LA CLESSIDRA
La prego, padre, accolga la mia
confessione. Mi
perdoni perché ho peccato.
Che
cosa ho fatto?
Sono
un ladro. Un ladro che non potrà mai essere
processato per il suo crimine.
La
vede quella clessidra sopra il pianoforte? Sì, so
che sono stato un grande musicista, ma non è di questo che
voglio parlare.
Guardi la clessidra. Vedrà che manca poco perché
tutta la sabbia si raccolga
sul fondo. Ed è per questo che voglio confessarmi. Il mio
tempo volge al
termine, ringrazio Dio per questo. È
tanto che
aspetto e il tempo rimasto è così poco.
Ma
ora la scongiuro, raccolga la confessione di un
peccatore. Prenda il mio diario, lì sul comodino.
Sì, quello.
Inizi
a leggere.
Era il mardi
gras del 1896 quando decisi di
uccidermi. Cinque mesi prima mi era stato diagnosticato un male
incurabile, un
morbo che mi dilaniava dall’interno, senza speranza di
guarigione se non per
un miracolo.
Avevo trascorso quel
periodo tra dolori indicibili e umori disgustosi – e
così avrei continuato per
il poco tempo che mi restava, affogando la mia dignità tra
sangue e diarree,
prima che una morte misericordiosa venisse a porre fine alla mia
umiliazione.
Così, avevo
deciso.
Tutto era stato
predisposto, il testamento redatto; il lascito avrebbe permesso a mia
figlia
Sophie di vivere negli agi e questo era sufficiente a darmi sollievo.
Tuttavia, nemmeno il pensiero della mia amatissima figlia poteva
distogliermi
dal mio proposito, né il rimpianto per la musica e per la
luminosa carriera che
avrei interrotto. Almeno sarei stato ricordato all’apice
della gloria e anche
in questo trovavo consolazione.
Quella notte, mentre la
città era presa nell’abbraccio lascivo del
Carnevale, lasciai la mia casa in
Rue Dauphine e mi inoltrai nella palude che lambisce le rive del delta
del Mississippi.
Il Bayou era immerso nella
bruma, una densa foschia sfiorava le acque;
l’oscurità era assoluta, appena
rischiarata dal pallido osso della luna appeso in cielo. Il silenzio
era
lacerato solo dall’urlo delle gavie e dal gracidio impazzito
delle rane.
Camminai verso la riva e poi dentro l’acqua,
finché non mi ritrovai sommerso dai
liquami limacciosi del fiume.
Aprii la bocca e
inghiottii il sapore amaro della morte, fino a riempirmene i polmoni.
Poi, il nulla.
Mi risvegliai dopo un
tempo che non saprei dire, sopra un giaciglio di paglia dentro una
baracca
fatiscente. Sentivo il grido degli uccelli notturni appena fuori dalla
finestra,
dunque dovevo essere ancora nel Bayou, ma non saprei ritrovare la
strada.
La stanza era piccola,
puzzava di stalla ed era illuminata dal bagliore fioco
di una lucerna. Nel cono di luce potevo scorgere un tavolo di legno
marcio e,
seduta al tavolo, una vecchia china a scrivere qualcosa.
Il cuore mi fece un balzo.
Tutti in città conoscevano quella donna, anche se nessuno ne
parlava mai. C’erano
voci su di lei, dicerie che non si osava rammentare alla luce del
giorno, ma
che di notte prendevano la forma di una paura oscura. Si diceva che,
quando qualcuno
desiderava cose che non si potevano chiedere in chiesa, era da lei che
bisognava andare. Bruja era la
parola, ed era una parola di sangue, che mai avrei voluto pronunciare
– o anche
solo pensare – in quel luogo.
Come richiamata dai miei
occhi aperti, la vecchia alzò il viso e mi
guardò. Persino nella penombra della
baracca il suo sguardo acquoso sembrava trapassarmi.
Poi sorrise, scoprendo le
gengive nere.
“Bienvenu,
mon ami,” mi disse, e la sua
voce era stranamente dolce, “bentornato. Vieni monsieur,
siediti qui con me.”
Avrei solo voluto
andarmene, ma qualcosa in me si rifiutò di farlo. Vorrei
dire che era la paura,
ma ora so che si trattava di qualcos’altro. Mi alzai e
camminai a fatica fino
alla scrivania, lasciandomi cadere sulla sedia davanti al tavolo.
Stavo per chiederle se mi
avesse tirato lei fuori dall’acqua, ma la vecchia fece cenno
di non parlare,
ricacciandomi le parole in gola.
“Hai tanta fretta
di
mettere fine al tuo tempo,” disse, sporgendosi in avanti. Le
vesti cenciose
frusciarono, portandomi al naso una zaffata di sudore e tanfo di orina.
“Fretta
di interrompere il tempo. Couper le temps.”
Allungò il
braccio e mi
toccò il ventre. Potei sentire la sua unghia coriacea
premere contro la stoffa
della camicia. “Hai la morte qui dentro, che ti divora. Ma tu
sei stupido. Tu es un fou,
perché il tempo è prezioso
e non si butta mai.”
“Allora voglio
più tempo,”
mi sentii dire, senza neanche accorgermi di cosa usciva dalla mia
bocca. “Voglio
il tempo che mi è stato rubato.”
Il sorriso della vecchia
si allargò, i pochi denti incastrati nelle gengive marce
brillarono nel buio.
“Mama Eudalie può aiutarti, mon
fils.
Può darti quello che desideri.”
Tornò ad
appoggiarsi allo
schienale della sedia, poi aprì un cassetto e ne trasse un
oggetto che spinse
davanti a me. Era una semplice clessidra di legno, riempita di sabbia
del
fiume. La sabbia giaceva sul fondo, i piccoli granelli di quarzo
baluginavano
appena nella luce della lampada.
“Tu pensi che il
tempo ti
appartenga, mon fils. Tutti lo
pensano.” Prese in mano la clessidra, cominciò a
svitare il tappo lentamente,
senza staccare gli occhi dai miei. “Ma il tempo è
solo in prestito, e presto o
tardi deve essere reso.” Appoggiò il tappo sul
tavolo, poi mi prese la mano; il
contatto mi repelleva, la sua pelle era secca e rattrappita come quella
di un
rettile, ma non mi sottrassi. “Dovrai prendere in prestito
quello di qualcun
altro, se ne vuoi ancora.”
“Prenderlo in
prestito da
chi?”
Il sorriso scomparve sul
volto della vecchia, la fiamma della candela oscillò e per
un attimo avrei
giurato di scorgere un’ombra alle sue spalle. Il terrore mi
inchiodò alla
sedia, svuotandomi delle poche forze rimaste.
“Il tempo
è un dio
maligno,” disse Mama Eudalie, cominciando a disegnare dei
cerchi sul mio palmo
aperto, “è geloso dei doni che fa agli
uomini.” Continuava a tracciare cerchi concentrici
sempre più stretti sulla mia mano, e io sentii le palpebre
farsi pesanti, un
sapore acido invadermi la bocca. “Se tempo è
concesso, altro tempo deve essere
reso, n’est-ce pas?”
Fermò la mano,
puntò l’unghia all’interno del mio
polso, nello snodo delle vene e dei tendini.
“È
giusto. Un buco viene riempito
e un buco deve essere svuotato. Dimmi il nome.”
“Quale
nome?” A occhi
chiusi, percepii l’unghia della vecchia bucare la carne, e il
flusso di sangue
riversarsi all’esterno.
“Tu lo sai. Dimmi
il nome.”
Aprii le palpebre. Il mio
polso era sospeso sopra la clessidra, il sangue scorreva lungo le
pareti di
vetro e inzuppava la sabbia sul fondo. La vecchia sussurrava una
cantilena in
una lingua che non riuscivo a capire, le parole si accavallavano,
cozzavano e
stridevano come una musica suonata dalle mani di un folle.
E allora seppi. Pronunciai
il nome, sotto la luna e le stelle impazzite.
Non ricordo come tornai a
casa. Mi ritrovai il mattino dopo davanti alla stalla, il cavallo
tenuto per la
cavezza, i vestiti inzuppati di fango, e la prima cosa che pensai, con
uno
stupore che rasentava l’estasi, era che il dolore era
sparito. Volatilizzato
come la nebbia sopra le acque del Mississippi in una giornata estiva.
Alzai il viso e guardai il
sole. Mai un’alba mi era apparsa più bella, mai la
luce mi era sembrata più
dolce.
Mi venne incontro Tom
Teagarden, il mio stalliere. Ricacciai la gioia sul fondo della gola,
sentendomi addosso tutto il peso della colpa.
Conoscevo Tom da una vita,
era rimasto orfano da bambino e mio padre l’aveva allevato
insieme a me, come
un bianco. L’aveva fatto studiare, gli aveva persino
insegnato a suonare il
pianoforte. E Tom era bravo, aveva un talento che sembrava elargito
dagli
angeli. Una volta, di nascosto, ero andato a sentirlo suonare in uno
dei locali
in cui si esibiscono i negri, a Storyville. Mescolato nella folla,
l’avevo
ascoltato mentre eseguiva una habanera malinconica, che sgorgava dalle
sue dita
come il lamento di un dio ferito. In quel momento l’avevo
odiato, perché sapevo
che le mie capacità, tutto il mio celebrato talento,
impallidivano davanti a
quel miracolo del cielo.
Avevo pianto le lacrime
più amare della mia vita.
Poi mio padre era morto, e
Tom era ritornato a fare ciò a cui da sempre era stato
destinato, ma questo non
aveva soffocato il mio risentimento, anzi. Se possibile
l’aveva accentuato,
perché quel talento – tanto sprecato in lui
– io avrei venduto l’anima per
poterglielo rubare.
Ora so che gli ho tolto
qualcosa di ancora più prezioso.
Tom prese in consegna il
cavallo e, guardando i miei vestiti, mi chiese se stavo bene. Non
risposi.
Non dissi nulla neanche a
Sophie, che mi accolse con amorevole preoccupazione, e si
premurò personalmente
di prepararmi il letto con lenzuola pulite e profumate.
Trascorsero i giorni, e il
ricordo di Mama Eudalie assunse sempre più i contorni di un
incubo che si scioglie
al mattino. Ma il mio corpo era tornato forte, le energie mi sembravano
inesauribili, e tutto questo non era un sogno. Ripresi a dare concerti,
a
frequentare i salotti, ad andare a cavallo. Il pubblico
acclamò il mio rientro
sul palcoscenico, i dottori non poterono far altro che constatare il
miracolo.
Poi, dopo alcuni mesi,
come una nuvola gravida di veleno che passi davanti al sole per
infettarlo,
l’incubo ritornò ad ammorbare la mia vita con il
suo alito mefitico.
Mia figlia era scappata
con Tom Teagarden. Ne ebbi notizia dalla domestica, e anche il resto
della
servitù lo confermò. Tutti sapevano della
relazione proibita che Sophie
intratteneva con Tom, tutti avevano taciuto. Divenni pazzo per la
rabbia. La
mia bambina, il mio fiore, scappata con un negro, uno stalliere figlio
di
stallieri che aveva avuto l’ardire di portarmi via la mia
cosa più preziosa.
Non pensai alla notte nel
Bayou, non in quel momento, ma nel fondo del cuore sapevo che qualcosa
si era
messo in moto, e nessuno avrebbe potuto fermarlo.
Diedi l’allarme,
iniziò
una lunga e serrata caccia all’uomo. Vi partecipai
personalmente, ma non fui io
a ritrovarli. Che ironia in tutto questo.
Mi riportarono Sophie in
una fredda mattina di aprile, i vestiti intrisi d’acqua, gli
occhi senza vita
di una bambola rotta. Li avevano ritrovati nelle campagne attorno a
Baton Rouge,
Tom aveva opposto resistenza, gli animi si erano scaldati. Era partita
una
pallottola, e il tempo di Tom era stato reciso per sempre. Un buco
viene
riempito, un altro buco viene svuotato.
Quando me lo dissero, mi
parve di sentire la risata della vecchia, da qualche parte nel vento.
Sophie non aveva resistito
alla morte del suo amante. Si era gettata nelle acque del Mississippi,
segnando
per sempre la mia dannazione.
Tornai a casa dopo le
esequie, e la clessidra era lì, sul comodino accanto al mio
letto. Non so come
ci fosse arrivata, ma era lì ad aspettarmi. Non me ne
stupii. La presi in mano,
per un attimo sembrò pulsare e vibrare, ma non ne sono
certo. Non ero in me in
quel momento.
La capovolsi.
La sabbia prese a scorrere
con un fruscio lungo il sottile imbuto di vetro, e da quel momento non
si è più
fermata. Ho provato a romperla, l’ho gettata nel fuoco, ho
tentato in tutti i
modi di distruggerla, ma nulla su questa terra sembra scalfirla.
Dovrà fare la
sua corsa, fino alla fine.
E, che Dio mi aiuti, io
con lei.
Ora
sa tutto, padre. La scongiuro, mi assolva. Ho
paura. Non so cosa ci sarà ad attendermi
dall’altra parte, ma ho il terrore di
rivedere il ghigno di quella donna. L’ombra alle sue spalle.
Ho
paura, padre.
Guardi
la clessidra. Pochi granelli e sarà finita,
E
io ho tanta paura.
|