Capitolo riveduto e
corretto.
«Ciao,
Charlie!». Ero rimasta così scombussolata dagli
ultimi eventi, che vedere mio padre mi dava un indicibile sollievo,
di
solito… Volevo passare il maggior tempo
possibile con lui e anche se la
presenza di Edward era ormai decisamente insostituibile, quella
l’avrei avuta
per l’eternità, mentre mio padre,
ahimé, l’avrei dovuto lasciare a breve.
La proposta di Edward,
l’inaspettata reazione positiva
(almeno migliore delle previsioni) dei miei genitori,
l’improvvisa “schiavitù” a
cui Alice piaceva sottopormi, erano eventi di una tale portata che mi
avevano
condotta alle soglie di uno stress non indifferente. Fortunatamente la
felicità
che provavo quasi ogni pomeriggio in compagnia di Edward poteva ben
compensare,
ricordandomi, di giorno in giorno, quanto ne valesse la pena. Tutto
sarebbe
andato perfettamente, se un filo scucito non stonasse sul ricamo che
avevo
tanto gelosamente confezionato.
«Bella» si
limitò a dire per salutarmi. Il suo saluto
risultò strano, spento, diverso da quelli che abitualmente,
anche dopo essere
venuto a conoscenza del mio progetto di matrimonio, mi rivolgeva.
«Tutto bene
papà?» chiesi, intenta a tagliare le
carote per la sua cena.
«Bells, siediti un
attimo». Eh, no. Non mi piaceva,
quel tono di voce non mi piaceva affatto. Seguii perplessa le sue
parole,
sedendomi di fronte a lui, sulla sedia che mi aveva indicato. Aveva
un’espressione vacua e addolorata. La mia mente rincorreva
velocemente la
possibile causa del problema.
«Cos’è
successo papà?» chiesi, cercando di restare
calma, e nascondere il vile tremolio nella voce.
«Jacob»
esordì, e quel nome fu una pugnalata al cuore
«diciamo che non ha gradito molto l’invito»
fece eloquentemente, come se
dovessi essere a conoscenza di quello cui stesse parlando.
Lo fissai interrogativa, esprimendo
in un’occhiata
tutta la mia confusione. Di certo, non mi sarebbe mai saltato in mente
di
invitarlo alle mie nozze. Non dopo come ci eravamo lasciati, non dopo
tutta la
sofferenza che avevo causato a lui e a Edward. Non che non volessi
ancora
averlo vicino a me, come amico. Ma appunto, non
potevo volere che fosse
nulla più che quello, quando il mio cuore aveva avuto la
certezza di non dover
neppure scegliere quello che aveva sempre saputo e che solo alcune
circostanze
e una mente confusa avevano fatto sembrare in dubbio.
Emisi un breve fiato quando
approdai ad una soluzione,
l’unica possibile: Edward.
«Co-cosa ha
fatto?» sussurrai in preda al terrore. Non
avrei mai smesso, credevo, per tutta la vita, di sentirmi in colpa per
quelle
azioni sconsiderate. Quanto dolore ancora dovevo causare? E il pensiero
che Edward
l’avesse fatto per me, che avesse mandato
quell’invito per rendermi felice e
darmi un sorriso, mi faceva sentire ancora più pentita e
egoista.
Mio padre dondolò da un
lato all’altro della sedia,
accarezzandosi i baffi. Aveva da sempre mostrato una propensione verso
il mio
amico della natura di lupo. «Si è infuriato, a
cominciato a urlare, diceva
brutte cose» fece una pausa voleva, sospirando
«voleva… oh non l’ho mai sentito
parlare così…» borbottò
affranto e crucciato.
Oh Jacob. Un
impetuoso moto di tristezza mi scosse da dentro, stordendomi. Speravo
di aver
per sempre detto addio a questi momenti, speravo che fosse per sempre
finita
quella vita in cui continuavo a causare dolore negli altri, ora che
davvero
un’era della mia vita si stava concludendo. Sentii
le lacrime lottare contro i
miei occhi per riuscire a venire fuori.
Le bloccai. No, quell’era
doveva veramente
concludersi, finalmente. No, per amor di Edward, non avrei pianto. No.
Mi alzai come un automa, facendo
grattare la sedia sul
pavimento nel silenzio della stanza, e andai al tagliere a finire il
mio
lavoro. Avevo svuotato la mia mente, per evitare che qualsiasi pensiero
mi
tormentasse ancora, e che ancora, ancora, la mia mante mi conducesse a
compiere
i gesti più sbagliati.
«Bells, ma,
cosa…?» biascicò Charlie, a dir poco
sorpreso dal mio comportamento.
Continuai impassibile il mio
lavoro. La lama del
coltello scivolava veloce. Tac, tac,
tac.
«Bells…
Ascolta, forse dovresti chiamarlo, non so…
Bella. Voltati quando ti parlo».
Ancora tagli, ancora silenzio.
«Bells…».
Tac, tac,
tac.
«Bella!»
esclamò esasperato, animandosi. «Non fai
niente, non dici niente? Vuoi lasciarlo soffrire? Vuoi causargli altro
dolore?».
La lama si bloccò,
lasciandomi un taglio fra il
pollice e l’indice. Mi voltai lentamente verso mio padre,
tenendomi la mano
sanguinante. Era diventato paonazzo.
«Papà, io amo
Edward. Sto per sposarmi con Edward. Edward,
non Jacob. Edward. Cosa credi che debba fare
esattamente?» dissi senza
particolari inflessioni nella voce, i miei occhi spenti che lo
fissavano senza
guardarlo.
Non rispose, si limitò a
chiudere la bocca che era
rimasta spalancata dopo l’urlo.
Cercando di fermare la piccola
perdita di sangue, più
per amor di Edward che per amor mio, andai in bagno. Mi sciacquai la
ferita
sotto l’acqua fredda e mi misi un cerotto.
Quella sera andai a letto senza
cena, chiusa nel
silenzio della stanza, lo stomaco ormai troppo chiuso nella nausea per
poter
anche solo pensare di mangiare. Charlie, qualunque cosa volesse fare,
sarebbe
sopravvissuto anche senza la mia insalata. Era un buon padre, lo
sapevo. Si
sforzava di esserlo almeno, dopo non esserlo stato per tanto tempo. E
voleva
che sua figlia facesse le scelte migliori, scelte di cui non doversi
pentire.
Di questa, non mi sarei pentita.
Di quelle passate, lo avevo
già fatto.
La stanza silenziosa faceva
viaggiare la mia mente
contro scenari passati, che si stagliavano sul muro come le ombre
prodotte dai
rami. Eppure, pensavo, mi sentivo segretamente ferita dalla razione di
Jacob.
Forse perché una parte di me aveva sperato che potesse
essere davvero
semplicemente quel buon amico che non era stato e che, in quelle
condizioni,
non poteva essere.
Ma dovevo lasciarlo andare.
Sì, lasciarlo andare per
sempre. Era quella la mia scelta, l’avevo fatta, ne avevo
sofferto. Ma tutto
era concluso, ormai, quando il mio amore risplendeva solo per
un’anima: Edward.
Sussultai, sentendo un suono
smorzato di dubbia
provenienza. Mi guardai velocemente attorno, in cerca della fonte. In
altre
circostanze avrei pensato immediatamente a Edward, ma ogni cosa mi
faceva
pensare che fosse ancora impegnato con la caccia. Ne seguì
un altro, e questa
volta mi volsi istintivamente in direzione della finestra, dove, con
mio sommo
sgomento, troneggiava la figura seminuda di Jacob.
Sul volto aveva
un’espressione truce, furiosa, che gli
sfigurava i lineamenti giovani trapassandolo da parte in parte.
Tremai, inconsapevolmente.
«Jacob…» sussurrai appena. Non
avevo intenzione di trovarmi in quella situazione. Non volevo in nessun
modo
riaprire una ferita chiusa e suturata da tempo, né causarne
altre sul corpo del
mio amico.
Le sue labbra tremarono, e con i
pugni lungo i fianchi
avanzò di un passo nella mia direzione. «Bella,
ora tu verrai con me, che tu lo
voglia o meno» mi intimò con voce cavernosa.
Sospirai, scuotendo debolmente il
capo. E mi chiesi,
stoicamente, quale diavolo potesse averlo condotto sul limbo
dell’inferno a cui
i suoi occhi si affacciavano. «No. Jacob, non puoi. Non
farlo» supplicai,
determinata in ogni modo a fermare quell’empietà.
«Non ti
lascerò morire, Bells, basta. Non ti lascerò a
lui. Perché…» inspirò
profondamente «Non puoi buttare via la tua vita in questo
modo, quando la tua mente è così offuscata. Non
hai fatto la scelta giusta, non
hai fatto la scelta migliore. E ti amo troppo per vederla buttare via
così. E
ci ho provato» mormorò con tormento «Ci
ho provato, a lasciarti andare. Ma è
impossibile, perché sento, dentro di me, che devi essere
mia. Ora, vuoi venire
con me?» tuonò cupo, la voce che a stento
nascondeva quella di un ragazzino
innamorato. Mi porse una sua gigantesca mano.
Mi ritrassi d’istinto,
retrocedendo, guardando con i
miei occhi il danno che avevo causato. Un danno che ormai mi appariva
indelebile. Ma un danno che io avevo causato,
spinta, stordita,
ammaliata, da lui. Lo sapeva, per chi batteva il
mio cuore. Lo sapeva,
di chi era sempre stato. Ma la sua ossessione non si era placata alla
luce di
quella ragione.
Inspirai, presi fiato, calmai il
mio corpo. Ero
risoluta. «No, Jacob, non posso. Il mio posto è
qui, il mio posto è accanto a
lui. Accanto a Edward» affermai, con la mia voce
più autoritaria.
Un lampo di puro dolore
passò nei suoi occhi, ben
presto coperto dalla follia. «Tu non capisci! Non capisci!
Non si tratta più di
scegliere, ciò che io ho scelto per te, ciò che
io sono sicuro sia meglio per
te. Vieni. Devi venire».
Sospirai ancora, scuotendo
debolmente il capo.
Ringhiò, sollevando i
pugni al cielo, disperato. «Allora
ti prenderò con la forza». Fece un passo verso di
me.
Automaticamente ne feci uno
anch’io all’indietro,
verso il muro. E in quel momento cominciai a tremare di paura,
perché qualcosa,
qualcosa di strano e alieno di era insinuato nei suoi occhi: follia.
«Lui verrà a
salvarmi, lo sai» tentai debolmente di
minacciarlo.
Si lasciò scappare un
risata fragorosa. «Ah, sì e come
lo saprà? La sua sorellina succhiasangue non può
vedermi, ricordi?» esclamò
beffardo, facendo cadere in una pozza fangosa le mie deboli
intimidazioni.
Perché, se anche Alice si fosse accorta del buco nero fra le
sue visioni,
sarebbe stato così difficile tornare in tempo dalla caccia!
Spaventata e spaurita, tentai di
cambiare la mia
tattica, mentre le parole mi uscivano confuse e poco chiare,
intrappolate nella
mia mente allarmata. «Jacob, ti prego…
tu… sei mio amico. Possiamo rimanere
amici, dovevamo rimanere amici. Tu mi ami, dici. Non lo so se
è vero, ma se mi
vuoi bene non puoi farmi questo».
S’infiammò,
rabbioso. «E tu Bells? Eh? Tu vuoi bene a
me? Però mi fai del male… Come vedi non funziona
così. E come puoi» sputò con
disgusto, un’espressione di ribrezzo sul viso
«Minimizzare così i miei
sentimenti, calpestandoli ancora? Chiamare “voler
bene” quello che provo per
te?! Io ti amo. E anche tu»
dichiarò tombalmente, avanzando di un altro
passo verso di me.
Lo spazio nella stanza si stava
riducendo, causando un
accelerare del palpitare del mio cuore e del sudore, veloce, che
correva in
goccioline sulle mie membra. Sentivo il pericolo vicino a me. Il mio
amico, una
persona a cui avevo voluto e volevo, ancora, bene. Sapevo, pensavo, che
non mi
avrebbe mai fatto del male. Ma portarmi via? Tremai. La sola idea di
essere
strappata alle braccia di Edward mi faceva star male. Ero coraggiosa,
in fondo.
L’avevo sempre fronteggiato. Ma qualcosa, qualcosa che
insinuava la paura nel
mio corpo, mi suggeriva che questa volta non potevo alzare la voce, o
gridare.
Non potevo semplicemente oppormi e affermare la mia volontà.
Non in quel
momento, almeno, in cui sembrava che niente di simile
l’avrebbe fatto
ragionare.
«Jacob…
stai… stai facendo qualcosa che è contro la
legge, è un sequestro di persona!» urlai,
stridula, sperando che Charlie mi
sentisse e che accorresse in qualche modo in mio aiuto.
«Charlie è
uscito», ribatté intuendo le mie
intenzioni.
Un pensiero agghiacciante
m’immobilizzò. Aveva
pianificato tutto, oppure erano d’accordo?
Un ghigno amaro pervase il suo
volto. «Oh, Bells, non
temere. Sarei disposto a fare ben di peggio, per affermare il mio
amore. No,
no. Non sarà la legge a fermarmi».
M’irrigidii, sgomenta e
terrorizzata, sentendo le sue
parole vibrare dentro di me.
Si aprì in un sorriso
sardonico. «Oh, sì. Dopo che ti
avrò portata via, ucciderò il tuo succhiasangue.
Non voglio tormentarti, non
voglio che tu pensi solo di poter esserti sbagliata. Così
non dovrai più
scegliere, visto che non avrai più alternative».
«Non stai dicendo sul
serio. Jacob… Jake…» esalai
senza fiato, stentando a riconoscere la persona che mi stava dinanzi.
«Non stai
dicendo sul serio» mormorai attonita.
Scosse il capo, rabbioso, desolato,
devastato. Stava
soffrendo atrocemente.
«Jake…»
annaspai in pena.
«Zitta!»
urlò, avanzando di un passo e afferrandomi
saldamente e facilmente per le esili spalle.
«Jacob!»
gridai, provando a divincolarmi dalla sua
presa. «Smettila, smettila ti prego! Lasciami andare! Tu sai
che non lo voglio,
ti prego! Non puoi decidere per me!».
Ansimò, addolorato, a
pochi centimetri dal mio viso.
Era distrutto, distrutto dai suoi sentimenti e dal suo amore,
alimentato da un
animo giovane e dalla forza di un licantropo.
«Ascolta» ansimò, fissandomi con
serietà. Una serietà folle. «Ascolta,
ti do un ultima possibilità. Cambia idea,
vieni con me e non lo ucciderò. Io posso darti
ciò che lui non potrà mai farti
avere».
Annaspai, addolorata.
«Jacob, ti prego. Abbiamo già
passato tutto questo. Ne abbiamo già discusso. Conosco il
mio cuore, so quello
che voglio. E so che non potrei mai rinunciare a lui. Io lo
amo»
farfugliai, mentre sentivo lacrime amare di dolore e rabbia scendermi
silenziose lungo il viso.
Sollevò una mano a
mezz’aria, fermando le parole che
lo stavano torturando nel profondo.
«Aspetta»
ansimò, follemente determinato, nel
disperato tentativo di tenermi ancora a sé.
«Aspetta. Forse c’è qualcosa a cui
non puoi rinunciare e che lui non ti può dare. Condividila
con me, e decidi.
Decidi, e questa volta, finalmente, potrai fare la scelta
più giusta» disse, la
voce carica di persuasione.
«C-cosa?»
singhiozzai, smarrita e confusa,
completamente disarmata.
La sua espressione si
cristallizzò, divenendo se
possibile ancora più seria. «Fai l’amore
con me».
Il respiro mi si bloccò
in gola. «Cosa…?» sussurrai,
senza fiato, completamente spiazzata dalla sua richiesta inaspettata.
«Come
puoi anche solo pensare che…io…? Lui»
biascicai, balbettando confusa «lui me lo
può dare…».
Sorrise, quasi teneramente se il
suo sorriso non fosse
stato intriso s’amarezza. Sorrise, come se fosse ovvio che
qualcosa mi stesse
sfuggendo. «Lui non può darti questa esperienza umana.
Io sì» rivelò
pedante.
Gonfiai i polmoni, fremente di
rabbia, rivoltandomi
come un’anguilla fra le sue mani. «Primo»
ansimai, l’ira che permeava le mie
parole «questi non sono affari tuoi. E sì, Jacob,
sì. Lui può farmi fare questa
esperienza da umana!» sbottai,
strattonandolo ancora.
Il suo volto fu trapassato dallo
sgomento. Ma non
rimase immobile a lungo, quando seguirono in rapida successione la
cieca
frustrazione e l’ira.
«Cosa?!»
urlò sgomento. «Ti vuoi suicidare Bells? Sei
pazza?» sbraitò, stringendomi più forte
e causandomi un gemito di dolore. «Se
prima avevo dubbi, ora non ce ne sono più. Non te lo
lascerò fare. Tu, ora, verrai
con me!».
«No!» gridai di
rimando, facendomi piccola fra le sue
mani e chiudendo gli occhi per la paura.
Sentii scuotermi da violenti
tremori. Si stava
trasformando. Mi strattonò verso la finestra.
E mentre la paura cieca e il
terrore esplosero verso
di me, feci l’unica cosa che mi venne in mente. «Ti
odio!!!» urlai, con quanto
fiato avevo in corpo.
In meno di un secondo mi sentii
scaraventare e mi
ritrovai con la schiena schiacciata contro il muro. Scivolai a terra,
boccheggiante. Un dolore immenso imperversava lungo la mia spina
dorsale
impedendomi il respiro.
La figura di Jacob, ritornato
celermente alla sua
forma umana, si avvicinò rapidamente a me. Era spaventato,
addolorato. Neppure
un’ombra d’ira sul suo volto.
«Bella…» mormorò, sorpreso
dal suo stesso gesto,
«Bella…
scusa…perdonami…» mi
supplicò angustiato.
Ansimai, faticando a riprendere
fiato. Mi sentivo
tramortita, e un formicolio doloroso si propagava lungo tutto il dorso.
«Non mi
toccare. Vattene» sibilai con la voce rotta dal dolore.
Mi accarezzò
freneticamente il volto con le mani
grandi e calde. Tremavano ancora. «Bella… Mi
dispiace».
Provai a scostare il viso, non
senza sentire nuove
fitte attraversarmi il corpo. «Edward non mi avrebbe mai
fatto del male»
scandii, decisa, in ogni caso, a mandarlo via.
S’irrigidì
sotto il peso delle mie parole. Il suo volto
era una maschera fissa di dolore. Ero arrabbiata, infuriata. Ed ero
addolorata,
profondamente, perché avevo infine compreso che
l’amicizia che volevo non
sarebbe mai potuta sopravvivere fra di noi. Mi aveva fatto del male.
«Va’
via» ripetei, gemendo.
Si sollevò, lentamente,
e prese ancora fiato,
strizzando gli occhi. Poi si volse e scappò via attraverso
la finestra, in un
balzo.
Ansimai. Il dolore si era spostato,
vibrante, in tutta
la schiena, schiacciandomi con la sua forza pulsante. Faticavo a tenere
il
respiro regolare, come se qualcosa me lo impedisse.
Eppure, nel dolore, un pensiero
scorreva lucido e
chiaro nella mia mente: Edward non doveva sapere. Non volevo neppure
immaginare
quale sarebbe stata la sua reazione, ma qualunque fosse sapevo che
prevedeva
uno scontro con Jacob. E questo non doveva avvenire, pensai con paura.
E non
doveva avvenire, perché, nonostante tutto, volevo che gli
ultimi minuti fossero
cancellati per sempre dalla mia memoria. Edward non doveva soffrire
ancora.
Alice mi avrebbe vista a breve. Non
potevo rimanere
lì, piegata contro il muro. Tremai. Mi pareva, speravo, che
il dolore iniziasse
a scemare. Cercai di muovere un braccio. Una serie di scosse mi
attraversò la
schiena e mi fece lanciare un grido di dolore, soffocato in un gemito.
Respirai,
provando a calmarmi, e stoicamente mossi anche l’altro,
puntando un palmo a
terra, stringendo i denti per soffocare un gemito. Mi misi carponi,
dolorante,
sentendo le lacrime scorrere lungo il viso, strisciando a terra per
raggiungere
il letto.
Mi sentivo ferita intimamente,
pensandomi lì, nella
stanza, abbandonata a me stessa. E pensando con dolore a quanto fossi
causa del
mio stesso male. Singhiozzai, lasciandomi scivolare sotto le coperte.
Respirai
piano, e provai a calmarmi, nella testa l’immagine del viso
di Edward. Spazzai
via le lacrime con i palmi delle mani, scacciando qualunque prova di
quella
notte.
Allungai una mano nel cassettino
del comodino,
misurando i movimenti per contenere il dolore. Afferrai
l’oggetto della mia ricerca:
il flaconcino di antidolorifici. Me l’aveva lasciato Edward,
quel flaconcino,
il giorno di un’altra disastrosa mia avventura. Ingoiai due
compresse, e chiusi
gli occhi, sperando che così la mia memoria e i miei
pensieri si potessero
cancellare.
Il giorno dopo sarebbe tutto
passato, provai a
confortarmi, tentando di ignorare l’acuto bruciore che mi
pervadeva le membra e
il respiro irregolare che mi usciva dalle labbra. Dopotutto, ero
abituata a
farmi male.
Quella sera, per la prima volta da
quando lo conoscevo,
sperai che Edward non venisse. Non avrei mai voluto capisse
ciò che era
successo. Quella era l’ultima parola, la parola fine del
capitolo della mia
vita intitolato Jacob.
I miei sogni furono agitati e
confusi. Vidi strani
boschi, luoghi che sentivo familiari ma che in realtà
dovevano essere di
fantasia: scorci senza tempo dei boschi di Forks. Comparve Edward, di
spalle
rispetto a me. Stava puntando qualcuno, ma non riuscivo a capire chi
fosse. Mi
mossi, più volte, per spostarmi, ma non riuscivo a muovermi.
Capii tutto solo
quando un grosso lupo rossiccio gli si scaraventò addosso,
comparendo in un
lampo nella mia visuale.
Mi svegliai.
Immediatamente la mia mente ci
affaccendò per farmi
comprende quanto di tutto quello fosse realtà o quanto solo
sogno. Ma le
sensazioni vivide sulla pelle e il calore della realtà mi
suggerivano di aver
appena sognato. Allora, anche il litigio con Jacob era stato tutto
frutto della
mia immaginazione?
Sbattei le palpebre, giusto il
tempo di intravedere un
bagliore ramato sparso sul cuscino. Edward. Il mio adone, dio greco
personale,
mi osserva sereno dall’alto della sua bellezza.
«Ben
svegliata…» sussurrò con la sua morbida
voce di
velluto.
Sorrisi e feci per muovermi. Mossa
sbagliata. Sentivo
come se la schiena fosse appena stata percossa da una serie di legnate.
Fu
inevitabile la smorfia sul mio viso che cercai, comunque, di reprimere
in
fretta, spaventata. Non doveva essere stato tutto
un sogno.
Edward mi osservò
incredulo, non intuendo,
fortunatamente, la natura della mia espressione. «Hai ancora
sonno? Hai dormito
11 ore» borbottò. Poi mi sorrise dolcemente,
sistemandomi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «Dovrei pensare che stai
diventando una dormigliona?» mi
canzonò.
Mugolai, troppo inebetita per
rispondere e troppo
preoccupata per farlo. Mi avvicinai al suo petto strofinandomici un
po’ su e
sentendo il suo odore invadermi le narici. La causa del mio lungo sonno
dovevano essere gli antidolorifici. Provavo un misto senso di paura al
pensiero
di fargli sapere di quello che era successo. Speravo che tenerglielo
nascosto
non si rivelasse un’impresa troppo ardua. Lo speravo,
perché in nessun modo
volevo ripetere nel mio animo le orrende sensazioni che erano passate
solo
poche ore prima. Rabbrividii. «Mi-mi sei mancato».
Mi sollevò il mento. Mi
sporsi per farmi baciare.
Baciarlo appena sveglia contribuiva, e non poco, a farmi creare strani
universi
paralleli misti di realtà e sogno. E la mia mente viaggiava,
veloce, da uno
all’altro. Il fiato si fece subito veloce, e per qualche
istante ebbi
difficoltà a continuare a respirare. Lo staccai velocemente
da me, spaventata.
«Che
c’è?» mi chiese confuso.
Dovevo controllare, al
più presto, l’entità del danno.
E sperare davvero che fosse possibile tenerne Edward
all’oscuro.
«Ehi»
mormorò, rompendo il mio silenzio. «Anche tu mi
sei mancata, sai. Se vuoi non me ne vado
più…». Aveva un’ espressione
colpevole
dipinta sul volto. «Alice mi ha detto,
ecco…» iniziò, per poi fermarsi quando
lesse il panico nei miei occhi. Sospirò, scuotendo il capo.
«Non preoccuparti,
anzi mi dispiace per aver mandato il biglietto d’invito.
Cosa… Che cosa vi
siete detti? Volevo lasciarvi parlare un po’ da soli. Le
è preso il panico
quando ha avuto un buco nella visione. Ma… Beh, diciamo che
ho preferito
bloccarla» sussurrò con triste entusiasmo.
Mi morsi un labbro, strofinandomi
contro il suo petto.
«Allora? Cosa vi siete
detti?» mi chiese, baciandomi
la fronte. Mi mise una mano dietro la schiena e mi tirò un
po’ più a sé.
M’irrigidii, colpita da
un acuto bruciore fulminante,
non riuscendo in alcun modo a soffocare un gemito.
Si bloccò di rimando.
«Bella, ti sei fatta male?».
Ansimai, cercando rapidamente di
riprendermi dal
dolore, che scemando, aveva lasciato dietro di sé solo un
pulsante indolenzimento.
«P-perché?» farfugliai, conscia che
mentire sarebbe stato molto più difficile
del previsto.
Mi scrutò perplesso, con
un senso d’ovvietà dipinto in
viso. Mi portò la mano con cui avevo afferrato la sua di
fronte alla faccia. Era
quella col cerotto.
Lasciai andare il fiato in un
impercettibile sospiro,
solo in minima parte rassicurata.
«Stai bene? Ti vedo un
po’ agitata stamattina…»
alitò
a pochi centimetri dalla mia faccia.
Annuii velocemente, arrossendo e
sbiancando - in uno
strano misto - in rapida successione. Mi allontanai velocemente,
concedendomi
una nuova lucidità di pensiero. Se dovevo mentire, mentire a
un vampiro attento
e premuroso, dovevo farlo bene. E in quel momento sarei fallita
miseramente
nella mia impresa.
Lo fissai di sottecchi.
«V-vado un attimo in bagno, ne
parliamo dopo va bene?» riuscii a dire. Avevo bisogno di
tempo, di schiarirmi
le idee e decidere cosa e come dirglielo.
Si mise a sedere sul letto, in
tutta la sua armonia e
grazia. «Certo, vai, ti aspetto qui».
Incerta mi tirai a sedere, e non
appena mi assicurai
di riuscire a rimanere ritta in piedi - non senza un notevole sforzo e
dolore -
agguantai il mio beauty-case e corsi a rifugiarmi in bagno, dove
pregavo di
avere un momento per compiere l’impossibile e dove,
fiduciosa, speravo di non
dover andare incontro al peggio.