Αθάνατος
(Athanatos)
Pou ine o
Megalexandros?
Zi ke
vasilevi
Dov’è
Alessandro il Grande?
Vive e regna
[Canto dei pescatori
dell’isola di Lesbo]
In una fredda mattina di
gennaio le strade di Parigi
appaiono livide e inzuppate di pioggia, il cielo una cappa grigia che
si
riflette a sprazzi sull’asfalto bagnato.
Sottoterra, i pendolari si accalcano come una marea
vociante al margine dei binari, in attesa del treno. Una figura
imbacuccata in
un impermeabile si fa scivolare la sciarpa attorno al collo, e intanto
getta
un’occhiata distratta ai monitor appesi al soffitto.
Un refolo di vento caldo corre lungo il tunnel anticipando
l’arrivo del treno che, qualche istante dopo, si arresta con
un sibilo davanti
alla piattaforma. Il convoglio è pieno, ma i passeggeri
provano lo stesso a
forzare le porte, spintonando e imprecando.
Alain Moreau – da alcuni conosciuto come Hydarnes –
fa un
passo indietro. “Dopo duemilacinquecento anni, suppongo di
poter attendere il
prossimo treno,” mormora, mentre osserva un gruppo di ragazzi
tentare un ultimo
assalto ai vagoni. I finestrini del treno sono appannati; un passeggero
all’interno
solleva una mano per pulire la condensa. Il suo volto appare nel
riquadro del
finestrino: una fugace visione di capelli chiari e bei lineamenti.
Alain ha un sussulto; comincia a farsi strada tra la
folla, nel tentativo di avvicinarsi. “Excusez-moi!”
grida, spingendo via la gente, “laissez-moi
passer!”
Il treno inizia a muoversi e Alain si mette a correre.
Raggiunge il limitare della piattaforma e prende a battere contro il
finestrino, ma l’uomo dietro il vetro ha riabbassato il viso
e si è voltato dall’altra
parte. Mentre il treno acquista velocità Alain continua a
picchiare i pugni
contro il vetro, fin quando non è costretto a rallentare e a
fermarsi contro la
spalletta di cemento della galleria. Sbatte i palmi contro il muro e
abbassa la
testa, grugnendo di frustrazione.
Il tunnel è vuoto. Solo vento e oscurità.
L’impermeabile gli
sbatte contro i fianchi come un paio di ali flaccide. Alain fissa gli
occhi nel
cono di buio, poi li chiude. “Alekos…”
sussurra, la voce che sembra rompersi, e
per un attimo si chiede se non sia il suo cuore che sta andando in
pezzi.
La liuteria di Antonio è in uno scantinato cui si accede
da un minuscolo vicolo di Place du Tertre, a pochi metri dalla fermata
Abbesses.
Alain vi arriva fradicio di pioggia e scosso dai brividi.
Si infila nello stretto andito che si apre sulla strada, e poi
giù lungo i
gradini sconnessi fino all’ampio locale dal pavimento in
terra battuta. Si
toglie l’impermeabile e lo poggia su una sedia, mentre
inspira il familiare profumo
di legno e vernici. Le strette finestre a livello della strada fanno
filtrare
una lama di luce polverosa, che accende di riflessi dorati le casse
armoniche
dei violini appesi alle pareti. Addossati al muro, bidoni pieni di
cenere,
silice e carbone spandono una mistura di odori che stordisce.
Alain si avvicina a uno degli strumenti e vi fa scorrere
le dita, godendo delle morbide curve e della consistenza liscia del
legno, riempiendosi
gli occhi dei castani profondi e del miele scuro della tavola armonica
e del
filetto. Con delicatezza, capovolge il violino e sfiora il cartiglio
dorato
attaccato sul retro. Antonius Stradivarius Cremonensis
faciebat anno MMXV –
è scritto sulla targa; Alain lo legge a
bassa voce, senza trattenere un sospiro.
Si volta in
tempo per vedere Antonio emergere dalle ombre del laboratorio. Si sta
slacciando il grembiule sporco di vernice e, dall’espressione
che gli legge sul
volto, sembra felice di vederlo.
“Ti aspettavo
un’ora fa, Hydarnes.”
Alain lascia
andare il violino, che si riadagia contro la parete con un tonfo
leggero. “Dovresti
smetterla di attaccare queste targhe sui tuoi violini.”
Antonio alza le
spalle e fa scivolare il grembiule dentro un baule pieno di panni
sporchi. “Le
metto solo sugli strumenti destinati a pochi clienti
selezionati,” dice con un
sorriso, mentre si rassetta i vestiti. “O dovrei scriverci
sopra made in
China, secondo te?”
Alain si
accarezza i corti ricci castani della barba, bagnandosi le dita con le
gocce
rimaste impigliate nella peluria. “Un giorno o
l’altro ti farai scoprire, e io
non voglio essere lì quando succederà.”
“Sei fradicio,”
lo interrompe Antonio, cambiando discorso. “Siediti, il
tè è quasi pronto.”
Alain si lascia
cadere su un vecchio divano, allungando le gambe sul tavolino di
fronte.
Osserva l’amico trafficare a una piccola cucina a gas, fin
quando non sente il
fischio acuto del bollitore.
Con gesti
rapidi, Antonio versa l’acqua scura in due tazze di
porcellana, prende la
zuccheriera e si avvicina ad Alain, porgendogli il tutto su un vassoio.
Alain sorride, sicuro
di avere intravisto un piccolo inchino. Duecento anni di conoscenza, e
il suo
amico italiano si ostina ancora a fare i convenevoli. Il buonumore dura
un
attimo; un breve lampo di memoria – capelli biondi dietro il
finestrino di un
treno – e il sorriso gli si spegne sulle labbra.
“Che
cos’hai?”
domanda Antonio, le tazze in bilico sul vassoio. “Sembra che
tu abbia visto un
fantasma.”
Alain gli sfila
il vassoio dalle mani e lo appoggia sul tavolino. “Penso di
avere visto
qualcuno, oggi. Qualcuno che non avevo più incontrato da
molto, troppo tempo.”
Si sporge in avanti, avvicina una tazza, prendendola fra le mani.
"… E poi
è scomparso, come ha fatto dopo l’ultima volta che
ci siamo visti.”
Antonio si
accomoda sulla poltrona all’altro lato del tavolino.
“E chi era?”
Le mani di Alain
si stringono attorno alla tazza fino a quando le nocche si sbiancano.
“Aleksandros.”
“Chi?”
Alain deglutisce,
gli occhi persi nel liquido scuro. “Aleksandros di Macedonia.
Aleksandros il
Grande, come lo chiamano ora. Il mio
Aleksandros.” La voce si incrina.
“Più di duemila anni, e sembra solo
ieri.”
L’amico
raddrizza la schiena, un lampo di interesse negli occhi.
“Stai dicendo che
Aleksandros di Macedonia è un Immortale?”
Alain annuisce.
“Oh, sì. Lo è. Per sua eterna e
infinita tragedia.”
L’altro fa un fischio,
poi si porta la tazza alle labbra, prendendo un sorso. “E
perché sarebbe una
tragedia?” domanda, incurvando le labbra in un sorriso.
“Conosco la storia, ma
quello che voglio dire è: perché per lui sarebbe
peggio che per tutti gli altri
come noi?”
Alain sospira;
lascia andare la tazza e si stende all’indietro,
appoggiandosi allo schienale
del divano. “Potrei dire che è stato per i dubbi
costanti sulla sua ascendenza,
o perché non ha potuto avere figli, come nessuno di
noi…” Si porta una mano
alla fronte, premendo le dita contro le sopracciglia.
“… ma la vera ragione è
molto più semplice. La ragione è che lui
è immortale, mentre Hephaistion non lo
era.” Socchiude gli occhi. “Qualche volta, Antonio,
le cose sono orribilmente
semplici.” Sospira di nuovo, mentre si alza dal divano e si
avvicina al tavolo
da lavoro di Antonio. Sopra, giacciono sparsi i pannelli di legno
appena
modellati, pronti per essere intinti nella vernice e nelle resine
vetrose.
Alain li accarezza, senza vederli veramente. I suoi occhi sono persi in
un
tempo e in un luogo lontani.
“Sai, Antonio,
mi ha sempre rattristato pensare a Leonidas, il primo precettore di
Aleksandros. È passato
alla storia come
quello che ha inibito la sua crescita, negandogli il cibo e i vestiti
caldi in
inverno.” Prende tra le mani un mazzetto di crini di cavallo
attaccati al
riccio di un violino, poi li lascia ricadere. “Se fosse stato
più adulto, la
prima volta in cui è morto, probabilmente sarebbe diventato
più alto.”
“Come l’hai
incontrato?” domanda Antonio, la curiosità che gli
brilla negli occhi. “Sei
nato in Persia, e so che la Persia è stata per secoli il
nemico principale dei
greci.”
Alain si
avvicina a una delle strette feritoie che danno sulla strada. Fuori, la
vita
dei mortali continua come sempre in un flusso di volti e di voci
indistinte, una
corrente impetuosa di mesi, anni, secoli anonimi che si accavallano e
si
sciolgono in ricordi a volte confusi, a volte vividi come fotografie
impresse
sulla retina.
“Ero uno dei
diecimila Immortali, la guardia scelta del Grande Re
dell’impero achemenide,”
spiega Alain, gli occhi fissi sulla strada bagnata di pioggia.
“Eravamo
chiamati Immortali perché, se uno di noi moriva, veniva
immediatamente
rimpiazzato. Immagino che, nel mio caso, la definizione avesse una
sfumatura del
tutto diversa.” Si volta nella direzione di Antonio, gli
occhi socchiusi per
riabituarsi alla penombra della stanza. “La prima volta sono
morto alle
Termopili, e ovviamente mi sono riarruolato nei ranghi qualche anno
dopo,
spacciandomi per un mio parente. Ma, all’epoca di
Aleksandros, molti dei miei
compagni avevano cominciato a sospettare qualcosa, ed era solo
questione di
tempo prima che la voce arrivasse alle orecchie del Grande Re.
Così, decisi che
era il momento di lasciare l’impero.” Si appoggia
alla finestra, le braccia
conserte sull’ampio torace. La pelle scura del volto
è segnata dalle cicatrici
di molte battaglie, appena coperte dalla barba che si ostina a portare
acconciata alla maniera persiana, come l’ultima vestigia del
suo passato. “Mi
accodai alla scorta di Artabazos, un satrapo del Grande Re, esiliato in
Macedonia assieme alla sua famiglia,” continua Alain dopo
qualche istante. “A
quei tempi la Macedonia era un minuscolo stato in guerra con le altre
città
dell’Ellade, ma Philippos aveva creato un esercito
formidabile, me ne resi
conto non appena arrivai a Pella, e li vidi combattere.” Si
interrompe; i suoi
occhi si perdono di nuovo in un ricordo remoto. “Aleksandros
era appena un
adolescente, ma aveva già ricevuto l’educazione di
un re e di un guerriero.”
“Com’era?”
Alain sospira,
lasciando ricadere le braccia. “Aveva studiato con
Aristoteles, amava le arti e
la filosofia. Ma viveva per ricalcare le orme del mito
omerico.” Le sue labbra
si distendono in un accenno di sorriso. “C’era come
un fuoco dentro di lui. Una
fiamma che bruciava alta; chiunque gli stesse vicino non poteva far
altro che
venire abbagliato dalla sua luce. Un leone – non saprei come
altro definirlo,
Antonio. So che in lui riconobbi il condottiero che sarebbe diventato,
e giurai
a me stesso che non l’avrei abbandonato.”
“Come l’ha
saputo?” Antonio si piega in avanti appoggiando il mento sui
palmi. “Quello che
era veramente, intendo.”
Alain sorride di
nuovo. “A quei tempi era diverso. Gli Dei… erano
più vicini alle cose degli uomini.
Quando Aleksandros realizzò qual era la sua natura, lo prese
semplicemente come
un dono degli Dei, un segno del loro riguardo nei suoi
confronti.” Il sorriso
sembra morirgli sulle labbra. “Sua madre gli aveva riempito
la testa di storie
su come lui non fosse veramente figlio di Philippos, ma di Zeus in
persona.
Suppongo che questa fosse la conferma che lui si aspettava.”
Si volta di nuovo verso
la finestra, una mano alzata a togliere la polvere depositata sul
vetro. “Aveva
combattuto sin dalla più tenera età. A sedici
anni suo padre lo portò con sé in
battaglia, per conquistare le tribù barbare della Tracia. Fu
lì che ricevette
la sua prima ferita mortale.”
L’interno della pesante tenda da campo era
rischiarato
solo dal fuoco lasciato a bruciare nei tripodi. Nelle altre tende si
udivano i
lamenti flebili dei soldati feriti e, all’esterno, il canto
di coloro che,
ancora vivi, avevano deciso di celebrare la vittoria davanti alle coppe
di vino
puro, alla maniera dei macedoni.
Aleksandros era adagiato sul suo giaciglio; la
profonda ferita all’addome aveva finalmente smesso di
sanguinare, ma le
fasciature erano ancora sporche e avrebbero dovuto essere cambiate.
Hydarnes osservò il suo volto liscio, circondato
dalla
criniera di capelli biondi, e ancora una volta si sorprese a pensare a
quanto
fosse giovane; a quanto i suoi occhi brillassero come lapilli
incandescenti nell’oscurità.
“E così neanche tu sai perché
sono… perché siamo
così.”
La voce di Aleksandros lo distolse dai suoi pensieri.
Per tutto il giorno i soldati l’avevano creduto morto.
Persino suo padre, di
solito così severo nei suoi confronti, non era riuscito a
contenere la gioia,
quando Aleksandros aveva riaperto gli occhi. Erano stati innalzati doni
agli
Dei, nel fuoco dell’olocausto. Poi, avevano parlato a lungo,
lui e Aleksandros.
“No, giovane principe,” rispose Hydarnes.
“Non so
dirti il perché, non più di quanto un uomo
mortale sappia dirti perché nasce. O
perché muore. Perché gli uccelli volino in cielo
e i pesci nuotino in mare.”
“Akhilleus era immortale. Era un figlio degli Dei.
Forse…” Aleksandros sembrò sul punto di
voler aggiungere qualcosa, ma rimase in
silenzio. Akhilleus era da sempre il suo modello, ma Hydarnes non se la
sentì
di dargli la risposta che lui avrebbe voluto sentire.
Un fruscio all’entrata della tenda li fece voltare.
Sulla soglia era fermo un giovane dai capelli scuri. Era più
alto di
Aleksandros e sembrava più adulto, ma a un primo sguardo
avrebbero potuto
essere fratelli. Le stesse fattezze gentili, lo stesso fuoco nello
sguardo.
Il volto del principe si accese in un sorriso che
sembrò rischiarare lo spazio attorno a lui.
“Hephaistion!”
Il nuovo arrivato scambiò una parola con la guardia
all’ingresso, poi richiuse i lembi della tenda e si fece
avanti, ricambiando il
sorriso. “Sono venuto per vedere come stai,
Alekos.” Nella sua voce era
palpabile la preoccupazione, sebbene si stesse sforzando di
nasconderla. Rivolse
un cenno di saluto all’indirizzo di Hydarnes, poi si sedette
sullo sgabello accanto
al giaciglio del principe.
“Sto bene, philè. Gli Dei mi
proteggono,” rispose
Aleksandros, mentre a fatica si metteva seduto. “La
battaglia… non è stata
meravigliosa?" Scrutò l’amico con occhi resi
liquidi dall’eccitazione del
ricordo. “I nostri compagni sono stati magnifici quando hanno
caricato la
cittadella. E anche tu, Hephaistion.” Allungò una
mano a sfiorare quella del
ragazzo. “Prima di essere ferito ti ho visto, e combattevi
come Ares
fiammeggiante, in alto sul tuo cavallo.” Lo guardò
con orgoglio. Hephaistion
ricambiò lo sguardo e, nella sua fierezza, il volto
sembrò risplendere di una
bellezza quasi ultraterrena.
“Devi riposare ora, Alekos.”
“Sì. Ma tu rimani qua.”
Hydarnes si alzò e, in silenzio, si
avviò verso
l’ingresso della tenda. Si volse un attimo prima di uscire; i
due ragazzi
apparivano dimentichi di lui, e di qualunque altra cosa li circondasse.
Guardando le loro mani, intrecciate nella penombra, Hydarnes
ricordò le parole
di Aleksandros, a proposito degli insegnamenti di Aristoteles
sull’amicizia:
‘gli uomini in origine sono nati interi, poi sono stati
divisi,’ gli aveva
detto. ‘Solo la vera amicizia può riunire le due
metà, rendendo l’anima di un
uomo nuovamente integra.’
Hydarnes se ne andò senza parlare, richiudendo la
tenda dietro di sé.
“Era il figlio
di uno dei nobili più vicini a Philippos,”
continua Alain, gli occhi velati dal
ricordo, “lui e Aleksandros erano cresciuti insieme. Un
giovane coraggioso, che
in seguito divenne uno dei suoi generali più fedeli e poi
chiliarca del suo
impero.” Fa cenno ad Antonio di tacere. “No.
Aleksandros non l’ha mai favorito,
se è quello che stavi per chiedermi. Hephaistion
è arrivato dov’è arrivato solo
grazie ai suoi meriti.” Di nuovo un accenno di sorriso,
mentre si allontana
dalla finestra e si riavvicina all’amico. “Dopo la
sua morte, in molti hanno
tentato di screditarlo. In fin dei conti non era rimasto nessuno che
potesse
difenderne la memoria. Ma io c’ero, Antonio, e posso
testimoniare la verità.” Si
siede di nuovo sul divano. Afferra la tazza, che è diventata
fredda. La lascia
andare con una smorfia. “Aleksandros aveva
vent’anni quando suo padre venne
ucciso, e lui divenne Egemone di tutta l’Ellade.”
Una risata roca gli sfugge
dalle labbra. “Tutte le città-stato credettero di
potersi liberare facilmente
di questo giovane barbaro delle montagne. Ah, se si
sbagliavano.”
Alza il viso,
fissando le macchie d’umidità sul soffitto.
“Il piccolo leone rase al suolo
Tebe e ridusse Atene al silenzio. Poi, volse gli occhi là
dove il suo desiderio
bruciava più forte: il grande impero persiano, con i suoi
confini che si
estendevano fin dove nessuno si era mai spinto. La motivazione data al
suo
esercito era vendicare i torti secolari subiti per mano degli
achemenidi, ma io
so che le ragioni che lo muovevano erano altre.” Abbassa gli
occhi,
l’espressione assorta. “Aleksandros voleva vedere;
le terre descritte
dai filosofi, le grandi pianure e le montagne che toccano il cielo, i
deserti
infuocati e il grande mare accerchiante, alla fine del mondo, dove si
diceva
che camminassero animali enormi, con grandi orecchie e nasi
lunghissimi. Era un
esploratore, Antonio. Era un sognatore, e so che lo sarà
sempre.”
“La Storia ci
dice che raggiunse il suo scopo,” risponde Antonio,
affascinato.
Alain annuisce.
“Attraversò l’Ellesponto due anni
più tardi e, dopo, nulla e nessuno fu in
grado di fermarlo.” Fa scorrere le dita sui pantaloni di tela
ruvida, poi
stringe le mani a pugno. “Sulla piana di Troia, Aleksandros e
Hephaistion
resero omaggio alle tombe degli eroi, deponendo corone
d’alloro nel luogo del
riposo di Akhilleus e Patroklos. Fu allora che resero pubblico il loro
legame.”
“Erano amanti?”
“Nessuno lo sa
per certo, e a quei tempi sarebbe stato normale,” risponde
Alain, sciogliendo i
pugni e lasciando ricadere le mani lungo le cosce, “ma erano
molto più di
questo. Guardandoli insieme si sarebbe data ragione al filosofo, quando
parlava
dell’amicizia.” Un sorriso tenero gli incurva le
labbra. “Erano l’uno parte
dell’altro. In tutta la mia lunga vita non ho più
visto un legame del genere
tra due esseri umani. La stessa anima, divisa in due corpi.”
La battaglia si era conclusa da qualche ora; la piana
di Isso era ricoperta dai cadaveri dei soldati persiani, e da molti
degli
opliti macedoni. Aleksandros aveva dato ordine di seppellire i corpi
prima che
i corvi iniziassero a pasteggiare. Il Grande Re Darios, sul suo cocchio
dorato,
era fuggito con quel che restava dei suoi centomila uomini, ritirandosi
dietro
le porte caspiche, e si era lasciato dietro il suo harem, sua moglie,
sua madre
e le sue figlie, alla completa mercé degli invasori. Forse,
in quel momento, si
stava chiedendo come avesse fatto, quel giovane barbaro con
l’elmo di Medusa, a
cacciarlo via come un cane randagio alle porte del suo palazzo.
La grande tenda svettava come una torre purpurea
ricoperta di seta e broccati. Nessuno sbarrò la strada al Re
quando varcò la
soglia, accompagnato da Hydarnes, da Hephaistion e da alcuni dei suoi
uomini.
L’interno era l’incarnazione di un sogno,
per occhi
che avevano da sempre vissuto nella più assoluta
austerità: profumi di incenso,
sandalo e gomme arabiche che bruciavano nei tripodi, suppellettili di
oro
finissimo, legni pregiati provenienti da ogni angolo del mondo,
tendaggi delle
stoffe più preziose, il collo delle donne adornato di
gioielli di bellezza
inimmaginabile.
Gli occhi di Aleksandros, ancora sporco dopo la
battaglia, sembrarono sciogliersi a quella visione. Per la prima volta
assaggiava lo splendore del mondo che era venuto a conquistare.
Due ancelle si fecero avanti, scortando una donna
velata. Hydarnes si inchinò, presentandosi nella sua lingua
madre. “Mia regina,
sono qua per portarti il messaggio del Re dei macedoni e di tutti gli
elleni,”
disse con rispetto.
La madre di Darios si prosternò a terra, alla
maniera
della sua gente. Era anziana e le ancelle dovettero aiutarla, ma si
inchinò con
una grazia che pareva impossibile per una donna della sua
età.
“Il Re desidera che si sappia che né a
te, né alle tue
figlie, verrà fatto alcun male,”
continuò Hydarnes. “Verrete trattate secondo il
vostro rango, con il rispetto che vi è dovuto. Il Re
è qui per darvi la sua
parola.”
La regina Sisigambis alzò il volto, i suoi occhi
erano
pozze scure dietro il velo di morbida seta. Sempre in ginocchio si
avvicinò a
Hephaistion, e gli rivolse un cenno di ringraziamento.
Gli uomini presenti – macedoni e persiani
–
trattennero il respiro. Per una donna persiana era naturale credere che
l’uomo
più alto e più bello fosse il Re, ed era un
errore che in Persia sarebbe stato
punito con la morte. Quando Sisigambis si rese conto dello scambio
abbassò il
volto, ritraendosi. Sembrò farsi piccola nelle vesti, mentre
si preparava a
ricevere il castigo.
Aleksandros scambiò uno sguardo con Hephaistion;
per
un istante i due si sorrisero – uno dei loro sorrisi segreti,
che più volte
Hydarnes aveva avuto modo di scorgere – poi si
inchinò davanti alla regina e le
prese la mano, aiutandola a rialzarsi. “Non hai sbagliato,
madre,” le disse
nella sua lingua, mentre la regina sollevava lo sguardo su di lui.
“Perché
anche lui è Aleksandros.”
“Dopo Isso,
Aleksandros si rivolse a sud prima di sferrare l’attacco
decisivo all’esercito
di Darios,” riprende a raccontare Alain, tornando al presente
con un sussulto.
“Credo che volesse fargli gustare il sapore della sconfitta
anche se, nel
profondo, forse credeva che solo in Egitto avrebbe avuto le risposte
che
cercava.”
Antonio, un violino
tra le mani, gli fa cenno di continuare. Le sue dita prendono a
pizzicare le corde,
producendo un suono sottile e armonioso.
Alain sorride al
suono dello strumento, poi riprende il suo racconto: “La
terra dei faraoni lo
accolse come un salvatore, non fu sparsa una goccia di sangue.
Aleksandros
onorò la loro accoglienza, come faceva sempre di fronte a
coloro che gli
dimostravano lealtà.” Inclina il volto per seguire
il movimento delle dita di
Antonio. “Ma era l’oracolo di Ammon quello che
davvero gli interessava.
L’oracolo che lo proclamò figlio di
Zeus.”
Le dune del deserto erano sfiorate dal vento, che
portava con sé i profumi umidi dell’oasi. Siwa era
un gioiello di verde e di
azzurro nella macchia infuocata che la racchiudeva come una perla
cresciuta
nella sabbia. I compagni di Aleksandros erano schierati
all’esterno, in attesa
che l’oracolo parlasse.
Quando il Re uscì dal tempio, circondato dai canti
dei
preti e dal dolce muggito dei buoi attaccati alla barca del sole, i
suoi occhi
sembrarono accecati dalla luce. Hydarnes non avrebbe saputo dire se
quella luce
provenisse da lui o fosse attorno a lui, ma seppe per certo di chi era
lo
sguardo che Aleksandros cercò per primo. Si voltò
verso Hephaistion, e vide
l’orgoglio e l’amore negli occhi del suo compagno.
Quella notte, sdraiati sotto le stelle dell’oasi,
Hydarnes si rivolse al Re come era solito fare con il giovane principe
che un
tempo era stato.
“Hai avuto le tue risposte, mio Re?”
Le braccia dietro la nuca, gli occhi rivolti alle
stelle, Aleksandros si prese alcuni istanti per rispondere.
“Che sono la
progenie vivente di Ammon-Ra, il figlio di Zeus? Immagino che questo
possa
spiegare molte cose.”
Hydarnes non ebbe cuore di obiettare che quello non
spiegava lui, né tutti quelli come lui. Aleksandros aveva
bisogno di credere in
qualcosa – di credere che la sua strada fosse segnata dal
volere degli Dei, nei
quali riponeva tutta la sua fiducia. Ma c’era
qualcos’altro, una domanda
inespressa che premeva sulle sue labbra, facendole contrarre in una
smorfia
dolorosa.
“Credi che anche Hephaistion l’abbia
ricevuto?” Si
voltò verso Hydarnes, gli occhi due pietre chiare che
tremavano nel buio. “Il
dono dell’immortalità.”
“Non l’hai chiesto ai preti, mio
Re?”
Aleksandros scosse la testa. “Voglio sapere cosa ne
pensi tu.”
Dunque era questo ciò che l’aveva turbato
in tutti
quegli anni, rifletté Hydarnes, sentendo il morso della
compassione stringergli
il cuore. Aleksandros era troppo intelligente per non sapere che i
preti gli
avrebbero detto qualunque cosa lui avesse voluto sentire. Era da lui
che
cercava le sue vere risposte.
“Non lo so, mio signore,” rispose in un
sussurro. “Non
lo so più di quanto non lo sappia tu.”
Il Re sospirò, voltandosi di nuovo a guardare le
stelle.
Non dissero più nulla, non ne parlarono mai
più. Ma
Hydarnes sapeva che quel dubbio lo dilaniava, come l’aquila
aveva dilaniato
Prometheos, nutrendosi delle sue viscere sparse sulle rocce.
L’avrebbe divorato
fin quando non avesse avuto la sua risposta, in un modo o
nell’altro.
“Hephaistion
morì, presumo,” dice Antonio, strappando Alain
alle nebbie del ricordo.
L’altro annuisce.
“Dopo tredici anni di campagne, dopo aver visto insieme ogni
orrore e
meraviglia del mondo, Hephaistion si ammalò sulla via del
ritorno. Febbre
tifoide, o così credo.”
China il busto in
avanti, prendendosi la testa tra le mani. “Era giovane, ed
era forte. Per un
po’ sembrò migliorare. Ci trovavamo a Ecbatana,
Aleksandros presenziava ai
giochi che aveva indetto per risollevare l’umore delle
truppe, fiaccate dalla
lunga guerra. Era lì quando giunse la notizia.” Si
passa le mani tra i capelli,
premendo forte i polpastrelli contro le tempie. “Aleksandros
corse come un
pazzo al suo capezzale, ma era tardi. Hephaistion era già
morto.” Un singhiozzo
gli si spezza tra le labbra, subito ricacciato indietro con forza.
“Non ho mai
visto un tale cordoglio in tutta la mia vita e non voglio vederlo mai
più.
Giacque sul corpo per un giorno e una notte, forse sperando che il suo
amico
riaprisse gli occhi. Ma non accadde.”
Antonio smette
di pizzicare il violino e lo poggia a terra. Il rumore dello strumento
contro
il pavimento fa sussultare Alain, che alza lo sguardo umido di lacrime.
Le
asciuga rapido con la manica del maglione, prima di continuare.
“Aleksandros
venne da me, mi porse la sua spada. Mi chiese di prendergli la testa e
poi
bruciare le sue spoglie. Era convinto che questo sarebbe bastato a
dargli la
pace. Nei suoi occhi si consumavano la pazzia e la disperazione che
alla fine
l’avevano raggiunto anche ai confini del mondo.”
“E cos’hai
fatto?” domanda Antonio con un filo di voce.
“Non ho potuto
accontentarlo.” Anche la voce di Alain è un
sussurro. “Era mio amico. Lo amavo,
così come amavo Hephaistion. Non gli tolsi la vita, ma forse
gli ho negato
molto di più. Perché so, Antonio, che la sua
anima – il suo sogno, la sua
visione, la fiamma che l’aveva alimentato in tutti quegli
anni, mentre cambiava
il volto del mondo – sono morti quel giorno.”
Aleksandros era immobile davanti all’enorme pira
funebre. Gli artigiani avevano lavorato per mesi a quella costruzione
colossale
e la struttura svettava verso il cielo come un dito infuocato puntato
contro
gli Dei.
Hydarnes se ne stava in disparte, dietro agli altri
compagni; osservava il suo re compiere l’ultimo passo nella
spirale della sua
pazzia.
La pira era alta più di cento cubiti ed era costata
una fortuna, persino per le ricche casse dell’impero.
Sembrava il parto di un incubo, e forse lo era
davvero: aquile d’oro con le ali spiegate planavano sopra
basilischi di pietra
attorcigliati lungo le colonne; gruppi di cacciatori infilzavano lance
nel
corpo di animali mitologici, mentre una centauromachia si svolgeva
crudele,
alla base della struttura. E poi statue di leoni e di tori, arcieri e
opliti
con le sarisse sguainate, meduse ringhianti, elefanti e cavalli a darsi
battaglia. E in alto, tra le braccia di sirene dalle labbra dischiuse
in un
canto, stava Hephaistion, avvolto nelle fiamme.
Aleksandros fissava il corpo che si consumava nel fuoco,
ma non sembrava davvero vederlo; i suoi occhi erano velati, lo erano
stati fin
dal giorno dei giochi, quando si era accasciato sul cadavere immobile
del suo
amico.
Il suo dolore era apparso eccessivo, persino per un re.
Aveva fatto impiccare il medico e raso al suolo i templi di Asklepios,
patrono
della salute. Le criniere dei cavalli erano state recise e lui si era
tagliato
i capelli, per poi deporli sulla pira accanto a Hephaistion –
come Akhilleus
aveva fatto per Patroklos.
Solo pochi giorni prima si era gettato in una spedizione
selvaggia nelle terre dei Cossiani, ritornando coperto di sangue e con
le teste
dei suoi nemici da offrire come sacrificio sul cammino di Hephaistion
verso le
ombre. E, nel gesto più disperato, aveva inviato
un’ambasciata a Siwa, con la
richiesta che Hephaistion fosse riconosciuto come eroe divino.
A Hydarnes mancò il respiro. Aleksandros pensava e
credeva come un elleno. Voleva essere certo che, se la sua vita fosse
terminata, avrebbe potuto rincontrarlo nell’aldilà.
Strinse gli occhi, accecato dal bagliore. Aleksandros
era così immobile che sembrava essersi trasformato in una
statua. E per un
attimo, con gli occhi della mente, Hydarnes fu certo di vedere le sue
ali che,
in silenzio, si chiudevano per sempre.
“Non potei
sopportarlo,” continua Alain, la voce resa incerta dal
dolore, “mi sembrava che
la mia immortalità fosse un insulto alla memoria di
Hephaistion. Così, mentre
Aleksandros affogava nel suo cordoglio, me ne andai.”
Antonio scuote
la testa, senza parlare. Alain non gli presta attenzione e continua:
“vagabondai a lungo, neanche mi ricordo dove. Il mondo non
aveva fretta, il
tempo non rivestiva alcuna importanza per me. Era più facile
sparire a
quell’epoca.” Si alza con uno scatto e si avvicina
alla sedia su cui ha lasciato
cadere l’impermeabile. “Non ricordo quando e dove
sentii che Aleksandros era
morto. All’inizio non ci credetti. Pensai che qualcuno
potesse avergli davvero
tagliato la testa, le battaglie erano feroci a quei tempi. Ma poi
sentii anche
che le cose non erano state così semplici.”
Accarezza la stoffa del soprabito,
fa per afferrarla ma poi la lascia andare. “C’erano
voci di una malattia, di un
qualche tipo di veleno. Mi dissero del suo funerale, di quanto il suo
corpo fosse
sembrato vivo. Del magnifico sarcofago che era
stato creato per lui.”
Alza il viso. Nella penombra della stanza i suoi occhi scintillano come
ferro
brunito. “Allora ne fui certo. Fui sicuro che, semplicemente,
non aveva voluto
più vivere. C’erano modi…
erbe… cose che avevo appreso in Egitto e che
certamente aveva sentito anche lui. Alcuni faraoni hanno dormito
millenni in
questo modo; forse per alcuni rende le cose più
facili.”
Antonio si alza
e raggiunge l’amico. Gli mette una mano sulla spalla. Alain
sussulta al
contatto.
“Continuai a
tenere d’occhio la dinastia di Ptolemaios. Aveva voluto che
Aleksandros
riposasse in Egitto, forse nella speranza che questo validasse la sua
successione
al trono dei faraoni,” continua Alain, immobile sotto la
presa gentile di
Antonio. “Vegliai sulla sua tomba, vidi fondere il sarcofago
per ricavarne oro.
Vidi Cesare Augusto lasciare i suoi stendardi in omaggio alla sua
memoria. E
attesi ancora. Forse fin troppo, perché quando finalmente
aprirono la tomba,
lui se n’era andato.”
Antonio lo
stringe più forte vicino al collo. Alain appoggia la mano
sulla sua. “Oggi,
alla stazione di Bercy, l’ho rivisto. E l’ho
perduto ancora una volta.”
“Che cosa hai
intenzione di fare?”
Alain alza le
spalle. “Che cosa posso fare? L’ho cercato per
duemila anni, lo cercherò per
altri duemila, se necessario.”
“Non è stata
colpa tua,” sussurra Antonio. “Non potevi cambiare
il suo destino, nessuno può
farlo.”
“Lo so,”
risponde Alain, fissando i suoi occhi in quelli del compagno.
“Ma c’è qualcosa
che devo dirgli. Chiedergli scusa per non aver capito allora.”
“Chiedergli
perdono per non avergli preso la testa, quando lui te l’ha
chiesto?”
Alain gli
rivolge un sorriso, che l’amico ricambia. “Sei
perspicace, Stradivari.”
“Se non fossimo
amici, non saremmo qui a fare questa conversazione.”
Alain annuisce. “Aleksandros
amava profondamente e aveva bisogno di ricevere amore da quelli che lo
circondavano. Suppongo che prese il mio diniego come un rifiuto
d’amore. Mise
fine alla nostra amicizia.” Sospira e sembra barcollare, ma
è solo un attimo.
“Voglio sapere se sta bene. Sapere se mi ha perdonato. E se
ha finalmente
trovato la pace e l’amore che cercava.” Fissa
Antonio negli occhi, cercando –
trovando – la comprensione di cui ha bisogno. Poi sorride, il
volto che si
ricompone, assumendo le fattezze dell’uomo temprato dai
secoli.
Si svincola
dalla presa di Antonio e afferra il soprabito, gettandoselo sulle
spalle. “È tardi.
Ed è ora che ti lasci in pace.”
“C’è il
divano, puoi
restare,” suggerisce Antonio, “fa freddo
là fuori.”
Alain scuote la
testa. Un ultimo sorriso all’indirizzo dell’amico,
poi si avvia verso la porta.
“Grazie comunque.”
È fermo sul Quai
des Tournelles, lo sguardo rivolto alle stelle. Non sono
così diverse da quelle
che ha osservato con Aleksandros, secoli prima. Le stelle non sono mai
cambiate
e in questo pensiero trova consolazione. Un vento leggero si avvita
attorno alle
caviglie, smuovendo la coda dell’impermeabile e sollevando la
polvere
accumulata sulla banchina.
Il vento sembra
sussurrare, chiamare il suo nome dai recessi dei millenni. Se solo
riuscisse a
capire che cosa dice.
Ha smesso di
piovere. Hydarnes sorride e si incammina nella chiara e fredda notte di
Parigi,
ascoltando la voce immortale del vento.
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Note:
I personaggi
di
questo racconto sono tutte figure storiche realmente esistite. Per i
nomi
propri ho usato la traslitterazione greca (Alessandro/Aleksandros,
Efestione/Hephaistion, Idarne/Hydarnes), in quanto alcuni nomi in
antico persiano
sarebbero risultati astrusi all'orecchio di un lettore poco abituato.
Le descrizioni
della pira funebre di Efestione sono state prese da Diodoro
Siculo, così come ho adottato la denominazione di Erodoto
per quanto riguarda
gli "Immortali" della guardia persiana. Essi, infatti, erano
conosciuti in Persia anche come Anusya –
compagni.
L’aneddoto
della regina di Persia non è inventato, ma è un
evento realmente accaduto. Per
le fonti storiche, mi sono rifatta alle principali sulla figura di
Alessandro:
Plutarco, Arriano e Curzio Rufo.
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