritorno vicino a lui le mani mi tremano.
Immagino
di abbracciare il suo corpo con quel tessuto, vorrei proteggerlo da
quelle
stelle morte, dai suoi ricordi, da quel cielo autoritario che sussurra
terre
infrante, bruciate nella devastazione. Ma rimango immobile, Vegeta non
vuole
essere accudito da me. Immagino la vergogna e l’umiliazione
infiammargli la faccia.
Appoggio la coperta al fondo della sdraio. Se ne avrà
bisogno potrà coprirsi da
solo, come ha sempre fatto.
Improvvisamente mi rendo conto delle sue pupille fredde,
attente nell’esplorare i miei movimenti.
Non riesco a dire nulla, colta di sorpresa. Vegeta mi guarda
circospetto, mentre la diffidenza gli sporca il volto, stringendogli le
labbra.
Il suo silenzio mi sfonda i timpani, improvvisamente non
sento più le cicale, il fruscio delle foglie. Sono sorda al
resto del mondo,
esistono solo i centimetri che ci separano, solidificati dalla
tensione.
«Cosa stavi cercando?» sussurro in un misto di
timidezza e
audacia.
«Cercavo di dimenticare la noia di questo pianeta e la
feccia che ci abita.» sibila e la sua bocca si stringe in un
ghigno ma i suoi
occhi non lo seguono. Le sue iridi si riempiono di una cupa
inquietudine
macchiandosi di luce. La smorfia di scherno sul suo volto svanisce in
fretta,
come disciolta, lasciando il posto a un’espressione confusa e
disorientata. Prendo
anche io una sdraio e una coperta e mi sistemo accanto a lui. In fretta
divengo
una crisalide calda, soltanto il viso sferzato dal vento fresco. Mi
giro nella
sua direzione e lo fisso impudentemente. Il suo sguardo mi invade, mi
viola,
sento la mia anima spogliata, le sue ombre annerire le mie pareti. Per
un
attimo avverto le voci dei miei amici preoccupati, le loro
raccomandazioni, le
loro angosce, le loro fantasie. Non
rimanere mai sola con lui. Non provocarlo. Stai attenta, potrebbe
ucciderti.
Potrebbe ferirti. Le loro voci si allontanano, disperse nella
nebbia.
Io non ho paura di Vegeta, non ho paura degli incubi che
abitano nei suoi occhi. La sua oscurità mi chiude la gola in
un dolore sordo.
Sento la malinconia, fortissima, invadermi, polvere di vetro insinuarsi
nelle
vene e frantumarmi dall’interno. Non riesco più a
controllare le lacrime,
singhiozzo così forte che il mio corpo si scuote, le lacrime
mi scivolano nelle
orecchie, sul collo, le respiro, le divoro.
«E ora cosa c’è? Ti ho
offesa?» sbotta, girandosi supino.
Vegeta è un adonide, un fiore di sangue. La porpora dei suoi
petali mi
annienta, incoerente con la sua bellezza fine, stentorea. Spore di
veleno si insinuano nelle mie narici sbranandomi i polmoni.
«Questa è la tristezza che io vedo in
te.»
La lama delle mie parole lacera l’aria. Dalle sue labbra
sgorgano risate sguaiate. Ride ancora, il petto che si alza e abbassa
velocemente in respiri spezzati. Ma il suo corpo lo tradisce, paralizzato,
le
mani strette spasmodicamente al bordo della sdraio.
Ancora una volta le sue iridi non ridono.
«Io non so che cosa sia la tristezza.» ribatte
mentre le
labbra gli tremano facendo vacillare l’alterità
dei suoi lineamenti. Mi fissa,
serio. Ed io comprendo che la dolcezza di prima, quella dolcezza che mi
sembrava
di scorgere in lui era solo un’illusione, uno sciocco
fraintendimento.
È la tristezza il segreto celato nel suo volto. Nei suoi
occhi
fioriscono preghiere mute, rovi di malinconia, fantasmi di morte dai
pepli di
porpora, abissi di tenebra che implodono inesorabili, spettri di
ricordi
scorticati, sfibrati da una vita spietata.
Ed io posso vederli.
*
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