L'ultimo viaggio, insieme
È una notte
molto buia e la luna è tanto grande. C'è vento e
vedo
la gente stringersi nelle giacchette, tornando di fretta nelle loro
case, ma io non sento freddo, sono solo stanca. Non riesco a smettere
di passeggiare per il lungomare; mi aiuta a pensare, a riordinare le
idee. Poi mi fermo. Vedo un ragazzo con un lungo giaccone che si
allontana verso il porto e lo seguo. È sospetto: non l'ho
mai visto
e mi incuriosisce. Sale su una piccola barca e cerca di sganciarla.
Ma è notte e il cielo promette tempesta, non mi sarei
sentita bene
con me stessa se glielo avessi lasciato fare, così lo
interrompo con
un'attenta occhiata.
«Mi
scusi», gli dico e lui si gira verso di me, con sguardo
perplesso. «Non starà pensando di salpare?
È notte e lei ha solo
una-», la guardai, sembrava un modello piuttosto vecchio,
«lampada
ad olio, non vedrebbe niente, e si perderebbe. È vietato,
comunque!
Rischia la sua vita». Mi sistemo i capelli dietro le orecchie
in un
gesto involontario e stringo le braccia al petto: lui mi irrita un
po', sto cercando di salvarlo da un possibile naufragio e sembra mi
voglia prendere in giro, sorridendo a quel modo.
«L'ho fatto
altre volte», mi dice, «Non mi accadrà
niente. Ma se
vuoi, puoi venire con me», io mi stringo nelle spalle,
cercando di
capire, «Sto andando a recuperare delle persone: potresti
aiutarmi
con loro. Che ne dici?».
È tutto
così strano. Alzo gli occhi all'orizzonte buio e decido di
ascoltare quel giovane uomo, di andarci. Se penso di lasciarlo da
solo mi sento un'irresponsabile, ma in due ce la faremmo sicuramente.
«Va bene», annuii.
Mi aiuta a salire
sulla barca e mi guardo brevemente intorno, notando
che ha una bussola, oltre alla lampada. Nient'altro. Non sembra
pronto per affrontare un viaggio in mare aperto, così lo
fisso con
concentrazione, cercando di capire cosa nasconde. Lui riesce a
sganciare la barca e dà una spinta, così inizia a
remare.
«Mi chiamo
Michele. Tu?».
Io lo guardo di
straforo, concentrandomi sulle altre barche molto più
grandi che stiamo lasciando nel porto. «Non dirò
il mio nome a uno
sconosciuto», rispondo.
«Va
bene», mi sorride. Quella sua sicurezza mi dà
fastidio.
«Allora,
dov'è che ci stiamo dirigendo? Hai detto che devi
recuperare delle persone…?».
«Sì»,
annuisce, «Saranno tanti e il mio compito è di
trovarli e
riportarli sulla terraferma» .
«Capisco».
In verità, non ho molte domande da porgli. Certo,
sembra una cosa piuttosto strana, ma tutto era strano, a partire da
lui. Tuttavia, sono sicura che stia facendo una cosa giusta e
seguirlo mi rende partecipe di questa cosa giusta. Recuperare delle
persone e riportarle a terra è un gesto di tutto rispetto.
Però mi
guardo intorno e capisco che tutti non ci stiamo, se a malapena ci
possiamo muovere noi. «Scusa», lo distraggo ancora,
«se posso
darti del tu. Ma dove vuoi mettere queste persone, se ci stiamo a
stento noi, qui sopra? La tua barca è troppo
piccola».
«Dici
davvero?», mi chiede. Mi indica con un piede un quadrato sul
fondo della barca e aggrotto le sopracciglia, cercando di capire.
«Una
botola?», domando.
«Apri ed
entra», mi fa l'occhiolino, mettendomi curiosità,
«Sono
certo che non troverai più la mia barca così
piccola».
Mi ha punto sul tasto
giusto, così stringo il pomello e lo giro
tirando verso di me. Ci sono delle scale e vado sotto, guardando
Michele solo un'altra una volta, che ancora mi sorride con
soddisfazione. Appena mi affaccio al livello inferiore spalanco la
bocca dallo stupore, vedendo quel salone così grande e
accogliente.
È illuminato da tante lampade ad olio ed è pieno
di letti, di
sedie, di giocattoli e riviste. Solo adesso capisco che Michele
è
pronto a ospitare tantissime persone senza problemi, anche per un
lungo viaggio. Mi faccio un giro veloce e mi affaccio allo specchio,
notando di avere il naso ancora arrossato: quel raffreddore non
voleva proprio lasciarmi in pace, anche se fortunatamente non sentivo
più quel dannato prurito; meglio, perché cerco
dei fazzoletti nei
jeans e non ci sono. Devo averli persi, così sbuffo.
Avrebbero
potuto servirmi per le persone che eravamo pronti a soccorrere e ci
rimango male; spero ce ne siano in quella sala, da qualche parte.
Quando torno di sopra, lui ancora mi fissa, ma io guardo oltre: la
costa è già molto lontana e le onde in quel punto
sono tanto alte,
ci sballottolano un po'. Michele guarda la sua bussola e il mare, di
nuovo la bussola e il mare, sussurrando qualcosa. Così la
riappoggia
e afferra i remi, continuando a navigare. Io guardo l'orizzonte e
stringo gli occhi, nel tentavo di inquadrare e riconoscere qualcosa
in mezzo alle onde: una persona?
«Sì,
ci siamo», esclama lui e ride.
C'è ben
poco da ridere, penso invece io: quel poverino sarà in
acqua da chissà quante ore e la sua pelle si sarà
fatta viola, o
gialla. E sarà ormai stanco di tenersi a galla. Ci
avviciniamo e
Michele poggia i remi, allungando una mano verso il mare.
Inaspettatamente qualuno gliel'afferra e lui tira su quel braccio
pallido e gonfio, così l'aiuto e l'uomo si accascia sulla
barca. È
bagnato, naturalmente, ma respira ancora. Così mi sembra.
Deve
essere molto stanco, lo vedo battersi il petto e cercare la voce, che
in un primo momento sembra non avere. Dice solo grazie, dopo qualche
tentativo. Michele gli apre la botola e io mi offro di accompagnarlo
giù. Scendiamo e lui sembra riprendersi pian piano, anche se
continua a tenersi la testa, con confusione.
«Puoi
sdraiarti in uno di questi letti», gli dico subito,
accompagnandolo io stessa. Bagna un po' le lenzuola ma si sta
asciugando in fretta e non me ne preoccupo. Lui si guarda le mani dai
palmi pallidi e poi si regge con gli stessi la testa, seduto sul
lettino. Mi avvicino a lui e mi siedo, ma è come se sapessi
di non
poterlo consolare. «Ti ricordi come ti chiami?». Mi
viene spontaneo
porgli quella domanda. «Cosa facevi, come sei finito in
mare?». Gli
fisso i ricci nerissimi che gli fanno colare l'acqua sul viso,
perché
mi sembra di averli già visti.
«No»,
scuote la testa, «Non… ricordo il mio nome. Dovrei
saperlo, ma non lo so», mi guarda con gli occhi colmi di
disperazione e io resto senza fiato. Il suo sguardo è
profondo e
parla più di quanto possa farlo lui: quell'uomo ha vissuto
una
tragedia.
Cerco qualcosa per
distrarlo quando sento la botola aprirsi ancora e
scendono altre persone: una donna, altri due uomini, di cui uno molto
giovane, e due bambini. Michele sta facendo in fretta, penso. Li
accolgo con fervore, mostrando i letti. Il ragazzo si sdraia quasi
subito ma gli altri restano a guardarsi attorno e io cerco un modo
per farli stare tranquilli. Sono tutti provati e impauriti, specie i
più piccoli, che stanno per mettersi a piangere. No, i
lamenti di
quei bambini mi mandano in crisi e mi metto le mani in fronte.
Recupero due giocattoli e glieli mostro, ma non sembrano pronti a
darmi ascolto. Io non demordo. Alla fine uno dei due cede e l'altro
piccolo sorride a mapalena, prendendo l'altro giocattolo dalla mia
mano. Li porto in un angolo della sala e cerco di giocare con loro,
notando che gli altri ospiti sono un po' più calmi e non
hanno
bisogno di me. Questi bambini sono molto piccoli e parlano appena.
Chiedo loro come si chiamano e se sanno dove sono i loro genitori, ma
nessuno dei due sa rispondermi. Non insisto e li lascio giocare, in
tempo per vedere altre persone scendere dalla botola. Molte donne,
alcune ragazze giovani, altri due ragazzi, due uomini, tre bambini e
due bambine. Li faccio passare, li accolgo e cerco di tenerli buoni.
Mi giro e la gente continua a scendere, è sempre di
più, è sempre
troppa, e sento la mia pressione salire. All'improvviso ho paura. Mi
guardo intorno e li vedo smarriti, bagnati, gonfi e paonazzi. Una
bambina mi fissa e io le distolgo lo sguardo. Non ce la faccio, ho
bisogno d'aria.
Salgo la botola e
Michele mi squadra, distogliendo per un attimo
l'attenzione dalla sua bussola.
«È
con quella che sai dove trovarli, eh?», mi sforzo di
sorridergli, ma vorrei urlare. Lui annuisce e riprende i remi. Ho
come l'impressione che il tempo dentro quella sala sia diverso da
quello sulla barca, ma non ne sono sicura e non glielo chiedo. In
fondo è ancora notte pesta, noto guardando il cielo pieno di
stelle.
È tutto così scuro e buio. Riguardo Michele e lui
altrettanto, come
se sentisse subito il mio sguardo posarsi su di lui. «La vita
è
stata ingiusta con loro, eh?», gli chiedo.
«La
gente», risponde e io resto perplessa, «Non la
vita».
«Non
capisco».
«Non
è la vita che accende la guerra, ma la gente. Le persone
fanno
soffrire altre persone», inizia a spiegarmi, «La
gente è un
animale. Un animale che sente l'irrefrenabile bisogno di ricadere
sempre nello stesso errore, o così ci ha insegnato la
storia.
Depreda, uccide, sta male e fa stare male gli altri. Nega la
libertà
e la felicità. Il futuro. La vita non ha a che fare con
tutto
questo: lei si accende per tutti allo stesso modo, poi è la
gente
che decide come metterle fine, a volte. La propria e, si sa, capita,
anche quella di altri».
Io smetto di
guardarlo. Mi giro, ricerco le onde. Sono alte e
potrebbero colpirci da un attimo all'altro, eppure non ho paura,
forse perché nemmeno lui ne ha. È così
fermo e sicuro di sé, come
se avesse fatto questo tante altre tantissime volte. Al contrario, io
non avrei mai pensato di poter fare un viaggio simile. Un altro
sì,
ma questo mai. Lui si ferma ancora e un onda ci sposta, come se fosse
stato da programma, così Michele si affaccia e tende una
mano. Un
altro bambino, più grande. Ringrazia e scende nella botola.
Aiuta
altre due ragazze e un ragazzo, e poi un uomo, che sembra cercare
qualcuno. Stava per ricadere in mare ma Michele lo ferma appena in
tempo e io l'aiuto.
«Cosa
cerca?», gli urlo.
Lui si gira verso di
me con il viso rigato di lacrime e piegato verso
il basso in cenno di dolore, talmente che mi sentii persa.
«Non lo
so, ma… ma, ma, ma era con me… era-»,
si blocca, continuando a
balbettare e a mostrare il gesto dell'abbraccio, con disperazione,
«Era… era qui, con me… Non lo
so».
Michele gli apre la
botola e lo intima a scendere, ma è troppo
agitato, troppo disperato per accettare, così io lo convinco
a
chiuderla e a lasciarlo seduto accanto a me, in attesa che ritrovi
ciò che ha perduto. O meglio, chi ha perduto. Lo abbraccio,
mentre
Michele riprende in mano i suoi remi e un'onda ci solleva. Il cielo
inizia a tuonare e lo guardo, insieme all'uomo al mio fianco.
Così
gli sorrido, ma lui non ricambia: la sua concentrazione è
alle onde,
al mare. «Forse chi cerca si trova già qui con
noi, di sotto», gli
faccio notare. Lui mi ascolta con difficoltà e solo scuote
la testa.
«Non lo sa, se non prova a guardare. Poi può
tornare qui a sedersi,
se vuole». Mi scuote ancora la testa e serro le labbra.
«Non
è qui», mi risponde dopo attimi di ritardo,
«Non è qui.
I-Io lo sentirei, se fosse qui». Lo stringo nelle spalle e
guardo
Michele, che ricambia come al solito.
Recuperiamo un altro
gruppo di persone molto numeroso, erano tutti
vicini, e scendono tutti nella botola. Ci muoviamo e ne recuperiamo
altri, tanti bambini e bambine. Mi sale l'ansia e mi reggo i capelli,
perché non ne posso più. Sono troppi, sono sempre
di più, sono
tutti persi, andati, vittime di altri. Io lo so perché erano
in
mare. Prima, intendo. Lo so, lo so. So cosa li ha spinti a imbarcarsi
e a richiare la loro vita. Ha ragione Michele e solo ora capisco
appieno le sue parole. L'incertezza della morte è meglio
della
certezza della morte. Non potevano restare dov'erano. La gente ha
svuotato le loro terre, ha dato armi in mano ad altri che hanno
iniziato a distruggere tutto, e infine ha rifiutato loro, che erano
rimasti senza futuro né una casa. L'imbarco era la loro
ultima
scelta. Recuperiamo un'altra ragazza e l'aiuto a scendere nella
botola. L'uomo al mio fianco ancora non si rassegna e andiamo avanti,
con un altro consulto alla bussola.
Mi guardo attorno in quel nero buio della disperazione. Anche se sto
aiutando Michele e tirare fuori dall'acqua una donna, io ho iniziato
a distrarmi. Comincio a dubitare della mia scelta di volerlo aiutare.
Forse ho sbagliato a volermi unire a lui, in fondo non ha di certo
bisogno di me.
«L'hai fatto
tante volte, eh?», gli chiedo. Lui questa volta non mi
sorride e mi spiazza.
«Tante.
Già. Sempre troppe», si ferma, per rimettere in
acqua la
sua mano.
Lo aiuto e poi guardo
di nuovo l'orizzonte. C'è qualcosa in acqua,
in lontananza, ma non sembra una persona: è inanimato,
immobile, di
legno. Ci avviciniamo e vedo che si tratta del pezzo di una vecchia
imbarcazione. I ricordi riaffiorano come in un flashback, senza
invito: il mare alto e gonfio mi pizzicava la pelle e istintivamente
me la reggo. C'era un vento molto forte, molto più di quello
che ora
tenta di soffiarmi il viso. Mi porto di nuovo indietro i capelli,
scoprendo che non ce n'era bisogno, perché erano esattamente
dove li
avevo sistemati l'ultima volta. Forse ho mal di testa, dopotutto sono
così stanca. Mi distraggo e aiuto il giovane a recuperare
qualcun
altro, un'altra donna. Appena mi vede, lei piega le sue labbra viola
e mi sorride, ma io non ci riesco: ha il pancione. Mi rifiuto di
farla scendere da sola, così l'aiuto a calare nella botola,
dietro
di lei, lasciando Michele e quell'uomo da soli.
Come arriviamo, noto
che la sala è diventata molto più grande
dell'ultima volta, ma non ci do troppo peso, ho altro per la testa.
Aiuto la donna a sedersi su un lettino e mi inginocchio davanti a
lei, tastando il pancione freddo. Nessun movimento. Cosa mi
aspettavo? Eppure lei mi sorride. Io la guardo e, in effetti, mi
sembra di averla già vista.
«Lei mi
conosce?», le chiedo e lei annuisce. Sarebbe la prima a
ricordarsi qualcosa. Mi accarezza una guancia e il suo sguardo si
contrae, iniziando a piangere con silenzio; senza smettere di
guardarmi, e di sorridermi. «Non lo faccia». Mi
esce di scatto, ma
capisco che è la cosa più stupida che potessi
dire. Mi giro e vedo
solo tanto vuoto. I bambini alzano i giocattoli in alto ma nessuno di
loro ride o emette un fiato. I ragazzi stanno in disparte a sguardo
basso. Altri si guardano addosso per vedere cosa manca. I
più
disperati stanno da soli, sdraiati, a fissare il soffitto.
Perché
non dovrebbe piangere? Il bimbo che porta in grembo è morto.
È
morto proprio come lei. Proprio come tutti loro. La guardo ancora e
sento il suo dolore. Lo sento perché è anche il
mio.
La rivedo, era seduta
sulla sua imbarcazione. Ci stava appena, la
schiacciavano, non respirava. Erano troppi, lì sopra.
L'avevo notata
solo perché qualcuno si era spostato. Un secondo, forse
meno, prima
che la coprissero ancora. C'ero anch'io, quando la loro nave
affondò.
Risalgo la botola,
quando la donna pensò di sdraiarsi un po' sul
lettino e vedo tanta altra gente scendere. Mi domando a che punto del
viaggio siamo. Michele mi guarda subito, l'uomo invece neanche si
gira. Mi risiedo accanto a lui dov'ero prima e attiro la sua
attenzione. «Forse chi cerca non è qui, ha
ragione. Forse è già
sulla terraferma».
Lo sguardo dell'uomo
si riempe di speranza e, improvvisamente, ride,
annuendo. Si frega le mani sulla barba incolta e continua a ridere,
dondolando sul posto. Io non riesco a trattenere un sorriso,
guardandolo.
«Sì»,
mi risponde, «Ecco perché non lo sento. Lu-Lui
è lì»,
seguo il suo dito pallido e vedo che indica la costa, «Lui
è lì»,
ripete, toccandosi il petto. Fa di nuovo il gesto dell'abbraccio e
ora lo ricordo, ricordo tutto.
«Alì»,
gli dico, «Alì era sulla mia nave. È
sulla terraferma,
adesso».
Lui annuisce e con
gioia mi abbraccia. Michele ci guarda con la coda
dell'occhio e fa salire a bordo altre due persone, aprendo la botola.
Anche l'uomo così si alza e la raggiunge, guardandomi con
fare
commosso. «Alì era…».
«Suo
figlio», rispondo.
«Mio
figlio», ripete, abbracciandosi e sorridendo. Scende e io
resto di nuovo sola con Michele.
«Ecco
perché sei voluta venire ma non riesci a sopportare questo
viaggio», mi dice il ragazzo. Io non rispondo.
Recuperiamo altre
persone. Dieci, venti, trenta. Il viaggio della
sperazna era diventato un viaggio della morte per tanti di loro, la
maggior parte. Michele ed io li stiamo recuperando, ma i corpi
restano. Diventano il cibo dei pesci. Il dolore e il ricordo di chi
resta, di chi a cui importa. L'indifferenza degli altri, o le parole
vuote, irrispettose, verso chi il cui unico sbaglio è
cercare di
vivere. Poi il viaggio finisce. Finalmente. Michele decide di
ritornare al porto, dopo aver guardato la sua bussola con attenzione.
Il ritorno sembra durare meno e ci avviciniamo in fretta, nonostante
il vento e il mare contrario, e la lentezza del giovane a remare. La
luna è ancora alta e tanto grande; rapisce il mio sguardo.
Quando
attracchiamo, Michele apre la botola e grida a tutti di uscire,
così
in fila indiana si fermano davanti alla piccola imbarcazione e mi
sembrano ancora di più, tanto che non saprei contarli.
Nessuno cerca
di scappare, o di allontanarsi, nemmeno i bambini. Si guardano
attorno con curiosità, ma sembrava sufficiente e a me
struggeva il
cuore.
Dopo aver aiutato
tutti a uscire, anche Michele ed io lasciamo la
barca e ci guardiamo per un attimo. Così lui si gira,
attirando
l'attenzione di tutti: «Un pullman arriverà a
breve per portarvi al
sicuro. Solo un attimo di pazienza». Nessuno sembrava pronto
a fare
scenate, eppure il ragazzo pareva essersi premunito di dirlo lo
stesso: forse, nei suoi precedenti viaggi, altri avevano provato ad
andarsene per conto proprio, penso. Controlla tutti con un veloce
sguardo, forse per assicurarsi di non averne dimenticato, in seguito
lo posa su di me, sorridendomi ancora. «Mi sei stata
d'aiuto», mi
dice, «Grazie. Mi piacerebbe che mi aiutassi ancora nel loro
ultimo
viaggio, andando con loro sull'autobus».
No. No. Non posso.
Sono stata via anche tanto. Sono stata contenta di
averlo aiutato, ma adesso era troppo. «No. Non è
che non voglia
aiutarti, o aiutare loro, ma devo tornare a casa. È
veramente tanto
tardi».
Lui prende respiro e
annuisce dopo un attimo di indecisione. «Va
bene», mi dice, proprio come quando mi rifiutati di
rivelargli il
mio nome.
Mi allontano ma
continuo a girarmi verso di loro, vedendo che una
ragazza si avvicina e comincia a parlare con le persone recuperate
dal mare. Immagino sia qualcuna arrivata ad aiutarlo, o forse
è
l'autista dell'autobus. Ma in fondo non mi interessa. Il mio turno di
lavoro è finito, devo tornare a casa. A casa. Mi ricordo
dove abito?
Mi fermo. Mi giro verso di loro e trovo Michele che mi guarda. L'ha
capito. Forse l'ha sempre saputo, dal primo sguardo. Forse per questo
non è mai entrato nella botola: non può. Ma non
ci riesco e così
riprendo a camminare, finché non sento delle voci conosciute
e corro
verso di loro. Entro in un vicolo buio e continuo a seguire quel
basso chiacchiericcio, che mi porta a un altro vicolo e a una strada,
un'altra ancora, fino a una porta aperta e luminosa. La seguo. Mi
avvicino e mi fermo. Guardo oltre la finestra e decido di restare
lì,
a guardare all'interno.
«Non
può stare qui», dice una voce maschile e alzo lo
sguardo
verso di essa. Lo riconosco subito, è il parroco, entrato in
quel
momento da una stanza. Tutti piangono, ma non lui. «Il suo
posto è
in obitorio. È notte, è una tragedia, lo capisco,
ma non può stare
su un divano. Non si risveglierà».
Io annuisco. Mi
è sempre stato antipatico, ma ha ragione.
«Non ti
risveglierai». La sua voce in verità non mi
spaventa.
Michele non è qui oggi solo per loro, ma anche per me. Si
avvicina a
me e guarda oltre la finestra la me stesa sul divano, inerme, ancora
bagnata, vuota. «Ti ricordi cos'è
successo?», mi chiede.
«Mi chiamo
Valeria», sussurro, «Adesso posso
risponderti». Guardo
la me sul divano e mi porto indietro i capelli perché ne ha
qualcuno
sul viso e mi dà fastidio, anche se non si sono mossi,
dall'ultima
volta che ho provato a farlo.
Ero caduta in mare.
Non ci avevano dato l'autorizzazione di partire,
il mare era troppo mosso e il vento non accennava a calmarsi, ma
quell'imbarcazione si stava avvicinando alle nostre coste e sarebbero
morti tutti. Siamo partiti lo stesso. La bandiera alta con la croce
rossa. Eravamo fieri di fare la cosa giusta e sono sicura di averla
fatta davvero. Io non ero là fuori per recuperare persone
prive di
vita; ero là per dare loro una vera speranza su cui contare.
Siamo
arrivati vicini, loro imbarcavano acqua e molti sono saltati fra le
onde per farsi aiutare, per nuotarci incontro. I miei amici ed io li
abbiamo soccorsi immediatamente, li abbiamo fatti salire sulla nostra
nave e abbiamo cercato di non perderli di vista, perché era
molto
buio e le onde del mare ci buttavano giù di continuo o ci
pizzicavano la pelle con i loro schizzi. Con quel freddo, sembravano
lame. Un mio amico vide un uomo con un bambino in braccio e
cercò di
aiutarlo; prese il piccolo e lo tirò dentro, così
un altro lo
sistemò sulla nave, mentre lui tentava di afferrare il
padre. Lo
prese, ma le loro mani erano bagnate e le onde continuavano a
spostarli, non era facile. Io mi ero avvicinata al piccolo e mi tolsi
il giubbotto di salvataggio, mettendolo addosso a lui. Non gli stava,
ma potevo allacciarlo. «No, Vale», mi
gridò un'amica, «Non
toglierlo! Non toglierlo mai». La convinsi a lasciarlo al
bambino
perché sicuramente non sapeva nuotare e io sì;
funzionò, anche se
sapevamo entrambe che se fossi caduta in acqua, il saper nuotare non
mi avrebbe aiutato. Mi girai di nuovo verso il mio amico ma non
riusciva a recuperare il padre, che continuava a ripetere
continuamente il nome del suo piccolo. Alì. Lo aveva stretto
fra le
braccia per tutto quel tempo, tenendolo lontano dall'acqua. Le mani
scivolarono e l'uomo cadde indietro, addosso ad altri, che lo
spinsero giù, pur di salvarsi. Il mio amico
gridò, ma nessuno di
loro era più riuscito a vederlo. Io mi girai da una parte
all'altra
della nave e presi il mio pacchetto di fazzoletti dalla tasca dei
jeans, passandone a tutti per asciugarsi l'acqua dagli occhi. Erano
fini e si rompevano facilmente, ma erano l'unica cosa che aiutava
almeno un pochino. Fui felice che il mio naso non avesse smesso per
tutto quel tempo di darmi prurito, o li avrei sicuramente lasciati a
casa. Mi accostai di nuovo verso l'altra imbarcazione, aiutando chi
era riuscito a salire, e mi fermai. Fu allora che vidi la donna
incinta. Gridai al mio amico che stavo per saltare sulla loro nave ma
non voleva e mi bloccò, così gridai ad altri da
quella parte di
farla avvicinare. Dopo tanto parlare senza trovare ascolto, un uomo
mi aiutò, reggendola. La donna si teneva la pancia. Il suo
sguardo
incrociò il mio e vidi la sua paura. Tesi la mano per
prenderla e
altri mi aiutarono, ma dall'altra parte la foga di salvarsi era tanta
e la donna restò indietro, così mi sporsi. Mi
sporsi troppo. Dovevo
prenderla, dovevo salvare lei e suo figlio, dovevo farcela. Scivolai
e caddi in acqua. Freddo. Non un freddo normale, ma insopportabile,
gelido. Ebbi subito paura. Li sentii gridare il mio nome
perché
tornai a galla di colpo, tentavo di riprendere fiato, ma l'acqua mi
buttava e spingeva a fondo. Non ce la facevo. Era forte. La corrente
continuava a farmi sbattere. Vidi la mano di alcuni miei amici e
cercai di prenderne almeno una. Sono sicura che uno di loro
tentò di
buttarsi in acqua, perché lo sentii, ma non lo vidi. Forse
era
distante. Forse ero io quella distante. Ricordo solo di aver visto
altri cadere a fondo con me. No, forse era solo una sensazione.
Sapevo di non essere sola, ma era tutto troppo nero per vederli.
Tentai di farmi forza, finché non sbattei la testa contro
qualcosa e
poi tutto si fece ancora più nero, e il silenzio mi involse.
«Non sapevo
di essere morta. Ricordo di aver nuotato e di essere
salita in superficie. Qualcosa mi attraeva e così ho provato
a
seguirla».
«Il tuo
corpo», mi dice Michele, senza guardarmi, «Hai una
connessione con esso se sei morta da poco», mi spiega e io
annisco.
Ha senso.
«Adesso
capisco cosa hanno recuperato dall'acqua», rispondo.
«Io
sono risalita da sola sulla nave e mi sono seduta, non ci ho badato.
Ho seguito il mio corpo fino allo sbarco. Sono rimasta a pensare, non
capivo perché non riuscivo a ricordare, non sapevo chi
ero».
«Tipico di
chi è morto in circostanze terribili», aggiunge
ancora
e io lo guardo. «Quando mi hai visto, sei accorsa per
aiutarmi: ecco
chi eri», sorride, «Non riuscivi a sopportare quel
viaggio perché
io recupero i morti, tu volevi salvare i vivi».
«Se non
fossi venuta io da te, dopo il tuo viaggio, mi saresti
venuto a cercare?», gli chiedo, con curiosità.
Michele mi fa vedere
la sua bussola e noto l'ago puntato su di me.
Così sorrido. «Direi di sì».
Entrambi ci giriamo di
nuovo a guardare il mio corpo steso su quel
divano, fra la gente che piange e si dispera. Li riconosco tutti, ma
non riesco a pensare di salutarli un'ultima volta. Non mi vedrebbero
e mi spezzerebbe il cuore. Michele mi poggia una mano sulla spalla
come se avesse intuito i miei pensieri. Lo apprezzo.
«Ma tu chi
sei?». Non posso fare a meno di porgli quella domanda e
lui mi prende fra le braccia, così iniziamo a camminare.
«Alcuni mi
chiamano La Morte. Altri addirittura L'Angelo della
Morte, ma ho ben poco di angelico. E se te lo stai chiedendo, sono
vivo. Ho solo un lavoro ingrato».
Ritorniamo al porto e
il pullman è fermo, è lunghissimo, e sta
caricando tutti. Quello sarebbe stato anche il mio ultimo viaggio. Ho
paura. Michele mi guida fino a esso, mano nella mano. Quando ci
fermiamo, lo guardo un'ultima volta e così mi fissa anche
lui, come
sempre. «Non credo che il tuo lavoro sia poi così
ingrato. Sorridi,
credo che ti piaccia aiutarli-», mi fermo, per correggermi,
«aiutarci. Entrambi facciamo del nostro
meglio. Nel mio caso,
facevo».
Mi sorride un'ultima
volta e così mi lascia andare. Con malinconia,
prendo la mano della donna incinta e salgo sull'autous, guardando il
porto e l'orizzonte per l'ultima volta. Ho paura, ma lei si guarda il
pancione e sorridiamo, insieme.
Magari non rende
“giustizia” alla causa. Magari non è
“all'altezza” e magari non è accurata, o
troppo realistica, o
non tocca i punti giusti, o… non lo so, aggiungete voi. Ma
è il
mio sfogo. Dopo i pianti per le foto della gente morta in mare, dei
bambini arrivati sulla spiaggia, dopo due notti che sognavo qualcosa
che me lo ricordava, dopo aver letto e sentito ancora discorsi
razzisti, ecco il mio sfogo.
Grazie per aver letto fin qui!
A presto.
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