The
Kids Aren’t Alright
We put your curse in reverse
Ogni
tanto Ace
sentiva che suo fratello Sabo non era morto. Era solo una sensazione, o
un
impulso, una di quelle cose che non si pensano con il cervello ma che
sono lì,
sotto la pelle, nell’inconscio, come lo si vuole chiamare, e
che a volte
risalgono in superficie come delle balene che riprendono fiato prima di
tuffarsi. Forse era un impulso dovuto al fatto che non aveva mai visto
il suo
corpo esanime. Poi pensava che non sarebbe riuscito a sopportare di
rivederlo,
ma che avrebbe voluto vederlo lo stesso, in qualsiasi caso—
Era
la S sul
braccio: si vedeva ma era cancellata.
Ogni
tanto si
appoggiava al parapetto della Moby Dick e, guardando il mare, stringeva
la
pelle del braccio sinistro sotto la mano destra. Era
un’incertezza che durava
solo per qualche secondo: poi Ace abbassava la testa per rialzarla di
scatto,
sorridendo. La tristezza – e il rimorso, il rimorso, soprattutto il
rimorso –
non spariva. Nessuno dei due spariva mai, però Ace
sorrideva, si toglieva il
cappello e toglierselo era come far volare fuori una colomba dal
cilindro del
mago: era come far portare via il dolore terribile dal vento fresco.
Forse
Sabo non
c’era più, ma—se ci fosse stata una
minima possibilità—allora Ace sorrideva,
nella forse patetica impressione che, anche da così lontano,
dovunque fosse,
terra o mare, superficie o fondale, Sabo potesse vederlo e sorridergli.
Avrebbe
voluto dirgli talmente tante cose, farsi perdonare, piangergli in
faccia—
«Tu
lo sapevi,
Sabo, che non siamo normali per niente, tutti e tre.»
Forse
era quello
che lo faceva sorridere.
And let your dirty sadness fill me up just like a
balloon
Stava
piovendo da
un po’ lungo il tratto di mare in cui navigava la Sunny. Rufy
stava
divertendosi con Usopp e Chopper a correre per tutto il ponte nel
tentativo di
non farsi colpire dalle enormi gocce di pioggia, per cui saltavano
continuamente per evitare l’acqua. Ovviamente il gioco era
troppo difficile
perché uno dei tre potesse vincere, ma bastava poco per
ridere.
Quando
il
divertimento finì perché erano tutti e tre
fradici, Rufy decise di mettersi a
prua per guardare l’orizzonte. In genere, questa specie di
pausa meditativa non
durava molto, perché gli veniva una gran fame, ma qualche
volta—
Pensava
ad Ace.
Non che lo pensasse di rado: ma sotto la pioggia, presso la prua della
Sunny,
ripensava alle parole di suo fratello e anche se non piangeva nel
ricordarle (e
nel ricordarlo) sentiva una pesante
sofferenza comprimergli i polmoni. E quando pensava anche a Sabo,
arrivava sul
punto di scoppiare, come un palloncino troppo gonfio; allora Rufy si
levava il
cappello e respirava profondamente. A volte bastava un respiro, a volte
ce ne
volevano due, o tre: per ogni respiro lui aveva un ricordo. Uno bello,
uno
brutto.
Ma
quelli belli,
soprattutto. Essendo belli non lo facevano sentire triste. Come i
palloncini,
che volavano in alto e mai guardavano in basso. E se si trattava di
ricordi
tristi—non abbassava mai lo sguardo oltre
l’orizzonte.
Rufy
pensava a Ace
e Sabo e sorrideva, perché c’era qualcosa di
straordinario nel legame con i
suoi due fratelli che non riusciva a spiegarsi se non con le
parole fratelli di cuore.
Don’t you know that the kids
aren’t— the kids aren’t alright?
Quando
Sabo arrivò
presso le tombe di Ace e di Barbabianca con il ritaglio di giornale e i
tre
bicchierini di sakè, allora pianse,
com’è naturale. Si tolse il cappello blu,
lo appoggiò per terra e cominciò a piangere senza
avere paura.
Il
dolore gli
spezzava il corpo a metà: ma il rimpianto, quello cercava di
strappargli
l’anima, il senno, il cervello. Non averlo ricordato
prima—non aver ricordato
prima né Ace né Rufy—
Pianse
a lungo con
tutto il cuore. Dopo il pianto, aveva gli occhi puliti da ogni
impurità, ma il
rimpianto
rimaneva sopra il diaframma a rendergli difficile il respiro. Stava
pensando che Ace era sfuggito al tempo, al tempo di Sabo, che avrebbe
voluto
ricordarlo prima e rincorrerlo nel tempo e nello spazio per
riabbracciarlo e
fargli sapere che gli aveva sempre voluto bene e sempre gliene avrebbe
voluto.
Da
qualche parte
in sé, o fuori di sé, o forse troppo in
profondità in sé, Sabo pensò che Ace
gli aveva voluto bene lo stesso per tutti quei dieci anni in cui lo
aveva
creduto morto. Il rimpianto non spariva, tuttavia si disperdeva in
tutto il
corpo, lasciandogli appena le energie per respirare in maniera decente.
D’altronde, loro tre erano sempre stati un po’ non
convenzionali, da quel punto
di vista. Non avevano avuto bisogno di dire certe cose esplicitamente
per
saperle vere.
«Ho
imparato una
parola apposta per noi tre, Ace. Trascendere.
Lo so che è da matti cercare queste cose, ma – mi
serviva.» Rimase in silenzio
per qualche minuto, come se stesse formulando la frase per non
sbagliarla
davanti a lui, per non sbagliarla prima o poi davanti a Rufy
(perché almeno
Rufy l’avrebbe rivisto, prima di morire). «Il
nostro legame trascende il tempo
e lo spazio e la vita e la morte.»
A
quel punto, si
era alzato in piedi e aveva detto: «Dopotutto, noi tre non
siamo mai stati
normali, quindi me lo perdonerai. Quando ci rivedremo, se
già non la sai,
voglio insegnarti questa parola.»
Note varie:
Vecchi
fandom (almeno da lettrice) e vecchi feels (che sempre fan male, questa
cosa non me la spiego). Ciao
feels. Dovrei finire di far la dieta e
cominciare a mangiare cioccolato, magari così mi sentirei
meglio.
Se
ci sono imprecisioni, ehm, è dovuto al fatto che sono
accecata dai feels (da circa cinque anni a questa parte, temo) e che
quindi ho letto male qualcosa. Scusate.
Poi
non so come
fanno le persone che non hanno fratelli di cuore. Non lo so.
La
mia vena linguistica ha contagiato anche Sabo, abbiate pazienza. lol
Spero
vi sia piaciuta. Grazie per aver letto.
Alla
prossima! C:
claws_Jo
Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di
Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno
scopo di lucro.
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