PERSONAL SPACE: Continuo a
essere una brutta persona perchè scrivo altro e non aggiorno la mia
long sugli Avengers e prima o poi mi ritroverò Natasha e Clint che mi
minacceranno... chiedo scusa, ma la colpa è di Matt, non mia. Mi è
entrato in testa e mi sta occupando tutto lo spazio...se qualcuno ne
vuole un pezzetto me lo dica. Grazie!
E niente. Vi lascio a questa one-shot (ebbene sì, ogni tanto ne scrivo
anche io!!) e spero che vi piaccia. Fatemi sapere!
FEVER
Matt non stava bene. Per niente. Foggy ne era stato certo nel
momento esatto in cui il suo coinquilino si era messo a sedere sul
letto, un po' troppo barcollante rispetto al solito.
-Ehi? Tutto ok?- gli chiese mentre lo guardava distrattamente cercare a
tentoni i propri occhiali sul comodino. A seguire il suo istinto,
l'avrebbe aiutato, ma sapeva quanto Matt tenesse alla sua indipendenza,
quindi lo lasciò fare.
-Sì... Devo aver bevuto una birra di troppo ieri sera- gli rispose
l'altro, trovandoli e inforcandoli.
Era sempre la prima cosa che faceva, e il biondo lo detestava per
questo. Non era infastidito dagli occhi ciechi del suo amico, ma ancora
non era riuscito a farglielo capire. Sperava solo che col tempo le cose
sarebbero cambiate naturalmente.
La sera prima erano usciti, ma Foggy non ricordava di averlo visto bere
più del solito, però non osò ribattere. Erano solo quattro mesi che
vivevano insieme e il loro rapporto si stava ancora assestando mentre
entrambi si adattavano al carattere e alle abitudini dell'altro.
Matt era silenzioso e schivo tanto quanto lui era chiacchierone e
socievole, e all'inizio le cose non erano state facili, ma piano piano
si erano venuti incontro e col passare del tempo la coltre di
diffidenza di Matt si stava sciogliendo, rivelando un ragazzo simpatico
e disponibile quanto orgoglioso e indipendente nonostante la sua
disabilità.
-Ok. Le aspirine sono sulla scrivania se ne hai bisogno. Angolo a
destra, vicino al portapenne-
Se non altro la sua parlantina gli tornava utile quando si trattava di
descrivere. A un cieco non si poteva semplicemente dire lì o là,
bisognava essere precisi. E ordinati, si ricordò tuffandosi per levare
di mezzo la sua borsa a tracolla prima che l'altro ci inciampasse sopra.
-Cos'era questa volta? Scarpa?- chiese Matt sorridendo mentre si
versava una tazza di caffè bollente ignorando completamente il
suggerimento sulle aspirine come al suo solito. Ormai era diventato un
gioco tra di loro, Foggy che ormai sempre più raramente si dimenticava
di lasciare sgombro il pavimento (i primi giorni Matt aveva rischiato
la vita più volte di un artificiere in un campo minato) e L'altro che
cercava di indovinare su cosa aveva rischiato di rompersi l'osso del
collo.
-Ritenta-
-La camicia di ieri sera che puzza dannatamente del profumo orribile di
quella ragazza che ti si é strusciata contro?- come diavolo faceva a
saperlo?
-Naah-
-Mi arrendo- alzò le mani il ragazzo, perdendo il sorriso, e questo era
un altro segnale di allarme, secondo Foggy. Matt non si arrendeva mai
al secondo tentativo. Foggy lo guardò meglio per la prima volta. Si era
messo una felpa della columbia col cappuccio al posto del solito
maglioncino leggero e, cavolo, sembrava un liceale. Stringeva la tazza
del caffè con entrambe le mani, accogliendo ogni sorso come se fosse
rimasto in mezzo alla neve per tutta la notte. Peccato fosse aprile e
di neve non erano rimasti nemmeno i residui di quella caduta a fine
gennaio.
-Matt? Lo so che sai cavartela da solo, e non voglio sembrare
invadente, ma l'ultima volta che ho controllato, i postumi di una
sbornia non comprendevano i brividi di freddo- Foggy parlò a bassa
voce, quasi dolcemente, la voce piena di preoccupazione.
-Non mi sento bene- ammise infine l'altro, poi gli regalò uno dei suoi
soliti mezzi sorrisi -Ma sto bene, davvero. Andiamo o faremo tardi a
diritto costituzionale-
-Matt, prenditi la mattina e resta a letto, giuro che prenderò appunti
in maniera decente. Tu riposati, ok? Così eviterai di peggiorare...-
Ma figuriamoci se quel testone di un secchione gli dava retta.
Matt continuava a peggiorare ora dopo ora, ma Foggy non osava dirgli
niente, non dopo la pausa pranzo, quando Matt gli aveva praticamente
abbaiato contro dopo che gli aveva chiesto se potesse fare qualcosa per
lui. Stava imparando a scoprire quanto testardo potesse diventare
quando ci si metteva, per cui dopo pranzo si limitò a salutarlo prima
di andare a lezione di punjabi, lasciandolo libero di dirigersi verso
l'aula di spagnolo.
Il suo telefono iniziò a vibrare un paio di ore dopo, nel bel mezzo di
una lezione che minacciava tremendamente di farlo cadere in uno dei più
grandi abbiocchi post pasto della sua carriera di studente (e lui non
era certo un novellino a riguardo). Lo estrasse dalla tasca e uscì
dall'aula quando vide il nome del coinquilino sul display, borbottando
qualcosa simile a una scusa nei riguardi del professore e rispose
appena fuori dall'aula.
-Devo venirti a tirare fuori da un tombino?- scherzò subito.
-Foggy Nelson?- una voce di donna gli rispose al posto dell'usuale voce
del suo amico, e questo fu più che sufficiente a spegnere qualunque
ironia.
-Chi parla? Che è successo?-
-Mi chiamo Elektra... Senti il tuo amico è collassato fuori dall'aula
di spagnolo. Abbiamo chiamato un'ambulanza ma rifiuta di farsi visitare
o portare in ospedale e tu sei l'unico numero in rubrica...-
-Arrivo-
Foggy arrivò sul posto 10 minuti dopo e si ritrovò a fare a spintoni
con la folla per riuscire a farsi largo fino ad arrivare al centro,
dove Matt era seduto con la schiena appoggiata alla parete, pallido
come un cencio e su quello che sembrava essere l'orlo di una crisi di
nervi. Probabilmente il caos causato dai curiosi lo stava disorientando.
-Sto... Sto bene- stava cercando di dire ai paramedici che lo
circondavano.
-Matt?- memore di come era scattato poche ore prima, Foggy si avvicinò
cautamente a lui, parlando a bassa voce per non aggiungere ulteriore
confusione. -Sono Foggy. Sono qui-
-Fo... Foggy!- Matt si voltò all'istante verso la direzione della sua
voce, il petto che si alzava e si abbassava con una frequenza
allarmante, la fronte imperlata di sudore e le mani che tremavano
convulsamente che si allungavano cercando il suo contatto -Sto... Sto
bene. Niente... Ospedale. Ti prego- sussurrò appendendosi al suo
braccio.
-Ok, va bene, ora calmati però, ok? Respira...-
-C'è... Troppo... Rumore...- Foggy non gli poteva certo dare torto.
Sapeva che Matt aveva un udito più delicato, e l'irritante brusio gli
stava già trapanando il cervello; non osava pensare a come potesse
sentirsi l'amico.
-Ok, ascoltami. Cerchiamo di tornare in camera ok?-
-Se riesci a farlo stare fermo vi accompagnamo noi- una dei paramedici,
una ragazza di colore che poteva avere non più di un paio di anni più
Di loro, si era avvicinata a loro e ora stava parlando più a Foggy che
a Matt. Lui annuì e si voltò verso l'amico.
-Hai sentito, Matt?- l'altro si limitò ad annuire e smise di
divincolarsi, permettendo ai paramedici di lavorare. La ragazza si fece
di nuovo avanti, sfiorando delicatamente il braccio del cieco.
-Matt? Mi chiamo Claire. Adesso ti solleviamo e ti portiamo fuori da
qui, ok? Il tuo amico viene con noi, perciò stai tranquillo, va bene?-
Un nuovo cenno di assenso e i paramedici poterono procedere. Foggy si
sentì a sua volta toccare sulla spalla, e quando si voltò si trovò di
fronte una ragazza mora e bellissima, che gli stava porgendo il
telefono di Matt.
-Grazie- riuscì a mormorare prima di affrettarsi a raggiungere gli
operatori per guidarli fino alla loro camera.
***
Matt non si era nemmeno accorto di essere svenuto. Già a metà
mattina le lezioni avevano perso di qualunque senso, le voci dei
professori si mischiavano nella sua mente con tutti gli stimoli esterni
che non riusciva a bloccare, incapace di rimanere concentrato per più
di qualche minuto.
Il cuore forte di Foggy era la sua ancora, il giubbotto salvagente che
gli impediva di annegare nel mare di rumori, odori e sensazioni tattili
che minacciavano di travolgerlo. Il suo battito regolare lo riportava
al presente e più di una volta si era costretto a tenere ferme le mani,
a non aggrapparsi al braccio del suo amico come se la sua vita
dipendesse da quello.
Sentiva la pelle bruciare, avvertiva la sua temperatura alzarsi a
livelli allarmanti, mentre contemporaneamente perdeva la concezione
dello spazio. La testa gli pulsava, e il solo movimento dell'aria gli
provocava brividi di freddo e allo stesso tempo la voglia di
strapparsela di dosso. Febbre e ultrasensibilità non erano due concetti
nati per convivere in un solo corpo.
Avvertiva la preoccupazione di Foggy ogni volta che lo guardava, perchè
il suo cuore accelerava e lo costringeva a rincorrerlo e sintonizzarsi
suo nuovo ritmo per ignorare le auto, i due gatti che litigavano nel
vicolo, il rettore che tradiva la moglie nel suo studio, le migliaia di
pagine girate in tutto il campus, l'irritante scorrere di penne e
matite sui fogli... Foggy. Doveva concentrarsi su Foggy.
A fine lezione aveva una delle più grandi emicranie della storia.
La mensa era stato semplicemente un incubo,e non era riuscito a
trattenere la sua irritazione di fronte alla preoccupazione nella voce
del suo amico. Era cieco, ma era benissimo in grado di cavarsela da
solo, non gli serviva una balia, dannazione!
Era entrato da solo nell'aula di spagnolo... E poi si era ritrovato a
terra nel corridoio, circondato da voci e urla, nel naso l'odore di
lattice e disinfettante che da quel dannato giorno associava
all’ospedale e mani che cercavano di tenerlo fermo. E il suo istinto
prese il sopravvento: cominciò a divincolarsi con tutte le sue forze,
ignorando volutamente quel poco di lucidità che insistentemente gli
stava ricordando che al momento la sua percezione del mondo era più o
meno quella di una vera persona cieca. A stento riusciva a trattenersi
dall’utilizzare le sue vere capacità, le tecniche che anni prima Stick
gli aveva insegnato, e che lui aveva tenuto in allenamento come mero
sfogo personale verso un mondo che lo avrebbe sempre visto come una
persona spezzata.
L’arrivo di Foggy era stato provvidenziale come un bicchiere d’acqua
fresca dopo una gita nel deserto, e, una volta tornati nel dormitorio,
circondato solo dal suo coinquilino e dalle loro cose, con gli altri
rumori finalmente lontani, il suo mondo cominciò a riprendere forma;
era più facile tenere a bada l’esterno quando si trovava circondato da
cose che sapevano di casa. Lasciò che i paramedici lo spostassero dalla
barella al proprio letto, e una volta lì si accoccolò sotto le coperte,
avvertendo a malapena le parole che si stavano scambiando con Foggy.
***
Matt si era tranquillizzato nel momento esatto in cui avevano messo
piede nella stanza, e Foggy non aveva potuto trattenersi dal sospirare
di sollievo. Il suo coinquilino era solitamente così controllato che
vederlo in quello stato l’aveva destabilizzato e non poco.
Claire si stava occupando di Matt, provandogli la febbre e
auscultandogli i polmoni riuscendo per un qualche miracolo a tenerlo
calmo. Foggy aspettava fuori insieme al secondo soccorritore, che stava
risistemando le cinture con cui avevano assicurato lo studente durante
il trasferimento. La ragazza uscì poco dopo.
-Sei il suo contatto di emergenza?-
-Ehm... No. Cioé non ufficialmente. No-
-Chi posso chiamare?-
-Non ha nessuno- spiegò dopo un attimo di esitazione, mentre in un
attimo si rendeva pienamente conto, per la prima volta, che non avrebbe
avuto una mamma da chiamare, o una famiglia che lo rassicurasse nei
momenti come questi. -È orfano da quando era piccolo-
Claire annuì, poi gli porse un foglietto.
-Non posso dirti nulla, ovviamente, ma assicurati che prenda del
paracetamolo e gli antibiotici, ok?-
-Grazie mille. Arrivederci-
-Ciao-
Foggy rientrò nella stanza silenziosamente, cercando di non disturbarlo
nel caso dormisse. Gli lanciò uno sguardo e vide che Claire aveva fatto
pessimo lavoro nel rimboccargli le coperte (oppure lui aveva un
particolare talento per distruggere i letti): Matt era raggomitolato su
sé stesso a formare una palla, con gli occhiali ancora sul naso e un
panno intriso di acqua sulla fronte. Era immobile e respirava
regolarmente, per cui diede per scontato che dormisse, perciò sussultò
quando un flievole "scusami" uscì dalle labbra del suo amico.
-Se ti stai scusando per non avermi dato retta questa mattina, devi
almeno aggiungere che sei un testone e promettere che la prossima volta
sarai sincero riguardo alla tua salute per farti perdonare- gli rispose
a bassa voce, memore del fatto che tutto era troppo rumoroso per lui,
il tono scherzoso ma solo a metà. Le labbra di Matt si incurvarono in
un sorriso, così Foggy trovò l'input per continuare. -se ti stai
scusando per avermi salvato dalla lezione più noiosa della storia,
invece, non verrai scusato. Mi hai sottratto dalla pennichella!-
-Grazie- sussurrò allora, e Foggy riuscì a sorridere.
-Fatti aiutare la prossima volta, ok, Matt?- quando non sentì risposta,
decise di invadere, questa volta clamorosamente e consapevoltmente, la
safe zone del suo coinquilino. Si avvicinò a lui e gli tolse gli
occhiali con un gesto fluido. Gli occhi grandi del moro si spalancarono
per la sorpresa, e il suo corpo si irrigidì vistosamente in
conseguenza, ma questo non frenò la sua lingua. -Questi con me non ti
servono, ok? Qui non si tratta di essere cieco, Matt. Che ci piaccia o
no passeremo insieme i prossimi quattro anni della nostra vita in una
stanza da 20 metri quadri, e non mi importa come sei cresciuto, se
finora sei sempre stato solo. Non lo sei più, ok? E se arrivi a
collassare in classe piuttosto che prenderti una giornata per stare a
letto non sei forte e indipendente, ok? Sei solo un'idiota-
***
Foggy aveva ragione su tutti i fronti, Matt lo sapeva bene, ma non
poteva farci niente.
Negli ultimi 15 anni della sua vita aveva dovuto cavarsela da solo, e
anche prima non è che suo padre potesse permettersi di viziarlo più di
tanto se voleva avere abbastanza soldi da riuscire a mangiare e pagare
l’affitto con un ritardo sufficiente a non farsi sfrattare.
L’idea di poter contare su qualcuno gli era praticamente estranea dal
giorno in cui Stick era uscito dalla sua vita, perchè in quel momento
aveva deciso che non avrebbe mai più permesso a nessuno di arrivargli
così vicino per poi abbandonarlo, e ci era discretamente riuscito,
almeno fino a quando non aveva conosciuto Foggy, con le sue
(dis)attenzioni e la sua giovialità ma anche la sua ferrea volontà di
non oltrepassare mai certi limiti.
Foggy che odiava a morte i suoi occhiali, riusciva chiaramente a
percepirlo, ma non si era mai permesso di andare oltre il confine che
Matt stesso aveva posto e che ora invece aveva appena compiuto
un’invasione che avrebbe reso orgogliosi parecchi imperatori e generali.
Matt non osava fiatare, perchè qualunque cosa avrebbe detto sarebbe
stato un arrampicarsi sugli specchi. Se ne stava lì, tremante di freddo
sotto le coperte, improvvisamente nudo senza lo scudo delle lenti che
gli coprivano la vista, il suo sguardo più o meno puntato verso la
direzione della voce dell’altro, più per educazione che per una vera e
propria necessità.
Si aspettava che Foggy aggiungesse altro, o se ne andasse non ricevendo
risposta, ma dovette ricredersi. Lo sentì muoversi verso di lui,
cautamente, mentre gli occhiali venivano piegati e posati sul comodino
accanto al suo letto. Poi fu il turno delle coperte; il suo tocco
gentile le riportò fin sotto il suo mento, avvolgendolo bene come in un
bozzolo, e lui accolse la nuova fonte di calore con gioia e un po’ di
nostalgia. Si ritrovò a ricordare le attenzioni di suo padre, e gli
occhi iniziarono a pizzicargli. Deglutì e ricacciò indietro le lacrime
con la forza del puro orgoglio.
-Quanto è alta la febbre?- mentre Foggy poneva la domanda, Matt sentì
il dorso della sua mano fredda posarsi sulla propria guancia, e un
gemito di sollievo gli sfuggì dalle labbra: si sentiva cuocere e
l’inatteso benessere lo aveva colto di sorpresa.
-39.8- trovò la forza di rispondere, preparandosi mentalmente a
un’altra ramanzina, ma ricevette in risposta solo un sospiro.
-Devi prendere le medicine, Matt. So che non ti piacciono, ma…-
-No, Fog. Ti prego... -
-Matt…-
***
Foggy capì in quel momento che togliergli gli occhiali era stato il
peggior errore della sua vita, perchè quando Matt alzò lo sguardo su di
lui, pregandolo di non fargli prendere le medicine… beh, l’unico
termine di paragone che riuscì a trovare per quegli occhi spalancati,
lucidi di febbre e vagamente spaventati che lo guardavano imploranti
era il Gatto con gli Stivali di Shrek, e si maledì ripetutamente mentre
ringraziava il cielo che fosse cieco, perchè probabilmente uno sguardo
che fosse anche a fuoco lo avrebbe ucciso. E ora voleva definitivamente
prendersi a calci in culo per aver pensato una cosa del genere.
Tuttavia, dire di no a quello sguardo era davvero impossibile. Ma
doveva provarci in qualche modo.
-Quella febbre va fatta scendere...-
-Acqua...e ghiaccio- fu la pronta risposta, e qualcosa gli diceva che
non era la prima volta che si curava in quel modo. Non voleva opporsi
come una mamma troppo protettiva, ma non poteva nemmeno lasciargliela
vinta. Acqua e ghiaccio andavano bene, ma di solito erano un aiuto, non
la cura principale. Sospirò.
-Ti propongo un accordo, ok?- Matt si limitò a guardarlo, e Foggy lo
prese per un assenso. Chi tace acconsente, giusto? -Sono le 5 del
pomeriggio, ti concedo acqua e ghiaccio fino a domattina alle 8 e 30.
Se per allora è scesa, continuiamo così. Se prima del termine sale
ancora o alla fine siamo allo stesso punto, inizi a prenderle, ok?-
Matt chiuse si occhi, pensandoci sopra un attimo, poi annuì.
-Grazie- sussurrò alla fine.
-Perfetto. Ora, nuove regole. Appurato che non sei da solo, tu ti
limiterai a startene a letto. Ti alzerai solo per andare in bagno e
riposerai-
-Ma…-
-No, Matt, niente ma. Non è negoziabile. Sei cieco, non muto, quindi
vedi di usare la bocca per chiedere quello di cui hai bisogno. Io sono
qui, ok?-
Il suo amico aprì la bocca come per dire qualcosa, poi parve finalmente
rendersi conto delle sue reali condizioni, perchè la richiuse.
-Grazie-
Foggy prese un’altra coperta per stendergliela sopra, poi estrasse dal
loro mini-frigo una bottiglietta d’acqua e la posò sul comodino.
-Ti ho messo l’acqua qui accanto, insieme al cellulare. Sei abbastanza
coperto?- un cenno di assenso -Ok. Esco per 30 secondi, prometto. Vado
a riempire il… uhm...- si guardò intorno cercando qualcosa che potesse
essere vagamente simile a un catino -Cestino della spazzatura di acqua
e ghiaccio. Se hai bisogno chiamami-
-Starò… bene- mormorò l’altro lasciando finalmente uscire anche una
tosse che evidentemente tratteneva da quando si era svegliato. Foggy
aspettò che l’attacco finisse prima di appoggiargli la bottiglietta sul
dorso della mano per farlo bere. -Grazie…-
***
Matt non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce (al di là dei normali
ringraziamenti), ma le attenzioni di Foggy lo facevano sentire meglio.
Era una cosa che non provava da troppo tempo perciò decise di obbedire
e rimanere sotto il tepore delle coperte.
Ma scoprì ben presto, che quando il suo coinquilino (amico, forse
poteva anche iniziarlo a considerarlo tale) si impegnava in qualcosa,
non lasciava nulla al caso.
Quando sentì aprirsi la porta, si premurò di alzare la testa, in modo
che non dovesse preoccuparsi di non svegliarlo.
-Ho parlato con mia madre- annunciò l’altro, in un tono di voce
normale, che però gli trapanò le orecchie come un martello pneumatico.
Se le coprì mentre una fitta di mal di testa lo colpiva, mandando il
suo “mondo in fiamme” appena ricostruito a farsi benedire. -Scusa-
Foggy abbassò immediatamente il tono di voce a un sussurro. -Dicevo.
Visto che per un qualche motivo non vuoi prendere medicinali, ho
chiamato mia madre, che ha chiamato mia nonna che è tipo una
specialista di rimedi naturali e improbabili. Se te la senti di
rimanere solo esco a comprare quattro cose-
-Prendi… il mio portafogli- mormorò in risposta, mentre il suo orgoglio
gli ricordava che era in grado di stare da solo anche in quelle
condizioni. Non è che le suore in orfanotrofio avessero tempo di
rimanere a coccolare i bambini malati, nemmeno quelli ciechi che si
riducevano all’orlo della pazzia.
-Ci metteremo a posto quando starai bene, Murdock- Foggy gli stava
cambiando la pezza sulla fronte, prima di passare ad avvolgergli anche
polsi e caviglie in panni umidi e freddi. -Stai a letto, ok?-
E senza un’altra parola lo sentì uscire.
Alzarsi? Fuori discussione. Matt si lasciò scivolare nel sonno.
***
La febbre era rimasta stabile, almeno fino alle undici di quella sera,
quando dopo essersi assicurato che Matt fosse a posto, avesse bevuto
due tra gli intrugli che gli aveva consigliato sua nonna (aveva scelto
quelli meno disgustosi) e che dormisse tranquillo, si era infilato a
letto, esausto dopo la giornata passata.
L’unica nota positiva era che ora Matt sembrava accettare più
volentieri di essere aiutato, anche perchè dopo il primo,
tragico(mico), tentativo di andare in bagno da solo si era reso conto
di non riuscire a navigare con sicurezza nei familiari corridoi del
dormitorio.
Foggy gli rimboccò di nuovo le coperte sotto il mento poi cedette al
sonno.
L’urlo lo riportò bruscamente alla realtà. Si mise a sedere sul
materasso di scatto e allungò la mano a tentoni verso la parete per
accendere la luce, mentre contemporaneamente si contorceva per uscire
dalle coperte.
Matt si contorceva nel sonno, in una lotta senza via d’uscita con le
coperte. Foggy lo prese saldamente per la spalla per scuoterlo e
svegliarlo...e si ritrovò a schivare non seppe nemmeno lui per quale
miracolo un pugno diretto dritto alla sua faccia.
-Che cavolo, Matt!
E allora Matt aprì gli occhi, improvvisamente sveglio, ma completamente
privo di forze. A quanto sembrava, aveva esaurito le batterie nel
tentativo di… attaccarlo? Difendersi? -Sono io, Matt. Sono Foggy.
Calmati. Sono io…- lo aiutò a mettersi seduto contro la testiera del
letto e prese la bottiglia d’acqua, appoggiandogliela sulle labbra. Il
suo amico bevve, perfettamente immobile eccetto per i movimenti della
sua gola mentre inghiottiva l’acqua e l’alzarsi e abbassarsi ansimante
del suo petto. Si sedette a sua volta sul bordo del letto, scostandogli
dolcemente i capelli dalla fronte, con il duplice intento di
rassicurarlo ma anche di saggiarne la temperatura...e quello che
accadde immediatamente dopo lo lasciò completamente spiazzato.
Matt Murdock era scoppiato in lacrime.
Fortunatamente, Foggy non era una di quelle persone che si lasciava
frenare da cose come “lo conosco solo da quattro mesi” o “non ama gli
abbracci”. Prese il giovane per le spalle e lo strinse forte a sè,
meravigliandosi quando non solo l’altro non oppose resistenza, ma anzi
nascose la faccia nella sua spalla afferrando la felpa del pigiama
sopra la sua spalla e stringendola in un pugno, il corpo tremante
scosso dai singhiozzi. Foggy lo strinse più forte a sè cercando di
scaldarlo e consolarlo allo stesso tempo.
-Shh. Shh. Va tutto bene, Matthew. Va tutto bene. Va tutto bene. Non
sei solo, Matt, ci sono io…-
La sua parlantina gli tornò di nuovo utile. Ben presto Foggy perse il
conto dello scorrere del tempo. Stringeva il suo coinquilino e gli
sussurrava una litania fatta di parole rassicuranti, mentre gli
strofinava la schiena per aiutarlo a calmarsi. Quando finalmente Il
pianto si placò e Matt cadde in un sonno indotto dallo sfinimento e
dalla febbre, ancora con il capo sulla sua spalla, tutto quello che
riuscì a fare fu coprire entrambi con una coperta e portare il catino
dell’acqua e ghiaccio (che aveva riempito di nuovo prima di dormire)
più vicino. Con cautela, gli tamponò il viso, ponendo poi il panno
sulla sua fronte. Andò avanti tutta notte, calmando gli occasionali
incubi stringendo l’abbraccio (non sapeva quale fosse la legge che
correlava i suoi abbracci con gli incubi di Matt, ma a quanto pare era
sufficientemente esatta da risultare sempre vera, almeno quella notte)
e cedendo alla stanchezza solo verso mattina, quando i primi raggi del
sole cominciavano già a filtrare dalle imposte chiuse e Matt sembrava
ormai tranquillo.
La febbre si era evidentemente impennata quella notte, sebbene Foggy
non avesse trovato il coraggio di infilargli il termometro sotto la
lingua per paura di svegliarlo. Il calore sprigionato dalla sua pelle
era più che sufficiente a dargli l’informazione che gli serviva,
tuttavia, verso mattina (e diversi impacchi freddi cambiati a
intervalli di più o meno dieci minuti) la sua pelle si era rinfrescata
e i brividi e gli incubi placati e lui trovò il coraggio di chiudere
gli occhi.
***
Matt di quella notte avrebbe ricordato poco o niente.
Quando finalmente era riuscito a concentrarsi a sufficienza per
riuscire a escludere i rumori della notte del campus e di New York
(cosa di norma non poi così difficoltosa, se riusciva a entrare in uno
stato di meditazione) cercando di isolarsi utilizzando il battito del
cuore di Foggy come scudo era finalmente caduto in un sonno ristoratore.
Poi la febbre si era alzata a un picco allarmante, e la sua pelle aveva
cominciato a ribellarsi al tocco dei suoi vestiti e delle coperte. E le
sue orecchie al gruppo di studentesse ubriache che si erano chiuse in
una camera a urlare e spettegolare di Dio solo sapeva cosa dall’altra
parte dei dormitori. E il suo naso e gusto all’odore pungente della
marjuana che i ragazzi della stanza accanto alla loro stavamo fumando
in grande quantità. Era tutto troppo caldo, ma allo stesso tempo
anche freddo, e le lenzuola lo imprigionavano senza via d’uscita.
Gli incubi febbrili non lo stavano aiutando. Rivedeva suo padre, la sua
sagoma incendiata in quel vicolo, mentre la sua temperatura calava
inesorabilmente e il vicolo rimbombava solo dell’assenza del suo cuore.
Un’assenza in grado di zittire le voci dei poliziotti che avevano
creato un cordone di sicurezza intorno al vicolo, degli assistenti
sociali, chiamati poco dopo, che lo avevano portato via e gli avevano
detto che tutto sarebbe andato bene, in grado di zittire perfino la sua
stessa voce, le urla di un bambino già troppo cresciuto che non
riusciva a farsi ingannare da quelle persone perchè era cieco e orfano
e col cazzo che tutto sarebbe andato bene.
E poi era arrivata la presenza di Foggy.
L’aveva colpito? Gli aveva fatto del male? Se ne sarebbe andato per
questo?
Foggy che lo tirava fuori dal groviglio di coperte e lo aiutava a
sedersi, perchè apparentemente, di punto in bianco, il suo corpo aveva
deciso di non riuscire più a muoversi. La testiera del letto era
fredda, e sentiva il legno fare attrito anche attraverso le felpa del
pigiama.
Poi c’era stato quel gesto. E il suo mondo era andato in pezzi mentre
la sua mente tornava ai gesti teneri e un po’ impacciati di un padre
che metteva a letto suo figlio; un padre che voleva essere dolce, ma
allo stesso tempo non è che ne fosse troppo capace, perchè era un
pugile, lo era stato per tutta una vita, e le mani di un pugile non
sono adatte a toccare un bambino. E si era ritrovato scosso dai
singhiozzi, aggrappato al pigiama di Foggy e incapace di fare altro. In
un altra situazione, probabilmente già il giorno dopo, si sarebbe
vergognato di quella debolezza: lui doveva essere forte. I forti non
piangono per una ciocca di capelli, non si lamentano per la febbre. E
non si aggrappano a una persona che a malapena conoscono. Lui era un
guerriero e i guerrieri non hanno amici, o famiglia. Sono soli perchè
solo da soli possono portare a termine la missione.
Fottiti, Stick.
Foggy gli stava dicendo che lui c’era, che era lì per lui, e Matt
questa volta voleva crederci, perchè di essere solo era stufo. Perchè
le fidanzate andavano e venivano, spesso il tempo di rendersi conto
davvero di avere a che fare con un disabile, e lo spirito di fare da
infermierine al povero cucciolo ferito svaniva presto, perchè le suore
dell’ospedale e padre Lantom avevano troppe anime di cui occuparsi per
fare caso a lui. Foggy era lì, non lo stava abbandonando, e non gli
stava urlando contro per la sua debolezza. Il suo cuore era forte,
forte abbastanza da zittire tutto il resto, come lo era stato quello di
suo padre. Perchè chissenefrega se lasciava le cose in giro e Matt ci
inciampava sopra, lui non lo
faceva per farlo diventare un guerriero, lo faceva perchè era Foggy. Lo
stesso Foggy che aveva fatto tre gaffe nel giro di due minuti il giorno
che aveva varcato la porta di quella stanza, lo stesso Foggy che
“vaffanculo se sei cieco, non sei un (totale) stronzo ed è questo che
conta”, e Matt non sapeva più quante volte gliel’aveva detto.
Era Foggy, che le uniche bugie che gli diceva erano le più innocenti a
cui potesse pensare. Era Foggy, sempre sincero, schietto e diretto.
Era Foggy che gli aveva fatto trovare una registrazione audio fatta con
la propria voce del libro di Legge e Organizzazione Internazionale
quando aveva scoperto che non ne esisteva una versione in braille o un
audio-libro, e l’aveva fatto senza che lui glielo chiedesse, e senza
dirgli niente, perchè era Matt e ovviamente
non l’avrebbe mai accettato.
Era Foggy che gli diceva che non era solo. Erano le sue braccia che lo
stavano stringendo con l’attaccamento di un legame fraterno, perchè
Foggy non era Matt, e se una persona gli piaceva gli si affezionava e
fanculo quello che pensavano gli altri.
Era Foggy che se voleva bene a qualcuno glielo diceva, che se voleva
abbracciare abbracciava e al diavolo le apparenze.
E Matt questa volta voleva
fare il Foggy, perciò continuò a piangere, lasciò che il suo corpo e la
sua mente si sfinissero con quello sfogo convulsivo e cercassero
rifugio nel suo abbraccio, e quando Foggy non accennò a lasciarlo, si
lasciò addormentare sulla sua spalla, sicuro che quando si sarebbe
svegliato, l’avrebbe trovato ancora in quella stanza, perchè era Foggy
e Foggy non mentiva.
Scoprì subito che non solo Foggy non aveva lasciato la loro stanza, ma
nemmeno il suo letto. Quando aprì gli occhi quel mattino, ad
accoglierlo non c’era il suo cuscino, e nemmeno il suo materasso. C’era
solo il petto del suo amico (sì, forse per la prima volta nella sua
vita Matt poteva applicare la definizione di amico a qualcuno) coi suoi
respiri profondi e il suo leggero russare. Appena si mosse, la pezza
che aveva sulla fronte gli cadde in giù e quando la toccò era ancora
umida e fresca, segno che probabilmente gli era stata cambiata non
molto tempo prima. Nel dubbio che fosse rimasto sveglio a vegliarlo,
Matt si costrinse alla completa immobilità per non disturbarlo; non che
avesse tutta questa voglia di muoversi, tra l’altro.
La temperatura del suo corpo era calata rispetto alla notte prima,
questo poteva dirlo per certo, sia perchè non era più così reattiva
agli stimoli, sia perchè ora riusciva ad filtrare le percezioni,
evitando di impazzire (eccessivamente) per il mal di testa, e in
generale si sentiva meglio, e sperava di aver riacquistato anche un
minimo di indipendenza perchè aveva davvero bisogno di farsi una doccia
e cambiarsi la tuta e non era ancora pronto a farsi aiutare fino a quel
punto (e probabilmente mai lo sarebbe stato).
Mentre attendeva il risveglio di Foggy (o il suono della sveglia.
L’avevano puntata, a proposito? Lui non si sarebbe mosso dalla camera,
ma l’altro doveva andare a lezione) la sua mente cercava di tenersi
impegnata, e ci riusciva benissimo. Lo sfogo della notte precedente
sarebbe stato imbarazzante da spiegare, a dir poco.
Perchè cosa cavolo avrebbe dovuto dirgli? Scusa mi hai riportato
indietro di 15 anni?
Mio padre lo faceva sempre prima di darmi la buonanotte?
Che poi, se voleva essere sincero, quella era stata la goccia che aveva
fatto traboccare il vaso, ma era tutto quello che ci stava intorno che
lo aveva portato a crollare, a partire dal quel semplice “tutto ok?” di
quella mattina e l’idea che Foggy l’avesse vegliato tutta notte (anche
perchè altrimenti non c’era altra spiegazione al calo della sua
febbre), cambiandogli gli impacchi per chissà quante ore gli faceva
salire un nuovo nodo alla gola, perchè era una cosa che non accadeva da
quando? Non ne aveva memoria.
Suo padre era sempre stato eccezionale, ma anche tremendamente onesto
fin da quando era piccolo: era solo con un figlio da crescere, e non
riuscivano a pagarsi l’affitto, figuriamoci una baby-sitter. E Matt
aveva imparato presto a capire che i soldi erano una diretta
conseguenza dell’assenza di suo padre. Jack correva sempre se Matt
chiamava, ma poi era dura vederlo preparare la cena solo a lui perchè
non potevano fare la spesa.
Matt chiuse gli occhi e deglutì dolorosamente (senza dubbio si era
preso una tonsillite coi controfiocchi questa volta. Avrebbe dovuto
prendere gli antibiotici, almeno), sempre attento a non muoversi.
-Matt?- Quando Foggy lo chiamò sussurrando non sapeva nemmeno lui
quanto tempo dopo, era in uno stato di torpore decisamente rilassante.
Alzò il capo e si mosse con cautela, lasciando che i muscoli
indolenziti dall’immobilità si sciogliessero poco a poco, liberando
l’altro dal proprio peso e permettendogli di alzarsi. Lui proprio non
se la sentiva di andare oltre, perciò si lasciò ricadere con la grazia
di un rinoceronte sul materasso. -Come stai?-
-Un po’... meglio- non potè evitare di portassi la mano alla gola.
Parlare era una tortura, ma voleva risolvere la questione il prima
possibile -Senti… per stanotte… -
-Febbre alta, Murdock.- Foggy lo interruppe e Matt lo sentì agitare le
mani -Tutti facciamo cose strane quando abbiamo la febbre alta. Io di
solito canto. Tipo, tutta notte. A voce alta. E di solito canzoni
sconce. Spera che non mi ammali-
Era una bugia, Matt lo sapeva perchè il cuore di Foggy aveva
accelerato, ma non riuscì a trattenere un mezzo sorriso. Era una bugia
alla Foggy, di quelle che comunque scaldavano il cuore perchè evitavano
l’imbarazzo delle spiegazioni e avevano un che di risolutivo che Matt
aveva imparato ad apprezzare, nonostante tutto.
-Che ore sono?-
-8.30. Devo sbrigarmi prima di arrivare in ritardo.- come se non
bastasse, Foggy aveva anche la capacità di capire quando lasciare gli
spazi. Non gli stava chiedendo se avesse bisogno di aiuto per
raggiungere il bagno o se volesse fare una doccia, aveva capito tutto
da solo. -Però ho tempo di fare colazione. Vuoi gli occhiali?-
Matt sorrise e scosse la testa, tirandosi cautamente in piedi per
raggiungere il mini-tavolo della loro mini-cucina.
-No. Va bene anche così-
E il sorriso di Foggy era così grande che potè quasi vederlo attraverso
le fiamme del suo mondo.
Grazie per aver letto! Fatemi
sapere cosa ne pensate, non mordo, giuro!
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