L’imbuto distilla fiele celando il contenuto incrostato eppure liquido.
Osservo, annuisco, libero i polmoni dalla nebbia e invoco il tempo di
fermarsi.
Roche richieste d’aiuto ronzano nell’aria come zanzare sanguinarie. Non
funziona, l’ipnosi continua, l’impasse, la stasi, l’atrofia che vanno diffondendosi
nel mio corpo non desistono dal tenerlo scolpito nel ghiaccio.
Forse sono io che richiedo mutamente soccorso a quelle ciocche di capelli, a
quei brandelli di vestiti e di ricordi accartocciati ai piedi del letto.
Non so.
Ignoro quindi non so.
Vivo. Almeno credo.
Le ragnatele sul cuore sono difficili da sopportare: lo avviluppano, gli si
appiccicano come fastidioso zucchero filato e lo rendono inutile, usato. Come si
cambiano le pile? Dov’è l’interruttore? C’è puzzo di vecchio; di stantio. Devo
rassettare, riordinare. Da quant’è che non funziona come dovrebbe?
Allora non vivo.
Vivo senza cuore.
O forse il mio cuore vive senza di me.