- La
statua che venne dagli inferi
- Ryuzaki
odiava uscire: in quei giorni si era chiuso nel mutismo assoluto e si
era isolato nel suo studio che ormai vedeva come un bunker di massima
sicurezza. Lì, i suoi sogni non lo raggiungevano, non lo
perseguitavano, era solo Ryuzaki Lawliet, direttore dell'orfanotrofio
di Winchester.
- Non
dormiva più. Le occhiaie erano profonde e i cali
d'attenzione
numerosi. Se prendeva sonno lo faceva mentre era seduto tra le
scartoffie. Il suo orologio era diventato per lui una dolce nenia che
con il suo continuo e regolare ticchettio lo accompagnava nell'oblio.
Era stato un giorno particolarmente stressante quello in cui aveva
deciso di portarsi le ginocchia al petto. Inizialmente aveva trovato
non poche difficoltà ad accucciarsi su quella sedia girevole
in un
equilibrio precario, ma poi ci aveva fatto l'abitudine e piano piano
i muscoli si erano riabituati a quella posizione adatta più
a un
infante che ad un uomo di venticinque anni. Aveva notato che la
concentrazione era aumentata, ma non lo aiutava affatto a
fronteggiare gli incubi.
Era
per questi motivi che, quando il prete lo aveva convocato nella
sagrestia della chiesa abbandonata, Ryuzaki era come entrato in
crisi. Il padre gli voleva parlare del contratto che legava
l'edificio alla Wammy's house – l'orfanotrofio - ma Ryuzaki
era
sicuro che non ci fosse poi molto da fare, avrebbe semplicemente
dovuto apporre delle firme sui documenti per dare il via libera alla
ristrutturazione, nulla che non potesse fare dal suo studio. Mentre
si avvicinava al luogo dell'incontro tentò di estraniarsi
dall'ambiente esterno, perdendosi nei ricordi che quelle strade
conosciute da una vita gli suscitavano.
- Campane.
La
pioggia precipitava al suolo e il fango sporcava le suole delle
scarpe, rendendo il passo instabile e faticoso. Non gli piaceva
affatto l'idea d'andare lì. Lo trovava inutile.
Profumo
di incenso.
Non
aveva mai creduto in Dio, anzi, Ryuzaki credeva che se ce ne fosse
stato uno sarebbe stato incredibilmente ingiusto e sadico.
La
voce del prete.
Il
canto che si sollevava dalla parrocchia e che giungeva fino a dentro
la sua camera... lo ricordava ancora. Lo aveva sentito per tutta la
sua infanzia, ma quando poi era cresciuto - trovando rifugio
nell'orfanotrofio della Wammy's House - si era come spento e, di
quella chiesa, non aveva voluto saperne più nulla.
L
era sempre stato curioso.
Da
piccolo, tra le mura di casa sua, tra un'ora di studio e un'altra di
gioco, trovava interessante osservare i fedeli che con passo svelto
si recavano a messa. Sarebbe stato considerato irrispettoso, ma
voleva capire a chi si rivolgessero quegli uomini, da chi andassero.
Poi
era successo. I suoi genitori non c'erano più.
Matrimonio
o funerale? Le campane avevano lo stesso suono.
Adesso,
mentre guardava la folla fuggire via dalle strade bagnate, vedeva
quella chiesa abbandonata e si chiedeva che fine avessero fatto le
persone che erano solite frequentarla. Era stata sconsacrata, ma la
fede di quella gente doveva essere ancora viva. Chissà
perché il
prete voleva che entrasse lì dentro.
“Forse,”
disse a bassa voce, incamminandosi nella direzione del grande e
maestoso edificio, “se mi riparassi sotto l'arco della porta
principale, a parte le campane, sentirei qualcosa di diverso. Magari
ho la capacità di percepire dell'altro, un
profumo...” Ma quando
Ryuzaki poggiò la schiena contro la porta della chiesa
sentì solo
il legno freddo e umido alle sue spalle.
- Nulla.
- Si
voltò e col pugno bloccato a mezz'aria restò
immobile: Elle a volte
ricordava quel giorno.
Gli
venivano alla mente quelli che non erano altro che
lampi, fugaci attimi, quasi indistinguibili; ricordava
le vetrate che vorticavano attorno a lui veloci e inarrestabili;
ricordava il suono di campane che non avrebbero dovuto suonare;
ricordava il sangue che sporcava le sue
mani di bambino.
“Perché
entrare qui dentro?” Continuava a chiedersi Ryuzaki, ma la
sua mano
si avvicinava al battente e non potè frenarsi dal compiere
un altro
passo. Suo padre... suo padre che rideva in modo sadico
mentre
disegnava qualcosa sull'altare; suo padre che
parlava
di vita eterna, di morti e di
sacrifici.
La
porta si aprì, nonostante lui non l'avesse minimamente
sfiorata.
Un
lungo corridoio in pietra si stagliava di fronte a lui: muschio e
altri funghi avevano ricoperto di verde gli affreschi e le arcate,
lanciandosi furiosamente contro l'altare dove persino la croce era
avvolta da spine che si arrampicavano lungo il corpo dell'uomo
crocifisso.
Ai
lati di ognuna delle tre navate si ergevano statue di maestosa
bellezza. Nessuna di esse era stata toccata dall'incuria, sembrava
fossero destinate a restare terse, come se lo sporco non le avesse
potute raggiungere.
Alla
sinistra dell'altare ce ne era una in particolare che
catturò
l'attenzione di L come il fuoco attira le falene.
- E
ricordò ancora.
Statue
che sorgevano dal sottosuolo, la terra che si spaccava. Poi c'erano
ancora urla, tante grida che all'unisono sembravano volerlo
assordare.
I
suoi stessi passi lo riportarono alla realtà.
“Perché
sto camminando? Io non voglio camminare”.
A
chi lo stava chiedendo? Tra i meandri della sua coscienza iniziava a
sentire una voce: lo chiamava, lo lusingava, lo pregava di venire.
Ryu...
Ryuzaki... L...
Che
buffo, sembrava anche conoscere il suo vero nome. Nessuno lo ricordava
più, sepolto com'era tra i registri dell'orfanotrofio nel
quale era cresciuto e che ora dirigeva.
“Ryuzaki!”
Sussultò.
La
voce era dietro di lui.
Si
voltò di scatto, ma alle sue spalle non c'era altro che il
nulla.
“Ryuzaki!”
Le
lettere sembravano quasi accavallate le une alle altre: la voce nella
sua testa lo faceva di proposito, in modo che non capisse da dove
proveniva. Girò su se stesso, guardò ovunque, ma
tra le luci e le
ombre dell'edificio tutto gli sembrava talmente aggressivo che si
piegò su se stesso. Le mani afferrarono i capelli e
tirarono, le
unghie graffiarono la cute.
“Ryuzaki!”.
L'uomo
si morse le labbra. Tutto era illogico! No! Non poteva essere!
Perché? Perché lo chiamava?
Il prete voleva forse giocare con
lui? Lo voleva spaventare? Solo lui poteva chiamarlo! Solo lui era
lì
dentro! Un brivido freddo gli percorse la spina dorsale. E se avesse
voluto ucciderlo? Se avesse voluto completare il rito?
“Elle...”
Quattro
lettere, scandite con una calma e una dolcezza che furono capaci di
calmare i battiti accelerati del direttore.
“Sono
qui”.
Ecco,
adesso la voce non correva più, adesso gli diceva dov'era.
Proprio
lì, al suo fianco. Si diede dello sciocco per non aver
capito prima
a chi appartenesse. Com'era bella quella statua! Il viso affilato,
gli zigomi alti e le labbra delicate ma dal tratto deciso. Cosa ci
faceva una figura tanto pagana, capace di suscitare desideri
incommensurabili nell'animo degli uomini, in un luogo tanto casto
come quello?
Era bello – o forse bella? - il ragazzo che
raffigurava, sembrava essere stato messo lì come sfida, per
ricordare a Dio che, dopotutto, l'uomo aveva raggiunto bellezze
perfette, proprio come lui.
“Non
dovrei salire qui,” disse Ryuzaki, ma già aveva
fatto un passo sul
piedistallo e le mani avevano preso a carezzare la veste di marmo che
copriva le spalle della statua. Poi le dita furono attirate
dall'attaccatura alle sue spalle: ali, forti e flessuose che si
slanciavano verso l'alto.
“Forse
mi sono sbagliato,” sussurrò L, “forse
questo non è un umano,
ma una creatura nata direttamente dalle mani di Dio”.
Lentamente le
carezze del moro si soffermarono sul viso della pietra e un tenue
colorito si espanse da lì, dove le sue mani erano posate,
per ridare
vita al resto della creatura.
Le
palpebre tremarono, altra polvere cadde, poi si mossero e L non si
allontanò: terrore o curiosità – non
capiva quale fosse il vero
sentimento - lo tenevano lì, inchiodato a quel piedistallo.
Non
sapeva se scappare via o assistere a quel miracolo.
Gli
occhi erano d'ambra, non aveva mai visto un colore simile e quando
quelle pupille si soffermarono su di lui e le labbra di marmo si
tesero in un sorriso benevolo, decise di restare.
“Mi
riporti alla vita dopo anni di attesa. Sei venuto qui, ti ho
chiamato, mi hai sentito”.
“I
sogni?” Riuscì a chiedere Ryuzaki, le parole che
faticavano ad
uscire dalle labbra.
La
mano delicata della statua si chiuse sul polso dell'uomo, lo
tirò a
sé. Le sue labbra d'angelo saggiarono il collo, prima con la
punta
della lingua, facendogli accapponare la pelle, poi giunse un lieve
bacio che fece irrigidire L: dopo quello, nei suoi sogni, c'era la
fine. Il morso lacerò le carni e, mentre il sangue copioso
scendeva
sulla pelle lattea del ragazzo, un urlo che sembrava non avere
né
tempo né luogo riecheggiò tra le mura.
- Adesso
L ricordava fin troppo chiaramente:
sua madre che
moriva
trafitta da pugnali
di uomini incappucciati;
ricordava
poi gli occhi di
suo padre, che lo inglobavano nel loro campo
visivo; ricordava le
sei statue che erano
rinate dagli abissi
per completare quel rito
e
poi ricordava sempre suo padre avvicinarsi a lui con passo
claudicante.
“È
il tuo turno, è il tuo turno!”. Ripeteva.
“Tutto sarà completo
con te, tutto finirà. Piccolo... vieni qui!” Le
ultime parole
furono un sibilo. Una mano mostruosa aveva arpionato il polso di suo
padre. Era la mano di una statua, di quella statua!
- In
passato lo aveva difeso, quel mostro, e ora lo stava per uccidere?
Perché?
- L
si svegliò madido di sudore e ansimante. Si strinse ancor di
più le
ginocchia al petto e vi tuffò il viso, cercando di calmarsi.
Era
ancora nel suo studio. Andava tutto bene, non stava morendo
dissanguato tra le braccia di un angelo demoniaco. Non sarebbe
più
uscito dal suo studio, non ne aveva la minima intenzione.
Tremante,
si portò alle labbra il caffè ormai freddo.
Rischiò di versarselo
addosso quando qualcuno bussò alla porta. Non voleva aprire!
Non
voleva vedere nessuno! Ma sapeva che il suo comportamento era del
tutto privo di senso. Si dipinse sul viso un'espressione neutra e
lasciò che la paura fosse accantonata in un piccolo angolo
della sua
mente.
“Avanti!”
Disse con una fermezza che non sospettava di avere, ma che si
sgretolò nell'attimo in cui vide il viso dell'uomo.
“Buongiorno,”
disse l'altro, accomodandosi senza aspettare l'inutile permesso
dell'altro. “Sono Padre Lucifero”.
Ryuzaki
fece per parlare, ma non uscì alcun suono dalle sue labbra
schiuse.
Quell'uomo... no, quel ragazzo era la statua dell'angelo che aveva
preso vita nei suoi sogni. Stava forse impazzendo? Non doveva restare
in silenzio, doveva urlare, chiedere aiuto, chiamare qualcuno!
Watari! No, no! Anche il vecchio precettore gli avrebbe detto che
quelli non erano altro che sogni. Si sforzò di rimanere in
sé e con
un soffio, dopo lunghi attimi di silenzio, replicò:
“Che nome
inusuale, per un prete,” la tazzina di caffè venne
poggiata sulla
scrivania, il tremore gli impediva di sostenerla.
“Oh...
ai giorni nostri posso darti ragione”. Disse quello che si
definiva
prete, accavallando le gambe per mettersi comodo sulla sua sedia.
“Per questo motivo sono disposto a cambiare il
nome”. Il ragazzo
si carezzò le labbra. “Diciamo che Light
può andare”.
“Da
portatore di luce...” ma non finì quella frase, la
sua mente era
attirata da altro: quel nome. Si strinse le ginocchia al petto, nella
sua tipica posizione che stavolta era usata come difesa.
“Cos'è
che desidera, padre?” Chiese vacuo, sottolineando con forza
l'ultima parola.
Ma
il prete si stava già alzando. “Solo
ringraziarla”. Light lasciò
la camera, gli occhi d'ambra che brillavano e un ghigno stampato sul
viso.
Apocalisse.
Da
portatore di luce alla luce stessa.
Avrebbe
fatto rinascere gli uomini dalle loro ceneri.
- Si
sistemò addosso la veste sacerdotale del prete che aveva
ucciso e
sorrise ancora.
- Un
mondo perfetto.
L
ne avrebbe fatto parte.
Angolo dell'autrice
Storia partecipante al contest: "Thrill me! Horror Contest Multifandom"
indetto da Setsuka.
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