Episodio 1:
Game on
14 settembre
2011 ore
23.43
Stati Uniti
d’America,
Pentagono
Si mosse veloce, nessun agente
riuscì a vederlo. Buio. Le
luci al neon che illuminavano il corridoio circolare del Pentagono
tremavano
accendendosi e spegnendosi come in balia di un imminente corto circuito
e come
se sapessero che in quella notte sarebbero accaduti quei fatti, sarebbe
successo quell’evento, che avrebbe poi dato inizio a tutta la
nostra storia.
Il rumore dei passi in corsa
insospettì l’agente Johns che
si girò di scatto. Un’ombra attraversò
la stanza di corsa.
“Who
is there?”
gridò. “Log in! If you
aren’t an
agent, come out with your hands up!”
Nessuna risposta. Johns si avvicinava
lentamente alla curva
del corridoio consapevole della presenza di qualcuno. Un attimo. Il
forte
dolore alla testa lo fece svenire.
“Neanche il tempo di dare
l’allarme… poveretto… non posso
permetterti di intralciarmi.”
Si avvicinò a lui e
staccò violentemente la tessera
magnetica dal cinturone dell’agente Johns. Camminando
lentamente, come se ormai
nulla lo preoccupasse, si avvicinò alla sala del computer
principale e,
passando la card nella serratura elettronica, aprì la porta.
Un’enorme portone
di acciaio inox gli sbarrò la strada.
“Quanta protezione
inutile…” pensò.
Digitò sul pannello alla
sinistra del portone una serie di
numeri e la porta si aprì. Ora davanti a sé aveva
solo la sala, la sala in cui
avrebbe trovato il suo “tesoro”. Entrò
lentamente, evitando i laser che
infestavano il pavimento, con la stessa bravura di un ballerino da
“Teatro alla
Scala”. Si avvicinò al computer principale.
“Enorme!”
pensò.
Si chiese come mai non aveva trovato
ancora un modo per
disattivare il sistema di allarme di laser, ma poi tirò
fuori da una tasca un
CD dati. Lo infilò in una delle porte del computer e
digitò dei numeri sulla
tastiera. Lo tirò fuori e in quel momento comparve qualcosa
di imprevedibile.
Lesse e tradusse la schermata: “Digitare password”.
Ecco quale doveva essere il
sistema per non permettere ad anima viva di uscire di lì.
Senza sapere la
password nessuno sarebbe più uscito da quella porta e
sarebbe scattato
l’allarme. Silenzio. All’improvviso un botto. Un
allarme in lontananza si
faceva sempre più udibile.
Gli agenti della sicurezza
dell’edificio si stavano tutti
dirigendo verso la sala del computer principale.
“Avrei dovuto
ucciderlo!” Pensò, ma ormai era troppo tardi,
urtò senza volerlo uno dei laser.
“Maledizione!” imprecò. Johns aveva dato
l’allarme.
L’agente Rowan fece passare
la tessera nel dispositivo e la
porta si aprì. Digitò 2523532 sul display e la
seconda porta si aprì.
In quel momento, con sorpresa di
tutti, ogni singolo agente
sbarrò gli occhi. Non c’era nulla nella stanza, se
non il computer. Non anima
viva. Nessun essere umano.
La mattina dopo, alle 6.30 del 15
settembre, in Italia una
ragazza aprì pigramente gli occhi. Come ogni anno era
arrivato il primo giorno
di scuola anche per lei. Come era consuetudine ormai da cinque primi
giorni
dell’anno di scuole superiori, Sonia scagliò
violentemente la sveglia contro il
pavimento con tale forza da distruggerla in mille pezzi. Ormai i suoi
genitori
al piano di sotto non ci facevano più caso.
L’unica preoccupazione di suo padre
era che ne avrebbe dovuta comprare un’altra il giorno stesso.
Si vestì
rapidamente di viola, suo colore prediletto, si pettinò i
capelli castani
stando attenta a ricreare la piega finale verso l’esterno e
si mise il
cerchietto con in cima la rosa rossa e si mise gli stivaletti.
Afferrò poi la
borsa e se la mise a tracolla. Come ogni mattina ormai da cinque anni,
si fece
dare da suo padre i soldi per la merenda e per la colazione in un
“lussuosissimo” bar del paese.
Scese le scale e uscì di
casa salutando i suoi genitori e si
diresse verso il suo panettiere di fiducia dove comprò la
sua focaccia
quotidiana.
“Che noia”
sbuffò salendo sull’autobus delle sette.
Il traffico le impose di scendere
alla fermata prima e di
farsi a piedi i cinquecento metri che la separavano dal bar.
Appena ebbe messo piede
all’interno dell’edificio scolastico
erano le 8 meno cinque, il solito orario… Sonia prese il
foglio su cui aveva
stampato la cartine della scuola con la nuova disposizione delle classi
e
sbuffando salì le scale per il secondo piano.
Si soffermò davanti alle
macchinette delle bibite fredde. La
ragazza che inserì la moneta da un euro in essa le sembrava
familiare. Anzi, di
famiglia. Le tirò una pacca sulla spalla e, sorridendo come
non mai, disse lei:
“Salve Sabry!!”
In preda allo spavento la ragazza
bionda si girò e nel far
ciò fece cadere la lattina di tè alla pesca che
aveva appena comprato.
“Sempre la solita! Non
l’avrai vinta finché non
morirò!”
“Beh, a dire il vero mi
chiedevo che cosa ci facessi qui.
Non sai dov’è la tua classe?”
“No e ti sarei grata se tu
mi dicessi dov’è, so che hai la
cartina, ce l’hai ogni anno…” disse
Sabrina girandosi verso il corridoio e
imboccandolo. Sonia la seguì e la indirizzò verso
il corridoio laterale destro
indicandole perciò la locazione della 5°A del Liceo
Scientifico Tecnologico
Hongo. Sabry, prima di intraprendere i cinque metri rimanenti, si
rivolse
all’amica d’infanzia:
“Aaron e l’altro
ragazzino che sta sempre con lui sono già in
classe! Gli ho visti prima!”
“Grazie Sabry! Ci vediamo
dopo!”
“Oggi pomeriggio a casa mia
alle quattro! Ricorda!”
Dopo essersi congedate le due ragazze
andarono ognuna per la
loro strada. Sonia prese la cartina e la stropicciò. Girato
l’angolo del
corridoio, dove c’erano le macchinette delle bibite, la
ragazza si trovò
davanti alla 5°C.
Il chiasso che proveniva dal suo interno era assordante. Sonia
entrò e subito
due o tre maschi le si accollarono.
“Ciao bella! Passate bene
le vacanze?”
“Mi dicono che hai perso
la…”
Questo non fece in tempo a finire la
frase che si ritrovò
contorto con la testa e le braccia ripiegate tra le gambe, intermente
nel
bidone delle immondizie della classe. Nessuno si stupì della
reazione della
ragazza, la conoscevano tutti, Sonia era nota per la sua fama di
maschiaccio.
Non poteva tollerare le chiacchiere e i pettegolezzi stupidi e
infondati. Una
ragazza le si parò davanti. Riccia, bionda, esattamente il
tipo di persona che
Sonia detestava più di ogni altra cosa. Chiara Persi era
nota per il suo
carattere tipico delle ragazze che lei definiva come “gatte
morte”, le
classiche figlie di papà che si danno delle arie e credono
di essere le più
“cool” che mondo. L’unico
“cool” che Sonia, però, notava in lei
era la
somiglianza della sua faccia ad un ben’altro
“cul” e più precisamente alla
Maialina Piggy dei celebri Muppets.
“Non ti azzardare a fare
del male al mio gioiellino!” gridò
come in preda al demonio.
Sonia la guardò con aria
schifata ma calma, conscia della
“situazione penosa” di vita in cui la sua compagna
di classe si trovava. La
guardò quindi sorridendo e le rispose con tutta la calma
necessaria:
“Al posto che elemosinare
la pietà di un povero ragazzino
come una cagna randagia, chiamandolo ‘gioiellino’ e
al posto di farti i cavoli
della mia compagna di classe, – aggiunse riferendosi
evidentemente a sé stessa
– fossi in te, mi preoccuperei della tua faccia, che
assomiglia più che altro,
ad un camion dell’immondizia.”
Scocciata dalla risposta di questa,
Chiara (o “Payass” come
la chiamavano gli altri, senza un motivo apparente) fece per
rispondere, ma venne
interrotta da una voce maschile proveniente dall’altra parte
della classe:
“Ha ragione Sonia. Se
qualcuno ti accusasse di non essere
più vergine alla tua età, tu non ti
arrabbieresti?”
Il ragazzo castano, appoggiato al
muro, rimase perfettamente
immobile mentre diceva queste parole. Chiara invece rimase paralizzata
dallo
stupore di quella risposta. E si sorpresa ancora di più
quando Sonia, che
neanche si era girata per guardare in faccia il ragazzo che aveva
parlato poco
prima, aggiunse rivolgendosi al ragazzo, come se stesse parlando a lui
solo:
“Chiaramente non si
rimarrebbe scandalizzata più di tanto da
un’affermazione tanto stupida, anzi, ne trarrebbe beneficio
di tale ‘accusa’
per farsi pubblicità…” Poi
cambiò tono e si rivolse ancora alla ragazza: “In
fondo, tu non devi preoccuparti di questo, giusto Payass?”
Chiara la guardò. Il suo
viso divenne rosso. Tutta la classe
intratteneva le risate.
“E poi Aaron ha
perfettamente ragione! Non dovresti neanche
preoccuparti che qualcuno azzardi una cosa simile su di te…
sta tranquilla, la
tua faccia ti protegge perfettamente da ogni accusa di quel
genere…!”
Tutti si misero a ridere alla battuta
acida di Sonia, che,
sogghignando, si girò verso Aaron raggiungendolo. Il
ragazzo, dal canto suo,
conosceva troppo bene Sonia e sapeva che sarebbe esplosa nuovamente se
non
fosse intervenuto lui. Aaron Saturn era, come molti, un ragazzo sul
metro e
ottantacinque con capelli castani semi-lunghi che gli arrivavano
più o meno
alla fine del collo. Indossava dei jeans che non erano né
lunghi né corti,
diciamo che gli arrivavano oltre il ginocchio, e una maglietta verde
con
disegnato un fumetto. Accanto a lui c’era un altro ragazzo
all’apparenza
sveglio e sorridente. Anche lui si alzò in piedi. Era poco
più basso di Aaron
ed era anch’egli castano. Era magro e indossava delle scarpe
di marca bianche.
Sonia gli si avvicinò e salutò con un sorriso:
“Aaron! Davide! Piacere di
rivedervi!”
Davide era un ragazzo simpatico, la
classica persona
popolare in una classe. Nessuno si era mai chiesto come faceva ad
essere tanto
amico di un ragazzo così “strano” come
Aaron, ma a lui non importava dei
pettegolezzi. Odiava qualunque forma di cattiveria e praticava molto il
calcio
e il karate. Sonia era l’unica ragazza che temeva!
Giuly passò per il
corridoio correndo, era in ritardo per il
suono della campanella. Si diresse verso l’aula in cui in
precedenza era
entrata Sabry e vi entrò di fretta. Al suo ingresso la
professoressa si girò e
alzò lo sguardo in modo da inquadrare completamente il viso
dell’alta ragazza
riccia e mora. Ansimando chiese scusa e si diresse verso il suo posto,
tenutole
da Sabry stessa. La professoressa la interruppe nel suo tragitto:
“Giulia Rivers, stavo
proprio per dire il tuo nome…!”
Giuly, che non era mai stata, come
Sonia o Sabry, una
ragazza impulsiva e qualche volta anche maleducata, chiese scusa e si
sedette
al posto a lei designato.
“Sei in ritardo Giuly! Dove
sei stata??”
“Scusa Sabry, è
che non trovavo l’aula e il pullman ha
ritardato!!”
“Aha”
annuì l’amica, poi proseguì:
“ti sei persa la sclerata
mattutina della Cerbi! Ha ripreso Alex per via del suo abbigliamento da
bulletto!!”
Un ragazzo scuro e dai capelli quasi
rasi, sentendosi tirato
in ballo, si rivolse direttamente a Giuly:
“Uffa! Lo sai che quella si
arrabbia sempre per tutto! È una
alla vecchia maniera!”
“Oh! Taci Alex!”
Alessandro Nimbieri, detto
“Alex il Nimber” dagli amici, era
sempre stato un tipo alla moda, come Sabry. Indossava spesso la tuta a
causa
della sua – a detta di molti – eccessiva
attaccatura allo sport e detestava
quando qualcuno glielo faceva notare.
La lezione proseguì a
lungo e alle due del pomeriggio ogni
ragazzo era già a casa sua.
Alle quattro e venti il campanello di
casa Bianchi suonò.
Sabry, che d’altronde vi abitava, corse ad aprire la porta.
Un ragazzino di
media statura biondo entrò chiedendo il permesso
gentilmente. Sabry lo guardò e
rimproverandolo disse:
“Sei sempre in ritardo!
Dovresti smetterla Theo!”
“Lo so Moonlight, non me lo
devi ripetere ogni volta! È che
ho perso il primo bus!”
“Non chiamarmi con quel
nome!!” concluse la ragazza facendo
strada a Matteo Bresciani per poi farlo accomodare in salotto insieme
agli
altri: Aaron, Dave, Sonia, Alex e Giuly si stavano già
abbuffando di patatine e
popcorn. Theo si avvicinò a Sonia che gli fece spazio.
“Come è andato
il primo giorno di scuola?” chiese
sorridendo.
“Oh… stamattina
ho fatto una bella scenata a una ragazza!”
Rispose Sonia fiera di sé.
“Questa non è
una novità! Lo sanno tutti che perfino i
professori stanno attenti a metterti voti bassi!!”
Scherzò Aaron.
“Non è
vero!!” Sorrise la ragazza che divenne rossa.
Sabry spalancò una porta e
si gettò sul divano di pelle
tanto rapidamente che Dave non fece neanche in tempo a scansarsi.
Accese la TV.
“Avete portato tutti i
vostri NDS (Nintendo DS)?”
chiese poi non distogliendo neanche un secondo lo
sguardo dal televisore.
“Si!” Esclamarono
tutti in coro, tranne Alex che finse di
non averlo portato in modo tale da provocare l’arrabbiatura
di Sabry, che gli
diede un colpo quando scoprì che in realtà ce
l’aveva con sé.
La televisione era tuttavia non
funzionante.
“Strano!”
suggerì Sabry: “Fino a poco fa
andava…”
Ma non fece in tempo a finire la
frase. Qualcosa successe…
qualcosa che i ragazzi non seppero spiegarsi subito. La televisione si
accese
di colpo e una luce abbagliante invase la stanza. Per un lasso di
tempo, tempo
che nessuno di loro avrebbe saputo contare, tutti quanti si sentirono
leggeri.
Poi tornò il peso e sentirono come un rimbombo. Poi il
vento. Il vento trai
capelli. Nessuno di loro aveva sentito mai una sensazione
così bella. Sembrava
quasi di volare. Il primo impavido che ebbe il coraggio di aprire gli
occhi fu
proprio Alex. Cacciò un urlo che fece spaventare tutti!
Nel vuoto! Stavano cadendo da
migliaia di metri di altezza e
sotto di loro una cascata circondata da un terreno che sembrava
costituito da
rocce. La paura li assalì all’improvviso.
Stranamente, tuttavia, la caduta non
fu per niente dolorosa.
Come se il dolore in quel posto non potesse esistere. Giuly fu la prima
a
domandare “dove siamo” e “come ci siamo
arrivati”. La prima ipotesi, abbastanza
agghiacciante devo ammettere, è stata quella della
morte… ella aveva ipotizzato
che, colpiti dal fascio di luce della televisione dell’amica,
i ragazzi fossero
tutti morti e finiti in paradiso.
La cosa che però aveva
attratto di più Aaron, era stata lì
davanti per tutto il tempo. Una sorta di torre altissima, che toccava
le nuvole
e le oltrepassava. Era blu come il cielo e perciò per vedere
fin dove arrivava
bisognava riuscire a distinguerla da esso. Il ragazzo guardò
attentamente la
porta che portava ad essa e, quello che sembrava, un ponte sopra la
cascata.
“Passiamoci!”
esultò. Non uno dei ragazzi ebbe il coraggio
di seguirlo alla prima incitazione, ma poi la paura si
tramutò nel desiderio di
trovare qualcuno in quella torre che potesse spiegare loro qualcosa di
quello
che gli era successo.
Corsero per dieci minuti per superare
il lunghissimo
ponticello che, nonostante la piccola mole, sembrava reggerli tutti
senza
muoversi troppo. Theo fu il primo a scendere da esso e bussò
forte sul portone
che da lontano sembrava molto più piccolo. Lentamente, uno
ad uno, ogni ragazzo
arrivò davanti alla porta. Ogni tocco che uno di loro faceva
per bussare
rimbombava fortemente nei dintorni, producendo un’insolita
eco.
All’improvviso un rumore di
passi dall’interno, la porta si aprì
leggermente e poi si spalancò. Immaginate voi la sorpresa e
lo spavento del
gruppo quando un drago aprì loro la porta e li chiese di
seguirli!
Tenendo alta la guardia i ragazzi
decisero di accontentarlo.
“Chi sei?”
Domandò curiosa Giuly – e come
biasimarla….
“Sono Majiramon.”
disse calmo il drago proseguendo il
cammino e non girandosi a guardare i ragazzi che lo seguivano
silenziosamente.
Solo Giuly continuava a fare domande
del tipo “Siamo
morti?”, “Dove ci troviamo?”, domande a
cui il drago si limitava ad annuire o a
fare cenno di no. Nel primo caso Giuly si sentì sollevata
perché il mostro
scosse la testa, mentre per la seconda, Majiramon che si sentiva
scocciato
dalle ripetute domande della ragazza si girò per la prima
volta, indicando il
NDS di Giuly e chiedendole di tirarlo fuori. La ragazza
obbedì: aprì la
custodia e notò che esso si era messo a lampeggiare. Quando
lo aprì sullo
schermò apparvero delle scritte, Giuly le lesse ad alta voce:
“Majiramon, Digidrago
Sacro, Livello Evoluto, Tipo Dati,
Tecnica è “Frecce
Incandescenti”“
Sonia proseguì:
“Digidrago sacro? Cos’è un
Digidrago?”
Il Digidrago pigramente si
fermò davanti ad una porta e
rispose:
“Oltre questa soglia
troverete chi potrà darvi una risposta.”
detto ciò aprì l’uscio e fece entrare i
ragazzi.
Dall’interno una voce
anziana, roca, calma e allo stesso
tempo veloce rispose:
“Grazie Majiramon. Puoi
congedarti.”
Al sentire di queste parole il
Digidrago chinò il capo e si
dileguò. La porta si chiuse lentamente e i ragazzi rimasero
soli con la strana
entità.
La voce parlò ancora, ma
non si capì bene da dove proveniva…
“Spero che non vi siate
spaventati alla vista di Majiramon,
è un fedele maggiordomo, non vi avrà
spaventati…”
“Certo che no…
lui è un Digidrago” Disse Sabry ridendo sotto
i baffi. Poi proseguì: “Ma dove sei? Noi non ti
vediamo…”
“Sono ovunque in questa
stanza…” sentenziò la voce
rapidamente.
“Eh!?”
Sussurrò Sabry davanti ad una risposta così
sibillina…
“Penso che abbia
ragione… guardatevi intorno…” Alex
aveva
capito il significato delle parole e indicò la stanza
facendo girare il polso.
Sonia fu la prima a notarlo dopo di
lui: un enorme e
lunghissimo serpente trasparente occupava interamente la stanza tonda.
“Sono
Azulongmon.” sentenziò poi il serpente.
“Sono uno dei
quattro Digimon che proteggono questo mondo digitale!”
“Che
cos’è un Digimon??” Chiese Alex.
“Ah, che
incosciente… avrei dovuto immaginarlo che voi non
sapete…”
Si interruppe e abbassò
l’enorme testone verso i ragazzi,
invitandoli a seguirlo nella stanza accanto.
La porta si aprì da sola e
i ragazzi poterono passare uno ad
uno. Dopo che anche Azulongmon ebbe varcato quella gigantesca soglia,
si
avvolse su sé stesso e si fermò
sull’altissimo soffitto della stanza. La luce
nella stanza si spense all’improvviso.
“Io sono un Digimon, un
Mostro Digitale composto di dati
informatici. Noi Digimon viviamo qui, a Digiworld, quello che a prima
vista
sembrerebbe un mondo digitale pacifico e meraviglioso.”
“Un mondo
digitale… quindi questa è una realtà
virtuale!”
Esclamò Dave tutto d’un tratto.
“Praticamente è
così, solo che i vostri corpi sono realmente
in questo mondo!” dopo che questa frase fu terminata,
Azulongmon cambiò
completamente tono del discorso:
“Abbiamo bisogno di voi! La
profezia parla chiaro: sette
umani avrebbero risvegliato i sette poteri dei Paladini e avrebbero
salvato
Digiworld dal loro ritorno!”
“Il ritorno di
chi?”
Azulongmon si soffermò un
attimo a pensare come se stesse
architettando e pianificando le cose da dire loro. Poi la stanza
assunse colori
e forme. Dal buio scaturì la luce.
“Sono immagini olografiche…” riconobbe
Aaron.
“Osservate bene quella che
è la triste storia di Digiworld:
un mondo che ha conosciuto una terribile battaglia tra bene e
male.” mentre le
immagini scorrevano Azulongmon iniziò a raccontare:
“Molti anni orsono
Digiworld viveva un bellissimo periodo di
pace e prosperità. Io e altri tre Digimon lo governavamo e
ogni Digimon viveva
felice e tranquillamente. Però, questo periodo ebbe subito
fine quando i sette
Digimon che si facevano chiamare “Signori Oscuri”
ne presero il comando!”
“Signori Oscuri? Devono
essere Digimon molto crudeli…” lo
interruppe Sabry, ma Azulongmon non ci fece caso.
“Questi sette demoni
sconfissero me e gli altri guardiani e
ci sigillarono nelle profondità dell’abisso.
Presero il controllo di Digiworld
e lo ridussero sul ciglio della distruzione. Tuttavia, fortuna volle
che
comparvero i sette Paladini. Ognuno di essi riuscì a
sigillare uno dei sette
signori oscuri e a bandirlo nell’Area Oscura, il nucleo di
Digiworld, covo di
molti Digimon malvagi. Dopodiché ognuno dei sette paladini
lasciò dietro sé un
Digiuovo contenente l’erede digitale dei suoi poteri, ovvero
il Digimon che
quando rinascerà prenderà il suo posto. Queste
Digiuova furono assegnate ai
quattro Digidraghi Sacri.”
“Chi sono?”
Chiese Sonia, che nel frattempo teneva d’occhio
le immagini che si alternavano nella stanza.
“Quando mi liberai
dall’abisso, per gli altri guardiani
ormai non c’erano più possibilità,
così mi unii ad altri quattro Digidraghi
come me. Ecco come sono nati i quattro Digidraghi!”
“Aha”
annuì Theo.
“Così prendemmo
in custodia le Digiuova e le custodimmo fino
ad ora. I sette paladini non lasciarono solo quelle. Predissero
l’arrivo di
sette umani e lasciarono per loro sette armi mortali racchiuse in sette
ciondoli
magici che andarono perduti…”
“Quindi i sette prescelti
saremmo noi?”
“Esatto! Nella stanza a
fianco sono deposte sette digiuova.
Sono rimaste chiuse per molti millenni ed è giunto oggi il
momento che si
schiudano. Quando vi avvicinerete ad esse dovrebbe accadere il
miracolo!”
“Non so… non
credo sia reale tutto ciò…” disse Sabry
“Beh, se non lo
è vivremo tutti un’avventura lo stesso!”
Le
rispose Sonia.
“D’accordo! Ci
stiamo!” Esultò Dave.
“Ma perché ci
avete fatti venire qui…?” Chiese a questo
punto Aaron.
“Perché i sette
Paladini prima di morire non predissero solo
il vostro arrivo, ma anche… il loro ritorno!”
L’aria nella stanza divenne
fredda. Le immagini si spensero, le luci con loro. Poi si riaccesero.
“Il ritorno dei sette
Signori Oscuri?”
“Esatto. Voi siete la
nostra speranza. Neanche noi
Digidraghi Sacri abbiamo il potere necessario a contrastarli. Sono
Digimon che
solo dei guerrieri sacri e puri possono combattere. Quando furono
sigillati
nell’Area Oscura, essa venne chiusa a sua volta da sette
sigilli. Ognuno
rappresentava uno dei sette vizi capitali. I sigilli vennero dispersi e
affidati a dei Digimon segreti e misteriosi. Il cancello che separa
Digiworld
dall’area oscura si apre solo quando essi verranno riposti su
quella porta.
Temiamo che qualche Digimon loro accolito abbia intenzione di trovare i
sigilli!”
“Ma è orribile!
Così i signori oscuri si libereranno e
Digiworld crollerà nuovamente nel caos e tanti Digimon
soffriranno ancora!”
Gridò Sabry nuovamente.
“E’
così. Avete accettato un compito che non vi sarà
facile!
Le digiuova sono nell’altra stanza, entrate e si
schiuderanno!”
Lentamente i ragazzi varcarono la
soglia della porta.
FINE CAPITOLO 1
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