ATTENZIONE:
La Rachel
o Corvina o Raven che dir si voglia, che viene presa in considerazione
in
questa storia è una versione leggermente più
ingenua ed immatura di quella che
siete abituati a conoscere, perciò se noterete presenza di
OOC saprete il
motivo.
Buona lettura!
I
Welcome
to Empire City
Camera
sua non era mai stata un
granché. Era piccola, buia e spoglia. Non aveva mobili,
eccezion fatta che per
il letto. Non c’erano armadi, specchi, comodini, nulla che
lasciasse intendere
che quella era la stanza di una ragazza.
Qualche
pigro raggio di luce
filtrava nella stanza passando per le persiane chiuse. Era ancora
pomeriggio.
Rachel
sospirò e si mise a sedere
sul bordo del letto. Un'altra giornata era trascorsa. Un'altra manciata
di ore
e anche quella sarebbe passata. Si era addormentata dopo mezzogiorno,
all’incirca. Aveva riposato fino a quel momento, eppure si
sentiva ancora uno
straccio. La testa le faceva un male lancinante, era esausta e
dolorante.
Probabilmente si era ancora una volta agitata durante il sonno. Questo
avrebbe
anche spiegato le perle di sudore sulla sua fronte. La ragazza dai
capelli
corvini inspirò profondamente, esasperata da quella
situazione. «D’accordo
Rachel... puoi farcela... forza... puoi farcela... manca poco...»
Una
fitta di dolore più forte la
colpì alla testa. Gemette, serrò le palpebre e la
mascella e strinse la presa
sulle lenzuola, fino a farsi male alle mani. Il cuore
accelerò all’improvviso i
suoi battiti, il respiro si fece irregolare, cominciò ad
andare in
iperventilazione.
«No...»
mormorò, tra una breve boccata d’aria
l’altra. «No... non ora...»
Con il fiato sempre più corto e il cuore
che sembrava in procinto di esploderle nel petto, la ragazza si
premette le
mani sulle tempie con estrema forza. «Ti prego, ti prego, non
farlo, non
farlo...»
Riaprì gli occhi, trattenne il respiro
per qualche istante, poi lo rigettò fuori. «Puoi
farcela Rachel, puoi
controllarlo, devi solo calmarti, devi rilassarti Rachel, rilassati...
devi...
devi... agh!»
Allontanò
di scatto le mani dalle
tempie, emettendo un grido strozzato. I palmi avevano cominciato a
bruciare terribilmente.
Abbassò lo sguardo per controllare e vide entrambe le sue
mani cominciare a
tremare. Impallidì. «No,
no, no, no...»
Di nuovo, trattenne il fiato e serrò gli
occhi, contraendo la mascella. «Posso farcela, posso
controllarlo, posso
farcela, posso controllarlo...»
Ci mise tutta la sua forza di volontà.
Sentì venire risucchiato via quel poco di energie che ancora
poteva avere.
Continuò a ripetere a sé stessa di potercela
fare, di essere forte, di non
lasciarsi sopraffare. Il cuore continuava a martellarle nel petto ed
era ancora
in iperventilazione. Dopo attimi interminabili, tuttavia,
percepì il proprio
battito cardiaco stabilizzarsi, e anche la respirazione
tornò regolare, come se
il suo corpo stesse davvero ascoltando le sue parole. Riuscì
a trovare il
coraggio di riaprire gli occhi. Vide i suoi palmi e con suo enorme
sollievo non
notò alcun tremore. Tutto era normale.
Sospirò rumorosamente di sollievo, poi
si accasciò sul materasso. Il rumore del suo respiro
regolare giunse alle sue
orecchie, mentre osservava il soffitto incrostato, rimuginando su
quello che le
era appena accaduto e sul disastro che aveva appena evitato per
miracolo. C’era
riuscita, di nuovo. Per almeno un altro giorno non avrebbe
più dovuto
combattere. Forse.
Non poteva andare avanti in quel modo.
Erano giorni interi ormai che se ne stava segregata in camera sua, a
lottare
con sé stessa. A cercare di reprimere il suo stesso corpo,
per timore di quello
che avrebbe potuto fare. Si sarebbe consumata da sola, continuando di
quel passo.
Doveva fare qualcosa, doveva trovare il modo di tenere la mente
occupata, di
non restare ferma troppo a lungo. Restare in casa non funzionava, aveva
smesso
di farlo già due giorni prima.
D’altronde,
la situazione in
città si era calmata. Non aggiustata, ma quantomeno calmata.
Il che era un gran
passo avanti. Inoltre, l’atmosfera di camera sua aveva
cominciato ad
opprimerla. Quelle pareti scrostate e piene di aloni di muffa in quella
camera
microscopica, la irritavano.
L’odore
stantio della stanza giunse
all’improvviso nel suo naso, sgradevole come un visitatore
indesiderato. Rachel
fece una smorfia. Non aveva appena represso sé stessa per
l’ennesima volta
solamente per tornare a preoccuparsi di quello schifo di posto.
Quello era troppo, perfino
per lei. Doveva
uscire.
Annuì
a sé stessa. Afferrò la
felpa nera con cappuccio che aveva lasciato al bordo del materasso e la
indossò
sulla canotta che aveva usato per dormire, poi si alzò dal
letto e si diresse
alla porta.
Il
pavimento di legno cigolò
sotto i suoi passi, così come la porta quando la
aprì.
Uno
spoglio corridoio la condusse
in salotto. Qui Tara era stravaccata sul divano, intenta a guardare la
televisione. Come facesse a passare il tempo guardando la spazzatura
che veniva
trasmessa, per Rachel era un mistero. Da quando c’era stata
l’esplosione in tv
non avevano trasmesso altro che notiziari, vecchi film prelevati da
chissà
quale discarica e spot contro il terrorismo. Inutile dire che non aveva
mai
guardato nessuna di quelle cose.
Ignorò
la ragazza bionda e si
diresse alla porta. Tara non sembrò fare caso a lei fino a
quando non afferrò
la maniglia. «Che
stai facendo?» domandò
spostando pigramente lo sguardo verso
di lei, apatica. Non sembrava davvero interessata, probabilmente lo
aveva
chiesto solamente per scaramanzia.
«Esco» replicò
Rachel aprendo la porta.
«E i Mietitori? Lo sai che è
pericoloso
uscire.»
Rachel sorrise, cercando di apparire
sicura. Sollevò una mano. Il palmo le si illuminò
di una fioca luce nera. «Loro
non mi fanno paura.»
Tara la soppesò con lo sguardo ancora
per un momento con i suoi occhi azzurri privi di qualsiasi emozione,
poi
scrollò le spalle e riportò la sua attenzione
alla televisione. «Come ti pare.»
Il sorriso svanì dal volto di Rachel
quando udì quella risposta. Abbassò la mano.
Sospirò ed uscì, per poi
richiudersi la porta alle spalle.
***
Fuori
la situazione era anche
peggio di come la ricordava.
Empire
era una città situata
sulla costa East che sorgeva su tre isole diverse, una per distretto.
C’era il
Neon, dove abitava lei, poi il Dedalo e il Centro Storico. Il Neon era
sempre
stato il più bello dei tre. Era più bello del
Dedalo, che in ogni caso avrebbe
fatto sembrare una discarica un resort a cinque stelle, ed era anche
più bello
del Centro Storico, dopo che quest’ultimo era stato mezzo
distrutto
dall’esplosione in particolar modo.
Ma
in quel momento, sotto ai suoi
occhi, anche il Neon sembrava il fantasma del vecchio sé
stesso. Un luogo
oramai costituito da edifici dismessi e mendicanti. Le insegne luminose
che un
tempo rendevano quelle strade uno sfavillante miscuglio di colori
adesso erano
spente. Cinema, bar, discoteche, locali che fornivano ogni genere di
intrattenimento, ora erano chiusi, con le sbarre alle porte e alle
finestre. La
gente rovistava nei bidoni della spazzatura per cercare qualcosa da
mangiare,
cadaveri di automobili, e anche di persone, stavano sul ciglio della
strada,
questi ultimi in attesa che qualcuno andasse a rimuoverli prima che si
decomponessero. Una cosa macabra, effettivamente, ma purtroppo era la
triste
realtà.
Alcune
auto passavano per la
strada, ma erano poche, e tutte quante ammaccate e con la carrozzeria
arrugginita.
Rachel
si strinse nelle spalle ed
incassò la testa sotto al cappuccio della felpa, per celare
il suo volto
pallido da sguardi indiscreti. Si impose con la forza a proseguire
tenendo gli
occhi violetti bassi, ad ignorare quei poveracci che chiedevano
l’elemosina e,
soprattutto, a non guardare nessuno di quelli che camminavano accanto a
lei.
Era
uscita per respirare un po’
di aria nuova, pulita, e per cercare di distrarsi un po’, ma
tutto quello che
aveva respirato fino a quel momento era la desolazione di un luogo
oramai
morente. E le uniche distrazioni che aveva trovato erano stati i morti
di fame
accasciati sul marciapiede zeppo di crepe.
L’esplosione
aveva apportato
profondi cambiamenti a quella città.
La
gente viveva ognuna nel suo
mondo, c’era freddezza nell’aria. Nessuno parlava
con nessuno, tutti quanti si
comportavano esattamente come lei. Tutti avevano paura.
«Aiutatemi...» Una voce
si sollevò in aria all’improvviso. Il tono era
flebile, sembrava stesse per
spegnersi da un momento all’altro. Fu seguita da tutta una
serie di orribili
lamenti, versi di dolore e colpi di tosse.
Un uomo era sdraiato sul marciapiede a
poca distanza da lei, si stava contorcendo. «Mi... mi fa male
dappertutto...»
Rachel pietrificò. Rimase ad osservarlo
mentre sguazzava nel suo dolore, non sapendo minimamente come
comportarsi.
Quello era ferito su più punti del corpo, come se fosse
appena stato picchiato
crudelmente. Cosa che poteva benissimo essere successa per davvero.
Poteva
essere stato scippato da qualcuno, o anche peggio.
«Aiu... ta... temi...»
rantolò ancora
l’uomo, tendendo una mano verso i passanti, i quali facevano
di tutto per non
guardarlo.
La ragazza rimase immobile, ad
osservarlo. Aveva bisogno di aiuto. Stava soffrendo e nessuno sembrava
disposto
a dargli importanza. Doveva fare qualcosa. Ma cosa? La sua mano
uscì quasi in
maniera autonoma dalla tasca. Abbassò lo sguardo e la
osservò. Deglutì, poi si
concentrò e il palmo si illuminò di nuovo di
quella luce nera. Guardò la mano,
poi l’uomo a terra, poi ancora la mano. Un pensiero le
attraversò la mente.
Forse...
forse posso...
«Resista!» un’altra
voce, questa volta
dal timbro più acuto, la fece trasalire e nascondere di
nuovo la mano nella
tasca.
Una donna si era appena chinata accanto
all’uomo, e gli stava esaminando le ferite. Rachel riconobbe
all’istante la sua
camicia verde acqua e i suoi jeans azzurri. «Stia tranquillo,
sono un medico.»
L’uomo rantolò qualche parola
incomprensibile, poi si lasciò controllare dalla donna.
Rachel rimase ancora immobile, ad
osservare la scena.
I
medici. Probabilmente
gli unici eroi che potessero ancora esistere in quella
città dimenticata da Dio. Gli unici a cui ancora importava
qualcosa delle altre
persone, gli unici che avrebbero continuato a svolgere il loro lavoro,
con il
sole e con la pioggia. Gli unici individui altruisti
rimasti, di cui ci si poteva fidare.
Una folla di persone si radunò attorno
al medico e all’uomo all’improvviso, ognuno dicendo
la propria sottovoce.
Rachel fece una smorfia. Ipocriti.
Persone che prima se ne sarebbero infischiate di quel poveretto, ora
fingevano
interesse semplicemente perché c’era
già qualcun altro ad occuparsi di lui. La
ragazza scosse impercettibilmente la testa, poi proseguì per
la sua strada,
aggirando il gruppo.
Forse era un bene che fosse andata così.
Non era molto sicura di ciò che avrebbe potuto fare con i
suoi poteri in quel
momento. Inoltre non voleva rischiare di farsi vedere da qualcuno
mentre li
usava. Già una volta l’avevano vista
all’opera, e le cose non erano andate
affatto bene. Rabbrividì a quel pensiero.
Affrettò il passo. Voleva solo
allontanarsi da là e al più presto.
Proseguì per la sua strada.
Cominciò a
pensare che forse l’essere uscita in quel modo non era stata
una grande idea.
Alla fine, non aveva fatto nulla di che, né visto, nulla di
che. L’unica cosa
che aveva ottenuto uscendo era stata la conferma
dell’autodistruzione di quella
città.
Incontrò altri feriti per strada. Altri
mendicanti, altra gente che rovistava tra i rifiuti. Altri cadaveri.
Vittime. Vittime su vittime.
Tutte causate, chi direttamente, chi no,
da un solo avvenimento, accaduto in un terribile giorno lontano ormai
un mese.
L’esplosione, così era stato chiamato. Ed era
stata proprio un’ esplosione di
proporzioni gigantesche nel cuore del Centro Storico ad aver sconvolto
la
città.
Migliaia di persone erano morte, quel
giorno, e ancora in quel momento i suoi effetti si ripercuotevano sulle
persone.
Quando la gente si era resa conto che
nessuno di loro avrebbe ottenuto aiuti dal governo dopo la distruzione
di un
intero distretto, erano arrivati i tumulti. Furti, rapine, stupri.
Nessuno
aveva fatto nulla per fermare tutto ciò. I poliziotti, gli
unici che avrebbero
ancora potuto fare qualcosa, non avevano mosso un dito. Erano tutti
morti, o
troppo spaventati per combattere.
Come se non fosse bastato, in giro aveva
cominciato a correre la voce che un’epidemia si fosse
abbattuta sulla città.
Che fosse vero o no, Rachel non lo sapeva, dopotutto era impossibile
capire chi
fosse davvero malato e chi no. In ogni caso, quello era stato il
pretesto che
il governo aveva usato per sigillare la città, ovvero
l’impedire che l’epidemia
si diffondesse in tutto lo stato. Avevano tagliato ogni contatto tra
Empire e
l’esterno, istituendo posti di blocco pattugliati da
centinaia di federali su
ogni strada o ponte che conducesse verso il confine con le altre
metropoli. I
mari invece erano controllati da decine di cacciatorpedinieri e le
contraeree
abbattevano qualsiasi aereo o elicottero non autorizzati. Non
c’era nessun modo
per andarsene. Erano in quarantena.
Gli abitanti del luogo erano stati
letteralmente chiusi in gabbia, assieme a tutti quegli psicopatici che
avevano
approfittato della situazione già disagiata per poter
commettere ogni
qualsivoglia di crimini.
L’unica cosa che veniva fatta per loro,
forse per misera pietà, era lo sganciare delle casse di
provviste, cibi e
medicinali, a periodi discontinui. Potevano arrivare dieci casse a
settimana,
come due casse ogni tre mesi. E quando ciò accadeva, non
sempre si assisteva ad
una spartizione equa di questi beni tra le persone.
E per finire c’era lei. Non voleva
nemmeno pensare a ciò che le era successo.
«Attenzione,
cittadini del Neon District di Empire City.» Quella voce esplose all’improvviso dalle
decine di altoparlanti sparpagliati per la città. Rachel
alzò lo sguardo, verso
il grande schermo retto da un alto traliccio. Questo era acceso, il che
significava solo una cosa. Un annuncio importante stava per essere
trasmesso. E
in genere accadeva per un motivo solo. Un uomo con il volto oscurato
apparve
sullo schermo. Cominciò a parlare, mentre
l’immagine sfarfallava di tanto in
tanto. «Ci hanno appena riferito
che i
federali hanno appena sganciato una scorta di viveri ad Archer Square.
I
bugiardi al potere hanno anche detto che ognuno avrà la sua
parte e che
arriverà altro cibo. Facile parlare, quando non sei tu a
dover vivere in questo
inferno! La verità e che ci hanno abbandonati! Nessuno
verrà a salvarci, quindi
andate ad Archer Square e prendete quelle provviste prima che arrivino
i
Mietitori!»
Rachel osservò ed ascoltò
sbigottita il
tutto. Lo schermo si spense di nuovo. «Wow...»
commentò, meravigliata dalle
parole di quell’uomo. Lo sapeva che erano spacciati, lo
sapeva che erano stati
abbandonati e che nessuno li avrebbe mai salvati, ma non lo aveva mai
detto
apertamente. Né lei, né tutti quelli che proprio
come lei lo sapevano. Quelle
erano cose che non si dicevano, per non gettare nel panico chi ancora
era
abbastanza folle da sperare in qualche aiuto dal cielo. Nemmeno al
governo faceva
piacere sapere che c’era qualcuno che lo diffamava,
giustamente tra l’altro. A
quanto pare, qualcuno che invece non aveva paura di dire le cose come
stavano
c’era ancora.
Non
avrà vita lunga...,
pensò con amarezza guardando quello schermo
ormai nero.
Ma non poté pensare a
quell’agitatore
più di tanto, perché l’argomento viveri
fece il giro per tutta la strada. La
gente che dapprima rovistava nei rifiuti, ora si era messa a correre,
insieme a
tutti gli altri, ognuno con una meta comune: Archer Square.
«Spostati ragazzino!»
esclamò un uomo
che per poco la urtò al proprio passaggio.
«Non sono...» provò
a rispondere lei, ma
quello era già distante anni luce. Rachel grugnì
di rabbia, poi sospirò
rassegnata.
La gente continuava a correre accanto a
lei. Pensò a quei viveri. Un po’ di cibo non le
avrebbe certo fatto schifo, a
dire il vero. Inoltre, se ne avesse portato un po’ anche a
Tara, magari le cose
tra loro si sarebbero aggiustate.
Magari.
Archer Square. Non era molto lontano.
Rachel annuì a sé stessa. Poteva farcela.
Sistemò meglio il cappuccio sui
capelli neri, poi cominciò a correre.
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