Come sei veramente
Leave out all the rest
Capitolo 3 - A love that will never grow old
Aprile
1973
Man mano che la primavera avanzava e l'aria si faceva sempre più
calda, quella di trascorrere le serate sotto al portico
diventò
una consuetudine, alla quale talvolta si univano anche gli Hamilton.
Aprile trascorse sereno, con la pancia di Cassie che si ingrossava, la
gravidanza che progrediva senza problemi: malgrado le proteste di Jack ed Ennis, lei
continuò ad occuparsi delle faccende domestiche come al
solito, spiegando che almeno si passava il tempo. Fosse stata costretta a starsene ferma, avrebbe dato di matto.
Jack parlò ad Ennis della proposta che aveva intenzione di
fare
a Cassie, ed Ennis questa volta si dichiarò d'accordo. "A dire il vero,
era
già da un pò che pensavo la stessa cosa",
confessò.
Quando glielo domandarono, Cassie rimase dapprima stupita, poi
accettò, commossa, con le lacrime agli occhi. A Jack parve di
essere
tornato indietro nel tempo, quando Matt, ormai guarito, aveva chiesto a
lui ed Ennis di restare ad aiutarli con il ranch: era stato
infinitamente grato per quel gesto agli Hamilton, che in fondo avrebbero
potuto chiederlo soltanto ad Ennis.
Non avevano più incontrato George Thompson, e Jack non aveva
più pensato a lui, se non una volta, all'emporio degli
Higgins.
Si era fermato a fare benzina prima di recarsi a Casper da un cliente, e
quando era andato a pagare il pieno, Linda Higgins gli aveva rivelato che lui e Thompson avevano
combinato un bel casino. Qualcuno doveva avere sentito il loro
diverbio, con il risultato che tutta Casper ora spettegolava di come Cassie
Cartwright fosse incinta di George Thompson, e la di lui moglie lo
fosse venuta a sapere e l'avesse cacciato da casa, chiedendogli il divorzio, più
un
bel gruzzoletto come risarcimento, in quanto era stata lei a sborsare i
soldi necessari a comprare i locali del Wolf's Ear, quattordici anni prima.
"Accidenti, mi dispiace", aveva replicato Jack, dispiaciuto più
che altro per la famiglia di Thompson, non certo per lui, ricordando
come quella
volta si fosse rallegrato del parcheggio deserto. Linda Higgins era una
brava donna, per carità, di quelle matrone basse e larghe e
accoglienti, che sembrano fatte apposta per fare la mamma o la baby
sitter, ma gestiva una pompa di benzina con annesso emporio, insieme
con il marito Ed, alto e secco come un paletto, e purtroppo aveva la
lingua più veloce di tutto il paese, quando si trattava di
spettegolare. Non che Jack potesse scommetterci le mani, ma
immaginò che Linda avesse visto la scena, avesse ascoltato la
discussione, e poi si fosse data da fare a suo modo.
Bè, pazienza. Se aveva sentito tutto, aveva sentito anche di
lui
ed Ennis. Non che facesse molta differenza: Jack era convinto che Linda
ed Ed appartenessero alla schiera di quelli che sapevano, e
spettegolavano dietro le loro spalle, sicuro come la primavera viene in
marzo, ma non avevano né tempo né voglia di infastidirli.
L'unica cosa che guastò la loro serenità fu l'improvvisa
morte di Kes: l'ultima domenica del mese, come faceva di solito, Ennis uscì di
casa verso le cinque e mezzo di mattina per recarsi nelle stalle
prima di tutti, e la trovò sdraiata e inerte davanti al portone
di casa, il corpo rigido e freddo, la bava alla bocca, il bel pelo blu
già diventato opaco e stopposo.
Ennis tornò dentro a chiamare Jack, che quando vide il suo cane
privo di vita scoppiò a piangere, seguito poco
dopo da Cassie, che era stata svegliata dalla confusione ed era scesa
per controllare cosa fosse successo.
Solitamente, Kes in inverno dormiva in casa, spesso sui piedi o vicino
alla schiena di Jack, più raramente sul suo scendiletto, ma in
estate, o comunque quando iniziava a fare più caldo, preferiva
stare fuori, nella sua cuccia, a godersi l'aria aperta. Quella notte
aveva voluto restare all'aperto, ma qualcosa doveva essere andato
storto.
"Era giovane", mormorò Jack, abbattuto, mezz'ora dopo il
ritrovamento, seduto sul divano della cucina. Aveva smesso di piangere,
ma i suoi occhi erano ancora gonfi di lacrime. "Non aveva
neanche due anni, e fino adesso non ha mai avuto problemi di
salute... non capisco come possa essere..." la voce gli si ruppe di
nuovo, e nuove lacrime traboccarono. "Non capisco proprio... non
può nemmeno avere mangiato qualcosa di velenoso... stiamo bene
attenti a non lasciare in giro niente, e lei era brava, non infilava il
muso nei sacchi dei diserbanti... non usiamo nemmeno il veleno per i
topi, ci sono i gatti che ci pensano... non capisco proprio come sia
successo..."
"Coraggio", disse Cassie, seduta vicino a lui, circondandogli le spalle
con un braccio. Anche lei aveva l'aria triste e affranta, gli occhi rossi.
"Sono stupido, lo so", si schernì Jack, sorridendo mestamente,
asciugandosi le lacrime con una mano. "Non si piange per un animale."
"Si piange, eccome", ribatté Ennis, che stava trafficando con il
bollitore e la teiera, dando loro le spalle. Ennis non aveva pianto,
era l'unico ad essere riuscito a mantenere la calma, ma la sua voce, ora, era
malferma. "Era il nostro cane." Si passò l'avambraccio sugli
occhi e, dopo un attimo, si girò verso di loro e li raggiunse,
lasciando le bustine di tè in infusione nell'acqua bollente. I
suoi occhi erano lucidi e arrossati.
"Ennis..." fece Jack.
Ennis s'inginocchiò di fronte a loro, prese una mano di Jack,
una di Cassie. "Ascoltate, dopo l'andiamo a seppellire nel cortile
dietro casa, e ci piantiamo sopra una pianta
di fiori. Siete d'accordo?"
"Sì", disse Cassie. Jack annuì.
"Sapete", iniziò Ennis, "quando ero piccolo, alla fattoria
dei miei arrivò un vecchio gatto randagio, ed io mi ci
affezionai. Lo facevo giocare, gli parlavo, lui mi faceva le
fusa... l'avevo chiamato Tiger, per via del suo pelo." sorrise, al
ricordo della bestiola, e Jack immaginò quanto quell'amico
silenzioso avesse potuto significare per un bambino timido e
schivo come Ennis.
"Un giorno", seguitò Ennis, "tre anni dopo, lo trovammo morto stecchito, proprio come Kes, e
io non riuscivo a smettere di piangere... avrò avuto sette anni,
credo sia successo l'anno prima che morissero i miei genitori. Ma mia
mamma lo sotterrò nel cortile, alla fine prese una pianta
di viole del pensiero selvatiche e la trapiantò sopra alla
tomba, poi mi disse che non dovevo piangere. Perché Tiger in
vita era stato un bravo gatto, un grande amico, e ora il suo corpo
sarebbe stato mangiato dai vermi, che avrebbero fertilizzato la terra e
aiutato la piccola pianta di viole a crescere."
"Un pò macabra, messa così", osservò Jack, con un mezzo sorriso.
"Forse", Ennis si strinse nelle spalle. "Anche a me, sul momento, la
faccenda non piacque molto: io volevo il mio gatto, e basta. Ma a
primavera, la terra dove mia madre aveva seppellito Tiger era tutta
coperta di viole del pensiero."
Quella sera, nessuno si sentì di uscire nel portico come al
solito. Ma la sera successiva, dopo avere cenato, uscirono tutti e tre
insieme e, dopo avere controllato le tre piantine di
non-ti-scordar-di-me sulla tomba di Kes, si sedettero sulle sedie
di vimini a chiacchierare, un pò ricordando Kes, un pò
discutendo sul fatto di tornare al canile e adottare un altro cane.
Ennis avrebbe voluto aspettare almeno un mese prima di prendere un
sostituto, ma Jack era dell'idea di farlo il prima possibile: c'erano
tanti animali che soffrivano, chiusi in gabbia in attesa di una
famiglia che li salvasse dalla prigionia e dalla morte, che non era il
caso di stare ad aspettare di dimenticare Kes.
"Anche perché", aggiunse, "io non potrò mai dimenticarla.
Nessuno potrà sostituire Kes, però avrò
un altro amico, a cui affezionarmi
con la stessa intensità."
Ennis lo guardò. "Hai avuto anche tu degli animali a cui ti eri affezionato, da piccolo, o sbaglio?"
"Chi non ne ha avuti?"
"Hai ragione", convenne Ennis. "Ma c'è chi, quando muore il suo amico, non vuole sentirne parlare di prenderne un altro."
"Gli animali vivono meno di noi", commentò Jack. "Una volta
accettato questo, è tutto più semplice. Non puoi
sostituire il tuo amico, però puoi fartene un altro."
"Già", approvò Ennis. Poi guardò Cassie, seduta
con la schiena all'indietro e le gambe allungate in avanti, una mano
sulla considerevole pancia, l'altra a tormentarsi i riccioli,
pensierosa, lo sguardo alla siepe che divideva il cortile dal frutteto.
"Cassie? Tutto bene?"
"Eh?" lei si riscosse. "Io... sì. Solo, pensavo... ma no, lasciatemi perdere, è una sciocchezza."
"Che cosa?" domandò Jack.
"Io..." lei esitava. "No, non voglio preoccuparvi... è solo una
stupida paturnia da donna incinta. Probabilmente sono solo i miei
ormoni che lavorano troppo."
"Puoi parlarne, se ti va."
Cassie si morse il labbro inferiore. "Ho pensato... e se Kes non fosse morta accidentalmente? Se qualcuno l'avesse uccisa?"
"Cosa?" Jack era incredulo. La sua mente tornò alla zuffa con Thompson, a Thompson che borbottava Me la pagherai, Twist, ma no, non poteva trattarsi di una cosa del genere, non poteva essere stato...
"Stai pensando forse a Thompson?" domandò Ennis, rivolto a Cassie.
Lei annuì. "E' vendicativo fino al midollo. E ce l'ha giurata. Magari le ha... che so, gettato un boccone avvelenato..."
"Credi che sarebbe capace di vendicarsi in questo modo?" chiese di nuovo Ennis. "Ammazzandoci il cane?"
"Non lo so", ammise lei. "A questo mondo, c'è di tutto. Sui
giornali, si legge di mariti che fanno strage di moglie e figli, mamme
che buttano nell'immondizia i bimbi appena nati, ragazzi che
violentano coetanee, infermiere impazzite che ammazzano decine di
pazienti..."
"Quindi", insisté Ennis, "se Thompson avesse voluto
vendicarsi di noi, tu lo vedresti capace di ucciderci il cane."
"Non lo so", ripeté lei. "Non posso esserne sicura, ma ce lo
vedrei. Solo... per come lo conosco io, credo che si sarebbe in qualche
modo firmato, ma senza compromettersi del tutto. Qualcosa che facesse
capire a noi che era stato lui, come, che so, una scritta sulla staccionata...
"Qualcosa come luridi culattoni e troia di una puttana?" suggerì Ennis. "Senza offesa, Cassie."
"Qualcosa del genere, sì", confermò lei. "Noi avremmo capito. Ma senza alcuna firma, per non lasciare prove."
Jack aveva assistito allo scambio fra Ennis e Cassie con le viscere
aggrovigliate. Se solo quella volta non si fosse lasciato prendere
dalla rabbia...
Ma non aveva potuto lasciar correre. Non aveva potuto. Non era corretto
dire che non ci era riuscito, perché non ci aveva nemmeno provato:
il furore l'aveva investito, accecandolo, annebbiandogli la mente, e si
era ritrovato addosso a Thompson sul cemento del parcheggio senza
rendersene conto.
Maledetta impulsività.
Forse, Kes era morta a causa sua.
No. Non è colpa mia. Se è davvero stato Thompson, è tutta colpa sua,
e basta. Lui ha tradito la moglie e i figli e messo incinta Cassie, poi
l'ha mollata e insultata, e infine insultato pure Ennis e me. Io mi
sarò arrabbiato, okay, ma non si poteva pretendere che me ne
restassi calmo.
E se scopro che ha ammazzato il mio cane, quello che gli ho fatto
quella volta sarà come offrirgli il tè con i biscotti, a
confronto di quello che gli farò.
"Scusate, devo andare in bagno", disse Cassie ad un tratto, alzandosi in piedi.
"I soliti problemi
tecnici. Ha iniziato a premere sulla vescica, e..."
"Ne approfitto per venire anch'io", disse Jack. "Intanto mi prendo da bere. Ho bisogno di qualcosa di forte."
"Prendimi una birra, grazie", disse Ennis.
"Con comodo, eh?" l'apostrofò Jack, battendogli una spalla mentre s'incamminava verso la porta.
"Se volete, faccio io", si offrì Cassie.
"Neanche per sogno", disse Jack. "Tu vai in bagno tranquilla, e io
porto da bere. Vuoi una spremuta?"
"Grazie, volentieri", fece lei. "Non ho mai mangiato arance in vita
mia, e guardami adesso, non mangio praticamente altro. Sembro drogata."
Jack
lasciò che Cassie si servisse del bagno al piano di sotto, per evitarle le scale, mentre lui
andò in uno dei due al piano superiore. Si stava lavando le mani,
quando udì due colpi di fucile, ed
immaginò che fossero i contadini dei terreni circostanti che
sparavano alle nuvole, per disgregarle ed evitare possibili tempeste. Non
era inusuale, anche loro spesso lo facevano.
Stranamente, gli spari gli erano sembrati piuttosto vicini, mentre di
solito si udivano in lontananza; ma Jack non diede peso alla questione.
Chi altro poteva sparare, a quell'ora di notte? Un cacciatore che aveva
scambiato le dieci di sera con le dieci del mattino?
Mentre scendeva
le
scale e si dirigeva verso la cucina, s'incrociò con Cassie
che tornava verso la porta sul retro.
"Un cucchiaino di zucchero, come al solito?" domandò lui.
"Sì, grazie mille."
Jack proseguì verso la cucina, ma Cassie si fermò
a guardarlo.
Lui sentì lo sguardo di lei su di sé, e si
voltò: "Hai detto qualcosa?"
"No, pensavo... grazie mille, Jack. Di tutto."
"Figurati."
Lei si avvicinò e lo
guardò, gli occhi scuri lucidi, brillanti. "Non potrò
mai sdebitarmi abbastanza. Ti voglio bene, Jack... non dimenticherò mai
quello che hai fatto per me."
"Così mi metti in imbarazzo", si schermì lui. "Io non ho..."
"Sst", fece lei. Gli
appoggiò una mano sul petto e lo baciò leggermente in un
angolo della bocca. Poi si girò, incamminandosi per il corridoio.
Jack si passò l'indice sulla cicatrice sotto l'occhio, pensieroso. Doveva ammettere che, in quei mesi, fra lui e Cassie si era instaurato un
certo feeling; ma da parte sua, non l'aveva mai considerata più di una cara, carissima amica.
Lei invece... stava forse iniziando a vederlo come un uomo?
Non farti idee strane, Twist. Quello non era un bacio, non ti ha quasi nemmeno sfiorato le
labbra. Non stava cercando di provarci, voleva semplicemente ringraziarti.
Senza contare che Cassie sembrava preferire tutto un altro genere di uomini.
Raggiunse la cucina, e non fece in tempo a prendere fuori il
vassoio e lo spremiagrumi da uno dei pensili superiori, che udì Cassie urlare: "Ennis! Oh mio..."
Poi un'altra voce, questa maschile, ad interrompere il suo grido: "Stai zitta, troia!"
Poi un altro sparo, e Cassie strillò di nuovo, questa volta
di dolore, e a
questo
punto Jack aveva già lasciato perdere il vassoio e si era
precipitato alla porta che dava sul portico sul retro. La porta era
aperta, e la scena che gli si presentò davanti fu quella di
un
incubo:
Ennis era riverso bocconi sul pavimento di cotto, sotto di lui
un lago di sangue che si allargava lentamente, colando verso i gradini. Cassie
era a terra, rannicchiata fra il tavolino di vimini e una delle quattro sedie,
con una mano sulla
pancia, l'altra sopra la testa, come per proteggere il bimbo e
sé stessa. Anche lei sanguinava, il suo vestito era chiazzato sullo stomaco e sul ventre.
E un uomo massiccio e panciuto, di fronte a loro, sul primo dei tre scalini, le
stava puntando contro un fucile da caccia.
George Thompson, con quello che Jack riconobbe come un Winchester 30.30.
Per qualche attimo, rimase
paralizzato a fissare la
scena. Non aveva senso, era folle, surreale, doveva davvero trattarsi
di un incubo. Cosa cavolo stava succedendo? Perché
Thompson, vestito normalmente, con jeans e giubbotto e cappello, stava
minacciando Cassie con una carabina dopo averle sparato un primo colpo,
ed aveva
già
sparato ad Ennis?
I colpi che aveva udito dal bagno. Non erano stati i contadini. Era
stato Thompson, nel cortile di casa sua, sotto al portico. Per questo gli spari gli erano sembrati così vicini.
Che accidenti gli
è preso? Non si è camuffato.
Se uno vuole fare la festa a qualcuno, di solito...
Devo essere scivolato dalle scale, ho
battuto la testa e sono svenuto e sto sognando. Quando mi
risveglierò...
"Jack, scappa!"
urlò Cassie, e questo lo svegliò dal torpore. "Chiama aiuto!"
Thompson puntò di scatto il 30.30 verso Jack, e
premette il grilletto. Jack fece
appena in
tempo ad abbassarsi, riparandosi la testa con le mani, e la pallottola
si piantò nello stipite della porta.
"Maledetto!" gridò Thompson.
"Jack!" strillò Cassie.
Thompson riprese la mira, e Jack rientrò in casa
sbattendo
la porta. Il proiettile si schiantò nel legno,
all'altezza del suo stomaco.
Quello era matto. Era venuto lì, armato, per ammazzare tutti e
tre... dunque sapeva che spesso trascorrevano le sere fuori, li
aveva spiati. E aveva aspettato il momento giusto per attaccare, per
trovarli senza gli Hamilton, e separati...
Era stato lui ad uccidere Kes. Sicuro, che era stato lui. L'aveva
uccisa prima di agire, per evitare che abbaiasse, segnalando la
presenza di un estraneo.
Matto come un cavallo. Più di suo padre, del padre di Ennis
e di quello di Katherine messi insieme.
Jack si rifugiò nel piccolo studio ricavato dallo sgombraroba,
la prima stanza disponibile, senza accendere la luce, e rimase con
la schiena appoggiata alla porta chiusa. Udiva il rumore
dei passi di Thompson in lungo e in largo per il corridoio: stava
esaminando le stanze, le porte chiuse o aperte, giudicando dove avesse
potuto nascondersi Jack.
Cos'hai fatto ad Ennis, maledetto figlio di puttana? E a
Cassie? Oddio...
Non poteva farsi prendere dal panico. Doveva ragionare, restare lucido.
Quanti proiettili aveva sparato Thompson? Due contro di lui... due li aveva uditi dal bagno, probabilmente contro Ennis,
(oddio, Ennis, che cosa ti ha fatto?)
e uno contro Cassie.
Due più due più uno,
cinque. Quanti colpi ha un Winchester 30.30? Sei, sette? Sette, credo.
Sì, ne ha sette. Ne
rimangono due.
Ragiona, ragiona, ragiona. Calmati e ragiona. Non farti prendere dal panico.
Lo
sguardo gli cadde sulla scrivania. Sopra al ripiano di ciliegio, fra una
pila di fatture e il libro dei conti, giaceva abbandonato il
tagliacarte d'argento con
l'impugnatura a testa di cavallo che Ennis gli aveva regalato per il
primo Natale trascorso insieme nel nuovo ranch: la lama luccicava al
chiarore proveniente dalle tendine aperte. Alla destra delle fatture,
il telefono: la salvezza.
Jack abbandonò le ciabatte e, in
punta dei piedi, raggiunse la scrivania e prese il tagliacarte.
Non era un coltello, ma era piuttosto affilato e, se usato
nel modo giusto, avrebbe potuto ferire in
modo grave. Jack non aveva mai pugnalato nessuno, ma si sentiva
più che pronto a pugnalare Thompson, anche fino ad ucciderlo, se
necessario.
Poi prese la cornetta del telefono, l'accostò all'orecchio e
stava per comporre il numero del pronto soccorso, quando un pensiero
(se mi sente parlare al telefono, quello entra e mi spara ed è finita per tutti)
gli attraversò il cervello.
E adesso?
"Twist", disse a un tratto Thompson. A giudicare dai suoi passi, stava
ancora percorrendo lentamente il corridoio che collegava tutte le stanze del
piano di sotto. "So che ci sei. Avanti, vieni
fuori. Se ti lasci ammazzare, sarà tutto più
semplice."
Jack, con la cornetta in una mano e il tagliacarte nell'altra, si udì ansimare. Cercò di
trattenere
il fiato, riagganciando la cornetta il più silenziosamente possibile, e strinse il tagliacarte con entrambe le mani.
"Avanti... non te ne accorgerai nemmeno. Se mi lasci prendere la mira
per bene, ci vorrà solo un colpo. Quello schifoso del tuo
amante, è stato
uno sciocco. Probabilmente è già morto, ma se
fosse stato
fermo, non avrebbe sofferto. Poi è arrivata quella puttana..."
Jack chiuse gli occhi, deglutì. Oddio,
Ennis. Cassie. Ennis... oddio. Oddio. Oddio. Oddio...
"Sai perché sono qui?" disse Thompson. Jack lo sentì
armeggiare con il fucile: lo stava ricaricando. No, cazzo, no.
"Quel giorno,
all'emporio. Qualcuno
deve
averci sentito. E le voci corrono."
Jack, sempre in punta dei piedi, trattenendo il respiro, ritornò
alla porta. Doveva tentare il tutto per tutto, e fare più in
fretta che poteva.
"E mia moglie ha saputo", seguitò Thompson, "E ha chiesto
il divorzio e mi ha cacciato di casa. E ora, io sono rovinato. Il
ristorante lo gestivo io, ma i locali li aveva pagati lei, e ora devo
risarcire il debito, o chiudere baracca.
Così,
ho pensato... prima di andarmene da questa fottuta città,
dovrò pure togliermi la soddisfazione di regolare i conti, o
no?"
I passi di Thompson si avvicinavano.
Continua a parlare. Dai, continua a parlare. Continua a parlare e a camminare, vieni qui, avanti...
"Se vuoi sapere chi vi ha ammazzato il cane, sono stato io",
proseguì Thompson. "Non potevo rischiare che si mettesse ad
abbaiare, rovinando tutta la sorpresa."
Kes. Lo sapevo. Bastardo, me la pagherai anche per questo.
"E' stato facile. Era buona, non ha neanche ringhiato, quando mi ha
visto attraverso la staccionata. Le ho gettato un pezzo di carne in cui
avevo iniettato della stricnina... se l'è mangiato con un gusto
che non ti dico. Non era un granché come cane da guardia."
Doveva trovarsi proprio dietro la
porta, a cinquanta centimetri in linea d'aria da Jack, o anche meno.
Ora o mai più: Jack aprì la porta di pesante mogano
proprio in faccia a Thompson, che picchiò la fronte e
barcollò all'indietro, incespicando e finendo a terra. Il
Winchester gli
sfuggì di mano e cadde, e partì un colpo
che si schiantò contro il soffitto del corridoio. Con un grido,
Jack saltò addosso a Thompson, mollando un fendente che
andò a vuoto,
e
ruzzolarono sul pavimento, lottando furiosamente per il possesso della
carabina, per il possesso del tagliacarte.
Thompson era massiccio, forte e pesante. E sicuramente più
lucido di
Jack,
che non aveva altro in testa che raggiungere Ennis e Cassie e chiamare
aiuto. Jack riuscì a ferirlo all'avambraccio sinistro, ma
a un certo punto si
ritrovò sdraiato sulla schiena, entrambi i polsi bloccati dalle
mani più
grandi di Thompson, che gli stava a cavalcioni sul torace, quasi
impedendogli di respirare con la grossa pancia.
"Molla quel coso, maledetto finocchio succhiacazzi!" gridò Thompson.
Per tutta risposta, Jack gli sputò in faccia, divincolandosi e dibattendosi con tutte le
proprie forze, cercando di tirargli
un calcio o una ginocchiata, qualunque cosa pur di riuscire a togliersi da
lì sotto.
"Mi hai rovinato, Twist", esclamò Thompson, stringendogli
dolorosamente i polsi, inchiodandogli a terra le braccia. "Me la
pagherai."
"Non sono stato io a rovinarti, maledetto", replicò Jack. "La colpa è tua,
che
sei un figlio di puttana che va in giro a tradire la moglie e mettere
incinte le amanti."
"Invece sei stato tu. Tu e quel
merdoso del tuo amante, e quella puttana di una troia."
"Non chiamarli
così!"
Thompson gli sbatté violentemente il polso destro sul pavimento, e
dopo
altri quattro di quei colpi, sottolineati da Thompson che gridava
"Molla! Quel! Coso! Dannazione!", senza volerlo Jack aprì
la
mano. Il tagliacarte finì sul parquet, rimbalzando, e scivolò dall'altra parte del corridoio.
Troppo lontano, irraggiungibile, come il fucile.
Thompson lasciò i polsi di Jack per afferrargli il collo e
stringerlo con forza, pressandolo contro il pavimento, i pollici
sulla carotide.
Voleva strangolarlo.
Jack prese i polsi di Thompson e cercò di tirargli via le
mani, ma era inutile: più Thompson stringeva, più
Jack perdeva lucidità. Non riusciva più
a respirare, sentiva la gola ridotta a una fessura stretta come la cruna di un ago, e la vista gli si stava oscurando.
Com'è la storia? pensò, incongruamente, chiudendo gli occhi. E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago...
Udì un singulto soffocato, strozzato, e capì di essere stato lui stesso ad emetterlo. E'
finita. Ennis, Cassie, mi dispiace... se Ennis fosse stato al mio
posto, non si sarebbe certo fatto buttare giù così.
Poi, udì uno sparo - il 30.30 di Thompson. Thompson
gridò di dolore, si prese la
spalla destra e si girò, lasciando libera la gola e la visuale di Jack, che riaprì gli occhi.
Cassie era dietro di loro, reggeva il fucile con mani tremanti e perdeva
sangue da una ferita proprio sotto
al seno destro.
Cristo, che le hai
fatto, razza di bastardo? A lei, e al piccolo?
"Brutta puttana", gemette Thompson, lasciando Jack e tirandosi in
piedi. Jack ruzzolò a pancia in giù tenendosi la
gola, ansimando convulsamente in cerca di aria. Thompson si gettò verso Cassie, che
sparò
di nuovo, quasi a bruciapelo.
Thompson rovinò a terra, con una mano sul petto.
E anche Cassie lasciò cadere il fucile ai suoi piedi e si
accasciò sul pavimento, con le mani sulla
pancia.
Jack riuscì a mettersi in ginocchio, tossendo, si trascinò
da lei carponi, la scosse delicatamente per una spalla, rantolando: "Cassie... C-Cassie, come..."
"Jack..." lei era in ginocchio, ripiegata su sé stessa, la testa
bassa, la faccia nascosta dai capelli che le spiovevano in
giù, le mani sul ventre. "Jack, c-corri..."
"Cosa..."
"Jack, vai da Ennis", gemette lei, rialzando la testa, gli occhi impauriti, confusi.
"V-vai da Ennis, corri. Io chiamo il pronto soccorso."
"Cassie, ma sei..."
"Mi ha presa solo di striscio. Corri da lui."
"Non ti lascio qui da sola!"
"Corri da Ennis, maledizione!"
"Va bene", Jack si alzò e, su gambe rigide come tronchi, tornò nel portico.
Ennis
non aveva cambiato posizione. Se ne stava sempre riverso sul pavimento,
bocconi, nel suo sangue, che era colato sui gradini, raggiungendo
infine l'erba. Non sembrava ferito alle braccia, alle gambe o
alla schiena, e nemmeno alla testa. Chissà dove l'aveva colpito
Thompson. Sul davanti, di certo. E quante volte era riuscito a
colpirlo? Una o due?
"Ennis", chiamò, inginocchiandoglisi vicino, posandogli una mano su una spalla, resistendo alla
tentazione di girarlo a pancia in su: non si muovono i feriti. "Ennis..."
Gli occhi di Ennis erano chiusi, la sua espressione sofferente. Un
rivolo di sangue gli usciva da un angolo della bocca. Il suo
respiro era un sibilo.
Ma respirava. Dio, ti
ringrazio.
"Ennis, amore..."
Jack si rese conto solo ora che
la propria voce era ridotta a un sussurro roco, parlare gli faceva male
alla gola, l'aria gli bruciava i polmoni. Thompson gli aveva fatto un bel lavoretto, ma c'era anche
qualcos'altro, qualcosa di diverso ma ugualmente soffocante. "Ennis... rispondi, Ennis..."
Ennis non rispose, non si mosse.
Da dentro arrivava la voce di Cassie, al telefono prima con l'operatore
del pronto soccorso, poi con gli Hamilton. Dopo poco, Cassie smise di
parlare: doveva avere riattaccato. Qualche secondo ancora, e Jack la
vide, appoggiata con una spalla allo stipite della porta, una mano sul
ventre, l'altra sulla ferita, lo sguardo terrorizzato di un cervo di
fronte a un'automobile in corsa, di notte. Anche la sua voce
uscì rotta: "Jack..."
"Cassie, che cosa..."
"Jack, aiuto... io... credo di avere rotto le membrane... e sto sanguinando..."
"Cosa?" Jack guardò in basso, e fu come se qualcuno gli avesse
nuovamente serrato la gola, questa volta con una morsa di ferro anziché con le mani. Altro sangue colava copioso lungo le gambe di Cassie, arrivandole ai piedi e raccogliendosi in una pozza sul pavimento.
"Aiutami, Jack", mormorò lei, accasciandosi a terra nella stessa
posizione di prima, iniziando a singhiozzare. "Non è ancora il
momento... oddio, il mio bambino..."
Jack non era esperto di parti, ma ne sapeva a sufficienza per capire
che Cassie non aveva rotto le membrane: o almeno, non solo. Per perdere
sangue in quel modo, doveva esserlesi rotto qualcosa dentro, e non ci voleva un medico per indovinare che si trattava di una faccenda poco simpatica.
Le gattonò vicino, le cinse le spalle con un braccio, cercando
di mantenere il tono fermo, nonostante la nausea che lo stava
assalendo. Non era il momento di abbandonarsi
all'emotività. "Stai tranquilla, Cassie, andrà
tutto bene. Hai chiamato il pronto soccorso, vero?"
"S-sì... mi hanno detto di stare calma, che invieranno
un'ambulanza al più presto, e chiameranno anche la polizia..."
"Brava. Sei stata bravissima."
"Poi ho chiamato anche Jan", aggiunse lei, scossa dai singhiozzi. "Ha
detto che arriverà subito, con Matt. Poi ho avuto questa strana
sensazione... oddio, Jack, cos'è successo al mio bambino? Ho
perso le acque... sto sanguinando... n-non è normale, non così, al settimo mese..."
"Niente, vedrai che non è successo niente. Tranquilla, stai
tranquilla. I bimbi nascono spesso prima del termine, ma poi diventano
grandi e forti più degli altri... hai presente il figlio dei Barlow? Lui..."
"Ed Ennis?" l'interruppe Cassie, aggrappandosi alle sue spalle,
incapace di rivolgere lo sguardo al lungo corpo inerte, sdraiato sul
pavimento a pochi passi da loro. "Come sta Ennis?"
"Non lo so", disse Jack, cercando di tenere ferma la voce. Poi, come se quello spiegasse tutto, aggiunse: "Respira."
"Non l'hai mosso, vero? Al pronto soccorso, si sono raccomandati..."
"No, non l'ho mosso."
"Andrà tutto bene", disse Cassie, guardandolo implorante, le lacrime che le rigavano le guance. "Vero, Jack?"
"Sì, Cassie", rispose lui, stringendola a sé e chiudendo
gli occhi e pregando Dio, se c'era e se li stava guardando, che la sua
affermazione non si rivelasse una bugia."Andrà tutto bene."
George Thompson venne dichiarato deceduto, e trasportato direttamente
all'obitorio
dell'ospedale di Casper per l'autopsia. Cassie ed Ennis, invece,
vennero portati al pronto soccorso, la prima con un distacco di
placenta e una pallottola proprio sopra al fegato, il secondo con
una
pallottola nel polmone sinistro, e una a due centimetri dall'aorta.
Entrambi avevano bisogno di un intervento chirurgico d'urgenza, e
Cassie in particolare
necessitava di un taglio cesareo per estrarre il feto prima che
soffrisse troppo, sebbene non fosse ancora giunto il momento per
il parto.
Ennis non riprese conoscenza, prima di
essere operato.
La sala operatoria del reparto di chirurgia era in un'ala dell'ospedale
diversa da quella usata nel reparto maternità. Janice si
offrì di attendere per Cassie, mentre Jack restava da Ennis
insieme a Matt. Jack protestò debolmente, ma Janice
tagliò corto: "Tanto, non c'è molto da fare. Si
può solo attendere. E per qualsiasi novità, mi
chiamerai,
come io verrò a chiamare te."
"D'accordo."
"Prima, però, bisogna avvertire K.E.."
K.E.. Jack non ci aveva pensato. Deglutì, sentendo la gola
secca.
"Se vuoi lo faccio io", si offrì Jan.
"No, posso farlo io."
Lo chiamò dal telefono a gettoni vicino alla porta
d'ingresso,
sperando che rispondesse Katherine. Invece fu proprio lui a rispondere.
"Pronto, del Mar?"
"K.E.? Ciao, sono Jack... Jack Twist."
"Che vuoi?" in meno di un attimo, il tono di K.E. da gioviale si era
fatto ostile.
"Ennis
è..." Jack
incespicò, non riusciva a trovare le parole. Si
portò una mano al collo, leccandosi le labbra aride. Aveva la gola
terribilmente asciutta, la lingua secca, e non era colpa di Thompson.
"E' in ospedale... gli hanno sparato, e..."
"Io vi avevo avvertiti", replicò K.E., duro.
"Non è stato a causa di quello",
ribatté Jack, sentendo la collera infiammargli la pancia.
Non se
la sentiva di affrontare una litigata con il fratello di Ennis, non
ora, ma se K.E. avesse continuato con quelle insinuazioni, non sarebbe
riuscito ad evitarlo.
"E per cosa, allora?"
"E' complicato da spiegare. Senti, perché tu e Kat non
venite qui all'ospedale di Casper e..."
"Non ci penso nemmeno. Quello non è più mio
fratello, quel che gli hanno fatto non mi riguarda."
"K.E...." tentò Jack, ma Janice gli prese la cornetta dalle
mani: "Stammi bene a sentire, razza di stupido", esordì, le
guance infiammate dalla rabbia, gli occhi scintillanti. "Forse Jack non
si
è spiegato bene. Ennis è grave, ha un proiettile in un
polmone e uno gli ha mancato il cuore per un soffio, e se non corri
qua in
fretta, e voglio dire subito
immediatamente, forse non avrai più
l'occasione di parlargli."
A quelle parole, Jack sentì gelare lo stomaco, che prima
aveva sentito ribollire.
K.E. replicò qualcosa che Jack non riuscì ad
afferrare,
ma il tono sembrava ammorbidito. "Un pazzo gli ha sparato", spiegò Janice, e Jack si chiese
come
potesse restare così calma parlando del fratello minore che
stava morendo. "E la ragione sembra essere
stata
che lui e Jack avevano dato ospitalità a una ragazza madre
che
quel bastardo aveva messo incinta."
La voce di K.E. uscì dalla cornetta: "Ma allora quei due se le cercano!"
"Smettila di fare lo stronzo, K.E.", l'apostrofò Jan, dura, la
voce vibrante dalla collera. "Sai benissimo che non è
così."
Di nuovo K.E. disse qualcosa. "Jack sta bene", rispose Janice. "Potrai
parlargli non appena arriverete. Su, cacciate i ragazzini con una baby
sitter e correte qui." Riagganciò bruscamente e sorrise, con la bocca
ma
non con gli occhi. "Visto? Con la dolcezza si ottiene tutto."
"Jan, grazie."
Lei gli passò un braccio intorno al collo, lo strinse e lo
baciò sulla fronte e gli sussurrò: "Coraggio",
poi lo
lasciò e si avviò verso il reparto
maternità.
Jack
si sedette sulla scomoda
panca della sala d'attesa. Sentiva ancora la gola gonfia, e si accorse
che gli doleva il braccio destro, colpa dello sforzo che aveva compiuto
nella lotta con Thompson. Dopo che Hackman glielo aveva schiantato, non
era più tornato come prima: doveva fare attenzione al freddo
e agli
sforzi, e l'ortopedico l'aveva avvisato che entro una decina d'anni, se non meno, avrebbe
iniziato a soffrire di artrite.
Si strinse le braccia intorno al corpo, scosso dai brividi, quasi
battendo i denti. Avrebbe avuto tutto il tempo per cambiarsi
la vecchia maglietta a maniche lunghe e i jeans sdruciti che aveva
indossato
quella
sera dopo la doccia, e magari portarsi un giubbotto contro l'aria
condizionata che usavano negli ospedali (che razza di idea, accendere l'aria condizionata in aprile), ma non ci aveva
proprio pensato: aveva dimenticato anche il cappello, e calzato gli
stivali solo perché era stato Matt a ricordarglielo. Infilò le mani
nelle maniche, sfregandosi gli avambracci, e
ripensò a quando, sulla Brokeback, si lagnava per il freddo,
ed
Ennis lo chiamava lamentone,
ma poi lo abbracciava e lo stringeva a sé, riscaldandolo con
il calore del proprio corpo.
Come stai, Ennis?
Cosa ti stanno facendo? Sei ancora vivo, vero?
Resisti. Ho bisogno di te. Ti prego, resisti. Non mollare, non andartene. Ti prego.
Torna da me.
Ti prego.
Ti prego. Ti prego. Ti prego.
"Ti senti bene?" domandò Matt, in piedi davanti a lui.
"No", rispose Jack. "Ho un freddo boia, sembra di
stare
in Siberia. Almeno di notte, potrebbero abbassare l'aria condizionata."
Matt si sfilò il cardigan: "Prendi questo."
"No, Matt, davvero, io..."
"Zitto e mettitelo", Matt lo avvolse nella giacca, sorridente ma
fermo. "Io sto bene anche senza. L'aria condizionata è
spenta, la tua deve essere solo un pò di tensione nervosa."
Jack tacque, stringendosi imbarazzato i lembi del cardigan intorno al
corpo. Matt lo stava trattando come un ragazzino. Poteva
permetterselo, c'erano dieci anni di differenza fra loro, ma la cosa lo
metteva a disagio. "Grazie."
"E di che?" Matt gli batté una spalla, scrollandolo. "Se mio
cognato passa un brutto momento, puoi stare tranquillo che io ci sono."
Dopo altre tre ore, quando Matt era andato al bar a prendere due
caffè, per sé e per Jack, ed Ennis non era ancora
uscito dalla sala operatoria,
tornò Janice. Aveva sempre i capelli
sciolti
e scompigliati, l'aria distrutta ma composta. Gli si parò
davanti, e Jack sollevò la testa e la guardò, senza
alzarsi dalla panca. Non sapeva quanto tempo fosse effettivamente
passato, era
stato lì a tremare nonostante la giacca di Matt, la mente che
turbinava come una trottola impazzita, sentendosi rintronato e
confuso, cercando di radunare i pensieri senza riuscirci.
"Jack, adesso devi farti coraggio", disse Jan, e Jack capì
immediatamente cos'era successo a Cassie.
"No."
"Cassie se n'è andata. Ha avuto un'emorragia..."
"No."
"Hanno provato a farle un'isterectomia... poi una trasfusione... ma..."
"No. N-n-no."
"Jack", Janice si sedette accanto a lui, gli carezzò una
spalla. "Ascolta."
Lui si prese la faccia tra le mani. Si sentiva troppo esausto anche per
piangere.
"La bambina è viva. E' sopravvissuta."
"E' prematura."
"Sì. Ma può farcela. E' sana e forte. E Cassie mi
ha
parlato, prima di andarsene. Vorrebbe che foste tu ed Ennis a
crescerla."
"Non posso", mormorò lui, la voce soffocata dalle
mani. "Non ce la faccio."
"Sì che ce la fai."
"Non ce la farò mai. Non ne so niente di neonati."
"Ti aiuterò io."
"Cosa penserà la gente? Un'orfana bastarda allevata da due
finocchi..."
"Non mi pareva che ti fosse mai importato di quello che pensava la
gente", sentenziò lei. "Altrimenti, non saresti qui."
"No", disse lui. "Finché c'è Ennis,
finché posso
stare con lui, il resto non mi tocca. Ma se Ennis muore..."
Lei lo prese per le spalle, lo scrollò finché lui
non la
guardò negli occhi, poi disse: "Non dirlo neanche per
scherzo."
Jack sentì qualcosa che gli si rompeva dentro, e prima che
potesse trattenersi, scoppiò in singhiozzi. Temette che Jan,
dura com'era di solito, l'avrebbe schiaffeggiato, o almeno l'avrebbe scosso di nuovo, ma lei lo trattenne
per le spalle e lo tirò a sé, stringendolo forte.
"Vieni
qui", disse, dolcemente.
Jack si aggrappò a lei, piangendo, e Jan lo tenne stretto e
gli
carezzò la testa, come una sorella, come una madre.
Ennis uscì dalla sala operatoria dopo altre quattro ore, sdraiato su di una lettiga, intubato e
incosciente, e venne trasportato in rianimazione. Il chirurgo
spiegò che
l'operazione era andata bene, ma la gravità delle ferite era
tale che la prognosi non poteva essere sciolta. Ennis era tenuto in
coma farmacologico, e le ore seguenti sarebbero state decisive per
capire se ce l'avrebbe fatta o meno.
"Cercate di non farvi illusioni", ribadì il chirurgo. "Abbiamo
fatto tutto il possibile, e adesso, l'unica cosa da fare è
attendere."
Fuori, era una bella giornata di sole, tersa e serena, il sole filtrava
dai vetri del corridoio, riscaldando l'ambiente. Una bella giornata di
primavera. Cassie non l'avrebbe mai vista,
(Dio, Cassie... ma com'è potuto succedere?)
non avrebbe mai più
visto giornate come quelle. La sua bambina... forse lei sarebbe vissuta
abbastanza, sarebbe cresciuta e ne avrebbe viste molte.
Ed Ennis?
Non si poteva morire, in una giornata come quella. Non era giusto.
Ennis, resisti, non mollare. Non andartene anche tu.
Ti prego.
Ti prego, amore mio.
"Possiamo vederlo?" domandò Jack.
"Siete della famiglia?"
Jan scambiò uno sguardo con il marito. Poi si
rivolse al chirurgo, accennando a Jack: "Sì, noi due",
rispose, calma.
"Solo per un minuto, mi raccomando."
Entrarono.
C'erano otto letti, quattro a destra, quattro a sinistra, separati da
tende. Ennis era nel terzo letto a sinistra, sdraiato sulla schiena,
fasciato fino al petto, pallidissimo, gli occhi chiusi. Dei cavi che
sbucavano da sotto la coperta lo collegavano a un apparecchio con
due piccoli monitor: la pressione sanguigna e i battiti del
cuore. Un tubo di plastica gli usciva dalla
bocca, fissato con quello che sembrava nastro adesivo. Il tubo arrivava ad un apparecchio che sembrava una specie di pompa,
che gli soffiava l'aria nei polmoni. In un polso
gli avevano conficcato
l'ago
di una flebo, nell'altro il tubo di un catetere. Il suo corpo forte e
vigoroso sembrava così
inerte, così vulnerabile, che Jack dovette appoggiarsi alla
pediera del letto: se avesse tentato di restare in piedi senza
sostegno, temeva che sarebbe rovinato in ginocchio.
Janice raggiunse il letto e prese la mano del fratello. Non
parlò, ma iniziò a cantare, a bassa voce, poco
più
di un sussurro:
"Go
to sleep, may your sweet dreams come
true, Just lay back in my arms for one more night..."
Jack aveva già sentito quella
melodia. Non le parole, quelle no: Ennis non le ricordava.
Era la ninnananna che gli aveva cantato quella sera che si era tagliato
la mano con la lattina di zuppa, quasi dieci anni prima, quando avevano
lavorato insieme sulla Brokeback. Quella sera che l'aveva medicato e
aveva cucinato per lui, e
l'aveva abbracciato da dietro, cullandolo, le loro ombre e i battiti
dei loro cuori e i loro respiri fusi come in una sola persona,
e prima di andarsene gli aveva detto, per la prima volta, probabilmente
senza accorgersene, Buonanotte,
piccolo. Una delle prime volte che si era lasciato
andare ai propri sentimenti, alle proprie emozioni.
"I've this
crazy old notion that calls me sometimes, Saying this one's the love of
our lives", cantò
Janice, con il viso sereno e la voce aspra e ferma e le lacrime che le
traboccavano dalle
palpebre e le scendevano sulle guance in strisce lucide. "'Cause I know a love that will
never grow old, And I know a love that will never grow old..."
Jack non conosceva le parole di quella nenia, ma conosceva la melodia.
Iniziò a cantare con Janice, anche il suo appena un bisbiglio, raggiungendo Ennis dall'altra
parte
del letto e prendendogli l'altra mano fra le proprie.
"When
you wake up the world may have changed, But trust in me, I'll never
falter or fail. Just the smile in your eyes, it can light up the
night, And your laughter's like wind in my sails..."
Terminarono la canzone, e rimasero lì, in piedi, al capezzale di
Ennis, Jan alla sua sinistra, Jack alla sua destra, tenendogli le mani,
in silenzio. La mente di Jack non avrebbe voluto starsene zitta come la
sua bocca, avrebbe voluto ricordare i momenti belli, e quelli meno
belli, che aveva trascorso con Ennis in quei dieci anni: ma Jack si
concentrò nello sforzo di farla tacere. Accidenti, Ennis non era
morto, avrebbe trascorso con lui altri momenti belli, e altri momenti
meno belli. Avrebbe condiviso con lui altre gioie e altri dolori,
sarebbe stato con lui nella salute e nella malattia... finché
morte non li avesse separati.
Ennis non era morto. No, non ancora.
Sarebbe sopravvissuto.
Dio, ti prego. Non portarmelo via.
Dopo una decina di minuti, un'infermiera si
affacciò: "Signori? Mi dispiace, dovete andare."
Jan annuì. "Veniamo subito." poi guardò Ennis, si
chinò su di lui e lo baciò sulla fronte,
scostandogli i
capelli.
"Sogni d'oro, Ennie. A domani."
Jack sentì un nodo in gola. Carezzò la mano fredda di
Ennis, si chinò sul suo viso e gli
baciò l'angolo della bocca, infine mormorò:
"Buonanotte, amore mio. Ti
amo."
"Andiamo", disse Janice, e si
avviò verso la
porta asciugandosi gli occhi. Jack la raggiunse e lei gli
passò
un braccio intorno alla vita, per confortarlo e trarne
conforto.
Lui le passò un braccio intorno alle spalle. Era ora di
farsi
forza.
"Jan", mormorò. Si morse il labbro inferiore, incerto su come
continuare. Se avesse detto quelle parole, non avrebbe potuto tornare
indietro: era davvero ciò che voleva? "Io... vorrei vedere
la bimba. Voglio conoscerla, dal momento che dovrò occuparmene. Mi accompagneresti?"
Lei lo guardò e sorrise. "Ma certo, Jack."
Settembre 1973
Forse C.J. aveva delle coliche intestinali, rifletté Jack:
un
pò di aria nei tubi, come diceva Jan. Non le era mai
capitato,
ma c'è sempre una prima volta.
Per calmare le coliche, Jan gli aveva consigliato un rimedio a suo dire infallibile: tanto valeva provare. Jack si
posizionò quindi la piccola a pancia in giù sul braccio
sinistro, carezzandole la schiena con la mano destra, e intonò
la vecchia ninnananna che gli aveva cantato Ennis pur non ricordando le
parole, che si era fatto insegnare da Janice: "Go to sleep, may your sweet dreams come true..."
Dopo che Jack ebbe cantato la
nenia per due volte, la
piccola a poco a poco iniziò a quietarsi, dapprima smettendo
di agitare braccia e
gambe, poi cessando di piangere, e anche il suo respiro si fece
regolare, come se stesse per
addormentarsi. Forse aveva davvero avuto delle coliche.
Jack continuò a cantare e a cullarla, rallegrandosi di avere trovato la soluzione.
Erano
passati quasi cinque mesi dalla sera in cui Thompson si era
presentato
in casa loro dopo avere scavalcato la recinzione, armato del suo 30.30. Dopo una settimana di coma, e
un'altra di degenza, in cui era rimasto intontito dai sedativi quasi
quanto la prima, Ennis era finalmente stato dichiarato fuori pericolo,
e dopo altri sette giorni aveva potuto lasciare l'ospedale,
pallido e dimagrito. Cassandra
Junior, invece - così aveva deciso di chiamarla Jack - aveva
dovuto
rimanere in incubatrice per un mese intero, poi in culla termica per
altri quindici giorni, ma adesso era una bimba perfettamente sana, vitale e vivace, sebbene ancora leggermente
sottopeso.
Nell'appartamento di Thompson, perquisito dalla polizia
dopo l'accaduto, era stata trovata una lettera, in cui l'uomo
spiegava
esattamente cos'avrebbe voluto fare: vendicarsi di Jack, Ennis e Cassie
uccidendoli, poi fare la stessa cosa con sua moglie e i tre figli, e
infine scappare in Messico. La cosa era diventata ben presto di dominio
pubblico, e
Jack si era ritrovato il beniamino di Casper: il ragazzo generoso che
aveva dato
ospitalità a Cassie, ragazza madre disperata, l'amante
sfortunato
dell'uomo che si trovava in coma a causa di un pazzo fuori di testa, e
l'innamorato coraggioso che aveva sfidato tutte le convenzioni pur di
rimanere accanto all'uomo che amava.
Semplicemente ridicolo, aveva
pensato Jack. Guarda cosa ci voleva, per fare ribaltare a certa gente
il proprio modo di considerare le persone di cui in precedenza aveva
sparlato. Che manica di bacchettoni ipocriti.
Non aveva potuto pensare la stessa cosa per K.E.: bacchettone forse,
omofobico sicuramente, ma certo non ipocrita. Si era presentato il
giorno successivo all'aggressione, scuro in viso, gli occhi cerchiati,
in compagnia di Katherine. Kat aveva abbracciato Jack ed era scoppiata
a piangere, mentre K.E. aveva mugugnato: "Sapevo che prima o poi
sarebbe successo qualcosa di simile."
"Non è stato per quello che credi tu", aveva ribadito Jack,
tenendo stretta Kat. "Se non credi a me, fattelo ripetere da tua
sorella."
"Perché tu sei l'unico illeso, Twist?" aveva domandato K.E.,
con vivo risentimento.
"Smettila, K.E.", aveva detto Katherine. "Jack è vivo per
miracolo. Quel bastardo ha tentato di strozzarlo", aveva posato una
mano liscia e curata sul collo di Jack, segnato da ematomi blu e neri,
che lo circondavano come una grossa collana, e aveva mormorato: "E ci
è quasi riuscito, vedo."
Jack non sapeva cosa dire, si sentiva fuori posto, a disagio. Ennis
combatteva fra la vita e la morte, e lui stava lì, in sala
d'attesa, ad assistere ad un'assurda conversazione di cui era
l'oggetto, incapace di intervenire o difendersi in alcun modo. Si era
sentito quasi in colpa per essere l'unico illeso, per avere solo il
labbro superiore spaccato, e delle tumefazioni sul collo e sui polsi. Forse K.E. crede che me le sia procurate da solo, aveva pensato.
Ma K.E. si era avvicinato. "Non pensare che ti dica che mi dispiace",
aveva dichiarato. "Disapprovo le scelte di mio fratello, ma
avrei preferito cento volte che quel figlio di
puttana avesse ammazzato te e non lui."
"Evviva la sincerità", aveva commentato Jack. "Ma se fossi
in te, credo che penserei la stessa cosa."
"Non so se riuscirò
mai ad accettarti di nuovo in casa mia, ora che so come stanno le cose
fra te ed Ennis", aveva
detto K.E.. "Credo che le cose non potranno
tornare come prima, se anche Ennis sopravvive..." la voce gli si era spezzata sull'ultima
sillaba, e gli occhi scuri gli si erano colmati di lacrime. Aveva
chinato la testa e si era portato la mano destra agli occhi, immobile
nel resto del corpo. "Se... s-se riesce a..."
Jack aveva provato pena per lui. Aveva allungato una mano, gli aveva
raggiunto una spalla, ma K.E. l'aveva respinto, duro: "Non mi toccare.
Non mi toccare ora.
Se Ennis ce la fa... forse... ma ora, lasciami in pace."
Jack non ci aveva più provato. Aveva fatto un cenno con la
testa
a Kat, per esortarla a confortare il marito; lei però aveva
scosso il capo, e l'aveva lasciato a ricomporsi da solo.
K.E. non aveva
più rivolto la parola a Jack, comportandosi come se questi
non esistesse, e quando le condizioni di Ennis
erano migliorate, si era comportato freddamente
anche con il fratello, malgrado Jack sapesse bene quanto era stato in pena
per lui.
Forse, aveva detto K.E.. Forse, presto o tardi, prima o
poi. Più poi che prima, ma spesso la vita va in questo
modo, e non ci si può fare niente, se non attendere.
Jack comunque aveva
scoperto di non riuscire a prendersela, né per la reazione
ipocrita della gente di Casper, né per quella fin troppo
schietta di K.E.. In fondo, sarebbe potuta andare peggio:
Cassie era morta, ed era dura da digerire, ma Ennis era vivo e
stava bene, e c'era C.J. che riempiva le loro già piene
giornate.
E se era per quello, anche le notti.
Avrebbe potuto morire anche C.J., pensava Jack, quando il dolore per la morte di Cassie si faceva più acuto. Avrebbe potuto morire anche Ennis. E allora, che ne sarebbe stato di me?
Inizialmente,
Ennis si era dichiarato contrario nel tenere con loro la piccola,
adducendo le stesse ragioni che per primo Jack aveva opposto a Janice:
due
finocchi che si occupano di una bastarda, cos'avrebbe pensato la gente?
E la bimba, quanti affronti e quanti pettegolezzi avrebbe dovuto
sopportare?
Ma
poi, Jack era riuscito a convincerlo. Non che Ennis avesse avuto
bisogno di una grande opera di convinzione: gli era bastato che Jack lo
portasse nel reparto maternità, spingendolo sulla sedia a
rotelle, a
vedere la neonata, tutta infagottata nell'incubatrice, una flebo nel
minuscolo polso, un'altra che usciva da sotto al berrettino, infilata
nel cuoio capelluto, la pelle sottile e rossa, quasi come se fosse
stata scorticata, gli occhi chiusi, le stesse ciglia lunghe di Cassie.
"Al diavolo la gente", aveva sbuffato. "Non hai detto
che siamo diventati i beniamini di Casper?"
"Io lo sono
diventato", aveva precisato Jack, sorridendo, e in cuor suo aveva
esultato: Vittoria.
"Tu sei quello che, poverino, è rimasto ferito."
"Poverina sarà tua sorella", l'aveva apostrofato Ennis,
tirandogli un leggero pugno sul braccio.
"E questa come fai a
conoscerla?" la voce di Ennis. Ed eccolo, appoggiato con il gomito allo
stipite della porta. Era in pigiama, i capelli scompigliati, a
piedi nudi.
"Scusa, ti abbiamo svegliato", disse Jack, voltandosi verso di lui. Dal
giorno della sua dimissione dall'ospedale, il viso di Ennis aveva
ripreso
colore, malgrado non avesse ancora recuperato tutto il peso perduto. Stava meglio, ma era ancora
convalescente e avrebbe avuto bisogno di riposare; tuttavia, con la
piccola C.J. in casa, la cosa era pressoché
impossibile.
"Non
fa niente", disse Ennis. "Come fai a
conoscere quella ninnananna? Non dirmi che tua madre la cantava anche a
te."
"Assolutamente no."
"E allora, chi te l'ha insegnata?"
"Segreto, cowboy", rispose Jack, con un sorriso malizioso.
Ennis gli scompigliò i capelli: "Non dovrebbero esserci
segreti
fra noi due." Gli andò dietro la
schiena e l'abbracciò,
passandogli un braccio intorno al collo e uno intorno alla vita,
proprio come aveva fatto più di dieci anni prima sulla Brokeback, solo che
questa volta non erano più due ventenni confusi
e impauriti e a un tempo esaltati per quello che stavano vivendo, per quello che stava succedendo tra loro: erano trentenni,
in casa propria, avevano una bambina e, malgrado tutte le
difficoltà, erano riusciti a costruirsi una bella vita, una
vita
che valeva la pena vivere.
"I miei
due piccoli", disse Ennis, e continuò a intonare la melodia
della ninnananna con la sua voce bassa, quasi baritonale, proprio da dove Jack aveva interrotto, cullando
insieme Jack e C.J..
Jack chiuse
gli occhi, strinse ancora di più a sé C.J.
inspirando il
suo buon odore di latte, di pulito e di nuovo, si abbandonò fra le
braccia
di Ennis, e dopo poco si unì a lui cantando sottovoce: "Lean
on me, let our hearts beat in time, Feel strength from the hands that
have held you so long. Who cares where we go on this rutted old road,
In a world that may say that we're wrong..."
Ascoltando le parole, Ennis dovette ricordare qualcosa,
perché alla fine si unì a Jack per il ritornello:
"'Cause
I know a love that will never grow old, And I know a love that will
never grow old."
Jack pensò che poteva anche essere un finocchio, che
allevava
un'orfana bastarda in compagnia del suo amante, ma era un finocchio
dannatamente felice e fortunato. Finché Ennis fosse stato insieme a lui,
avrebbe potuto superare qualsiasi difficoltà, e tutto sarebbe andato bene.
Nota: Alla
fine, sono
riuscita a mettere giù questo racconto, che mi girava in
testa
dalla settimana prima di partorire - il mio Piccolo Principe (o Piccolo
Terremoto?)
è
nato due settimane prima del termine, ormai lo scodellavo nel corridoio
dell'ospedale.
A dire la verità, avevo questa storia praticamente pronta in testa (certe scene le avevo in mente già da Somewhere,
come quella in cui Kat balla con Jack, mentre K.E. discute con Ennis, e
quella della sfuriata dei "nostri" a causa di Jimmy
Maddocks), ma
mi mancava il tempo per scriverla. Per quanto soddisfacente, avere a
che fare con un neonato è davvero impegnativo, soprattutto
quando sei arrivata alla fine della gravidanza mentalmente esausta e
fisicamente deperita, e il primo mese dopo il parto ti servirebbe
per recuperare, mentre invece devi badare a un Piccolo Parassita (no,
scherzo, io sono pazza del mio Tommy: però un neonato è davvero un vampirello)!...
Credits: "Leave out all the rest" è una canzone dei Linkin
Park; l'ho scelta come titolo perché mi ricorda Tommaso, ed
è a lui che voglio dedicare questo racconto. Le
altre canzoni che ho usato sono tutte della colonna
sonora di "I segreti di Brokeback Mountain"; in
particolare, "A
love that will never grow old", che ho usato come titolo per questo terzo capitolo e ho fatto cantare a Janice, Ennis e
Jack come se
si trattasse di una vecchia ninnananna, è di Emmylou Harris.
Disclaimer: I
personaggi di Jack Twist e i suoi genitori, Ennis del Mar e i suoi
genitori e fratelli, Cassie
Cartwright e Linda Higgins, appartengono ad Annie Proulx,
così come il Wolf's Ear.
Se qualcuno
riconoscesse nella mia storia idee che ritiene di sua
proprietà,
mi creda se gli dico che non l’ho fatto apposta, e spero non
si
offenda.
Infine, preciso che questa storia è stata scritta senza
alcuno scopo di lucro.
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