The Other One
Circus
La
notte era più nera che mai senza la tonda Luna a dare
un'idea
dei contorni della bella City, ma questo non intimoriva Hortensia la
quale, anzi, aveva
trovato più volte salvezza lasciandosi inghiottire dal buio
per sfuggire ai suoi inseguitori.
Eppure quella sera era inquieta. La Adler le aveva inviato diversi
messaggi dal loro ultimo incontro e lei li aveva ignorati tutti. Quelli
di John Watson erano velatamente minacciosi, ma lei non si era offesa e
gli aveva inviato un sms ogni tre ricevuti.
Sherlock, invece, non si era ancora fatto vivo preferendo far impazzire
il suo coinquilino anziché semplicemente ammettere di non
avere
l'informazione che voleva e di non sapere come reperirla se non
torturando l'amico medico. Testardo. Forse anche più di lei.
Hortensia spense il portatile, stufa di leggere online cose che
già conosceva e si alzò dalla scrivania
preferendo uscire da quella stanza e, possibilmente, anche dai propri
pensieri.
A piedi nudi, per non fare rumore ed essere in linea con la
personalità di Mycroft, sempre così silenzioso da
dare la
sensazione di non essere reale, prese a gironzolare per casa
dimenticando quasi la
presenza di suo fratello all'interno dell'abitazione. Era rientrato dal
Diogenes Club circa tre quarti d'ora prima, ma i due non si erano
incontrati, né avevano quindi parlato. Parlare era un'azione
che
aveva sempre compiuto poco, ma ultimamente stava toccando i minimi
storici a causa delle persone che le ruotavano attorno, o alle quali
lei ruotava attorno. Questo ancora non l'aveva capito. In compenso
aveva aggiunto nuove informazioni ai dossier catalogati con il nome di
Fratelli Holmes. Si trattava di una corposa cartella, contenente a sua
volta due sottocartelle rinominate "Mycroft" e "Sherlock", custodita
nient'affatto nel suo pc, né in un hard disk esterno o in un
microscopico supporto digitale. Tutte le informazioni si trovavano
nella sua mente oltre che nel caveau situato nel cuore del Gottardo,
uno dei luoghi ritenuti più sicuri al mondo. Si trattava di
un
bunker a tutti gli effetti, perfettamente nascosto tra le aperture
naturali del massiccio, e Hortensia lo aveva scelto non soltanto per la
massima sicurezza offerta, ma anche perché le era stato
possibile depositare la parte virtuale della documentazione in una
preziosa e super protetta banca dati elettronica a prova di hacker. Ne
aveva testato personalmente l'efficacia. L'intera sua esistenza era
quindi
secretata nel bel mezzo dell'arco alpino e a meno che qualcuno non
ideasse un metodo efficace per estrapolare informazioni dalla
mente umana contro la volontà del legittimo proprietario,
nessuno sarebbe mai arrivato a quell'archivio. Neanche Mycroft Holmes.
Neanche Sherlock Holmes.
Si fermò nel grande salotto, accese solo una delle quattro
alte abat-jour sistemate agli angoli della stanza lasciandosi
avvolgere da una calda luce soffusa che ricordava quella delle candele
o di un caminetto, e si servì un bicchiere di Cider-Brandy
del
Somerset1.
Suo fratello sceglieva sempre il meglio per se stesso.
«Burrow
Hill. Hai la sensazione di essere lì, non è vero?
Tra meli e barili di sidro».
Un repentino tremore della mano, che rischiò di far
traboccare
il liquido dal prezioso cristallo lavorato, tradì la
sorpresa di
Hortensia
quando l'inconfondibile voce vellutata, in perfetta armonia con
l'ambiente, riempì
la stanza.
«E dimmi,
Mycroft, da quando sei così romantico?», gli
chiese dissimulando abilmente lo spavento.
Lui
sospirò e Hortensia fu certa che avesse alzato gli occhi al
cielo, che si fosse appoggiato alla poltrona in pelle, avesse spostato
il peso su una gamba sola e avesse incrociato l'altra dietro la
prima. Quando si voltò, trovando conferma alle sue
deduzioni, la donna reggeva un secondo bicchiere
che offrì a suo fratello.
«Poetico»,
le rispose. «È
diverso», precisò sorseggiando il delizoso liquido.
Hortensia
annuì. «Ma cambia comunque poco. Tu sei Mycroft
Holmes e
le emozioni scappano via urlando quando ti vedono».
Nella penombra del salotto poté vederlo aggrottare le
sopracciglia e contrarre le labbra, come se disapprovasse
ciò
che lei aveva appena detto oppure, forse, come se semplicemente non si
aspettasse quella naturale confidenza da parte sua. Più la
seconda, probabilmente.
«Tuttavia
non sono una macchina», mormorò a mezza voce, con
le
labbra già ad avvolgere il bordo del bicchiere.
Hortensia
lo trovò affascinante in un modo tutto suo. Mycroft non era
quello che comunemente si definisce un bell'uomo, eppure non si
poteva fare a meno di cadere nella sua ragnatela se si aveva a che fare
con lui. Non aveva smesso di guardarla dritto negli occhi neanche per
un istante costringendola, infine, a cedere e abbassare le palpebre per
concentrarsi apparentemente sulle proprie dita strette attorno al
bicchiere. Non era da lei un atteggiamento del genere e sapeva che se
dinanzi a lei non ci fosse stato suo fratello ma un pericoloso nemico
come Magnussen o Moriarty, quel comportamento le sarebbe costato caro.
Per due volte nel giro di pochi minuti si era lasciata condizionare.
Qualcosa in lei era cambiato da quando aveva iniziato ad interagire con
i suoi fratelli e si rendeva conto che quel qualcosa rispondeva al nome
di sentimenti e che questi erano alla base della sua irrequietezza.
«Esattamente
perché ti sei messo sulle mie tracce?». Era il suo
turno di spiazzare l'interlocutore.
Nelle settimane
successive alla
visita di Hortensia in Baker Street Sherlock aveva messo a dura prova
la pazienza di John. Non era trascorso attimo in cui il consulente
investigativo non avesse tartassato il suo amico con il solito,
insistente,
ossessionante quesito: "Qual è il suo nome?". E non era
trascorso istante in cui il medico non avesse usato violenza su se
stesso al fine di tacere, ritenendo più opportuno che i
gemelli
se la sbrigassero tra loro. Non era di suo gradimento essere il mezzo
attraverso cui perpetrare dispetti di sorta. Nonostante la sua ferma
convinzione e l'atteggiamento mai stato più ferreo di
così nei confronti di Sherlock - il suo passato da militare
svolgeva un ruolo chiave in questa circostanza - l'uomo aveva ceduto
all'istinto di inviare alcuni sms alla donna. Non era stato gentile da
parte sua rubare il cellulare di Sherlock e segnarsi il numero di sua
sorella: si era sentito estremamente stupido, al pari di un ragazzetto
che fa il cretino con la sorella del proprio amico. Ma non era per
corteggiarla che aveva voluto il suo numero di telefono,
perciò
decise che poteva smetterla di rimproverarsi. E poi Hortensia non gli
era sembrata offesa benché non avesse risposto a tutti i
messaggi. Non che lui si aspettasse un comportamento diverso, anzi, era
certo che lei lo avrebbe completamente snobbato. Ogni tanto, nel
tentativo di ignorare l'irritante insistenza di Sherlock, i pensieri di
John erano corsi indietro a quell'incontro e più
precisamente a
quando Hortensia gli si era fatta vicina. Avrebbe
potuto esibirsi nel pessimo tentativo di distrarla e destabilizzarla
baciandola, - se anche caratterialmente somigliava a Sherlock, un
contatto di quel tipo avrebbe mandato in tilt il suo cervello, John ne
era certo -
ma a guardare le labbra piene della donna gli erano venute in mente
quelle di Sherlock e per qualche perverso scherzo della sua mente, le
aveva trovate più attraenti di quelle della gemella.
Sì, era riuscito ad ammetterlo a se stesso anche se questo
non
l'aveva affatto rassicurato spingendolo invece a formulare le ipotesi
più disparate tra cui la faceva da padrona quella del
dèjà-vu, ovvero il suo cervello aveva avuto un
guasto
momentaneo a causa di quella strana visione che aveva per protagonista
la fotocopia femminile del suo coinquilino. Una qualche parte della sua
mente non meglio precisata aveva suggerito qualcosa in merito a certi
meccanismi del suo subconscio, ma John non le aveva dato retta
preferendo non credere che Hortensia avesse avuto quell'effetto su di
lui in quanto era un corpo femminile con fattezze del tutto simili a
quelle di Sherlock il quale costituiva il reale oggetto del desiderio.
"Ma
di che desiderio stiamo parlando? Per favore! Io non sono gay", si era
detto scacciando via quei pensieri con un gesto veloce della mano
come si fa con il carrello della macchina da scrivere.
Si stava radendo quando Sherlock aveva fatto irruzione nel suo bagno ed
esordito con un «Hailey
Wendi Holmes». Per poco John non si era tagliato sul mento.
Era invece intento a studiare i risultati di alcuni esami per un suo
paziente quando Sherlock fece capolino dalla cucina, con una provetta
in mano, e disse «Hope
Winona Holmes». John Watson si alzò e si chiuse
nella sua camera da letto senza proferir parola.
Appena rientrato dal lavoro, nel tardo pomeriggio, aveva trovato ad
accoglierlo uno Sherlock seduto a gambe incrociate sulla poltrona e non
aveva fatto in tempo a varcare la soglia che il consulente
investigativo lo aveva tempestato di nomi possibili inducendolo a
tapparsi le
orecchie
con le mani. «Non
ti dirò niente! Smettila, ti prego!», gli aveva
detto,
esasperato. Ovviamente Sherlock non intendeva mollare la presa.
Aveva
appena aperto il frigo e aveva avvicinato una bottiglia di acqua fresca
alle labbra quando Sherlock era comparso, lateralmente allo sportello,
facendolo sussultare. «Heather
Winnie Holmes»,
aveva mormorato fissando i suoi occhi chiari in quelli del medico,
osservandone le pupille per verificarne la reazione. E una reazione era
arrivata, sebbene non fosse quella che Sherlock si aspettava.
John, infatti, gli aveva sputato l'acqua in faccia, aveva chiuso il
frigo
e pensato di usare il suo blog per sfogarsi. Era al limite della
sopportazione e Hortensia non intendeva andargli incontro.
Era notte fonda, ma a John non era concesso dormire. «Hortensia
Willow Holmes», fece Sherlock balzando letteralmente sul
letto
del coinquilino che per poco non urlò per essere stato
svegliato
in quel modo. Fortunatamente per lui era buio e Sherlock non si accorse
di averci preso, né John glielo disse nei giorni successivi,
così come evitò di dirgli che nulla sapeva
riguardo alla
"W" del biglietto.
Quando
John perse definitivamente le staffe aveva la febbre. Se in altre
circostanze sarebbe stato contento dell'opportunità di
dedicarsi
a poltrire una volta tanto, quel giorno ritenne di vivere un incubo a
causa di Sherlock che non lo lasciava respirare.
«Hamish
Watson Holmes!», urlò in
preda ad una crisi isterica. «Okay? Ora
lo sai! Lasciami in pace!», aggiunse avvampando.
Sherlock lo guardò come se avesse appena visto un composto
chimico reagire in modo inaspettato: con interesse e timore al tempo
stesso. Poi si voltò e non parlò più
per tutto il
giorno con grande sollievo di John.
Mycroft si concesse un sospiro e scosse il capo.
Hortensia rimase in attesa sebbene avesse già capito che suo
fratello non avrebbe parlato.
«Lo
scoprirò comunque».
«Mi sottovaluti»,
mormorò Mycroft.
«Per
nulla, ma è un dato di fatto che possiedo più
informazioni io su te e Sherlock di quante non ne abbia raccolte tu su
di me», constatò lei con naturalezza, senza
provocarlo.
«Irrilevante.
Io ho le informazioni giuste».
«Ovvero?».
Dal suo tono traspariva la sicurezza di chi sa che chi ha di fronte
è un abile e intelligente bugiardo.
«Tu
e Irene Adler avete vissuto a stretto contatto per il tempo necessario
a te per guadagnarti la sua fiducia, così da poterla spiare
senza che lei sospettasse alcunché. Sapevi che lavorava con
Moriarty e sapevi che l'obiettivo di quest'ultimo era Sherlock, quindi
hai sfruttato la tua... amicizia?». Un sorrisetto malizioso
si
disegnò sul suo volto mentre parlava. «Con la Adler per arrivare tu stessa a
lui».
«Supposizioni.
Non puoi dimostrarlo», fece lei mandando giù un
sorso di brandy.
Il suo sorriso si aprì di più rivelando rughe
d'espressione che Hortensia non pensava potessero appartenergli
considerato l'atteggiamento sempre serio di suo fratello.
«L'auto
che tu e Sherlock avete preso per la vostra gita nel Sussex era dotata
di un dispositivo GPS che mi sono preoccupato di attivare prima della
partenza. La tenuta è a nome di Irene Adler. È
una
prova», commentò tranquillo.
«Il
dettaglio dice solo che la conosco», replicò lei.
«No, non
direi. Che la tieni in pugno, piuttosto», precisò
Mycroft reclinando il capo leggermente.
«Perché
ti sei messo sulle mie tracce?». La voce era ferma, le
emozioni un po' meno.
«E tu
perché ti sei messa sulle mie?», chiese a sua
volta.
Fu
il suo turno di sorridere. «La domanda giusta è
quando.
Quando ho capito che Sherlock non aveva idea della mia
esistenza».
«La
domanda giusta è perché. Perché sei
riuscita ad
accedere al mio ufficio privato del Diogenes Club senza che nessuno dei
miei uomini ti fermasse?».
In un flashback Hortensia si rivide mentre entrava nell'ambiente dove
regnavano sfarzo e silenzio in egual misura, si vide passare dinanzi
agli uomini della sorveglianza che non mossero un dito sebbene lei
fosse pronta ad ogni evenienza, quasi che la aspettassero,
ricostruì l'espressione poco convincente della donna che
John
chiamava Anthea mentre la guardava sconvolta prima che lei
l'addormentasse come aveva fatto con la Adler. Fissò le
iridi
chiare in quelle di Mycroft, che annuì intendendone i
pensieri.
«Sei
arrivata a me perché volevo che arrivassi a me»,
concluse.
«Mi hai
presa in giro», constatò con una punta di
irritazione.
«È
un vizio di famiglia. Dovresti dirlo, a Sherlock».
«Dirgli
cosa?»,
chiese fingendo di non aver capito.
«Che ti
chiami Hortensia», soffiò con una nota velatamente
dolce nella voce.
Poche
volte Mycroft aveva pronunciato apertamente quel nome e la maggior
parte risaliva a molti anni addietro quando lo sussurrava accanto alla
culla della sua sorellina mentre questa dormiva. Sembrava essere
trascorsa un'eternità.
«Lo
farà il Dr. Watson», rispose lasciando il bicchiere su un vassoio,
dopo averlo svuotato, intenzionata a chiudere la conversazione.
«Non lo
farà», e la sicurezza nella sua voce
riuscì a convincerla che aveva ragione.
Tuttavia si
congedò con un «Lo vedremo».
Qualche
giorno più tardi, una donna incinta si presentò
allo
studio medico del Dr. John H. Watson dopo aver preso appuntamento.
I lunghi capelli biondo perla scendevano a onde sulla schiena
perfettamente dritta, fatta eccezione per una ciocca che dalla tempia
si gettava sul petto generoso e poi sul pancione. Aveva l'aspetto di
una donna di classe, una di quelle mogli di imprenditori o primari che
amano prendersi cura di sé e hanno la possibilità
di
farlo. La pelle del viso era rosea e omogenea grazie a prodotti di
qualità capaci di donare un effetto del tutto naturale. E se
anche lo sguardo, che pure doveva essere affascinante, era celato da
grandi lenti da sole raffinate, le labbra erano magnetiche come fossero
occhi nella loro tonalità rosa naturale. Entrò
portandosi
dietro un profumo delizioso, non eccessivamente dolce, non troppo
sfrontato, per nulla aggressivo, piuttosto fresco nella fragranza
floreale e senza dubbio perfetto all'immagine di sé che
quella
donna voleva dare. Avvolta in un comodo, caldo e lungo cappotto in lana
rasata e fasciata fin sotto le ginocchia da un abito che le faceva da
seconda pelle salutò Watson con un musicale «Buongiorno».
«Buongiorno
Signora Chapman», rispose lui sorridendo gentile, «Prego, si accomodi».
E lei lo fece, con una naturalezza che non appartiene alle donne
all'ottavo mese di gravidanza, perennemente preoccupate che qualcosa
possa accadere a loro o al nascituro.
Il dottore aggrottò le sopracciglia mentre la osservava e
per un
attimo lei pensò che Watson avesse capito. Ma subito dopo
lui si
mise a parlare in merito alle condizioni di salute sue e del bambino
leggendo vecchie radiografie - reperite da Hortensia grazie ai suoi
molti agganci e di certo non appartenenti a lei - e facendo sospirare
la donna che si tolse
gli occhiali da sole.
John Watson stava spendendo frasi rassicuranti prima di proporle una
nuova ecografia quando la voce gli morì in gola.
«Tu?!»,
esclamò a bassa voce, come quando rimproverava Sherlock
senza volersi far sentire da altri.
«Ciao
John», disse, abbagliandolo con un sorriso.
«Ma cosa
sei? Una truccatrice?», domandò in preda allo
sconvolgimento.
«Non
è importante», disse e accompagnò le
parole con un'alzata di spalle. «Questi sono per il Circus2,
a Covent Garden. Per te e Sherlock, naturalmente», aggiunse
poi,
allungandogli due pass che avrebbero garantito loro accesso e qualsiasi
consumazione avessero voluto ordinare.
«Hortensia,
senti ti chiedo scusa per la mia schiettezza, okay? Ma potresti mettere
da parte la tua ostinazione tipica degli Holmes e parlare con
Sherlock?». Nello sguardo c'era tutto lo sfinimento di quei
giorni.
«Stasera.
Non mancate», rispose semplicemente lasciando spazio a
diverse interpretazioni, gli strinse la mano e si
alzò. «La
ringrazio infinitamente Dottor Watson, la sua
professionalità
è degna di lode. Consiglierò certamente il suo
studio
alle mie amiche»,
continuò a voce più alta per farsi sentire dai
pazienti
in attesa. Gli fece l'occhiolino, poi indossò nuovamente gli
occhiali e con la leggerezza con cui vi era entrata lasciò
la
sala.
Il racconto concitato di John, che manifestava una velata ammirazione
verso il trasformismo di Hortensia, convinse immediatamente Sherlock a
presenziare al Circus quella sera. Il sorrisetto compiaciuto sulle
labbra di quest'ultimo, invece, convinse John che aveva bisogno di un
bagno
rilassante prima di lasciarsi coinvolgere dai gemelli in quella che
probabilmente sarebbe stata l'ennesima avventura. Watson non era uno a
cui piacevano monotonia e dolce far niente, ma stare dietro agli Holmes
lo sfiancava tutte le volte, fisicamente e psicologicamente, sebbene lo
divertisse e lo facesse sentire
vivo più del lavoro con cui si manteneva.
John non aveva idea di come e perché Hortensia possedesse
pass
di quel tipo e avesse deciso di darli a lui e Sherlock, ma quest'ultimo
aveva una teoria che condivise solo in parte con il suo amico
dicendogli che senza ombra di dubbio c'entrava Mycroft; in ogni caso i
due
raggiunsero Covent Garden con largo anticipo.
Senza fretta, i due amici si diressero verso il club scelto da
Hortensia per il loro presunto incontro e dal momento che John non
c'era mai stato, Sherlock evitò di lamentarsi con lui
perché si fermava ad ogni passo. Tutto di quel locale,
infatti,
suscitava la meraviglia e la curiosità del visitatore a
partire
dall'assenza di una qualsivoglia insegna. Non era necessario arrivare
all'interno del raffinato, ma estroso locale per restare con la bocca
aperta: il corridoio d'ingresso, infatti, era costituito da una serie
di specchi sistemati in modo da riflettere più parti
dell'interno, così da dare un'aria surreale all'intero
ambiente.
Essendo esclusivamente un ristorante di classe fino ad una determinata
ora, l'atmosfera era accogliente e sofisticata nonostante la
stravaganza degli arredi e fin da subito si aveva la sensazione di
trovarsi in un posto tutt'altro che volgare anche se si sarebbe
tramutato in un club in piena regola. John Watson ebbe subito il
sentore che non avrebbero assistito a donne mezze nude che ballavano
sensualmente attorno ad un palo quella sera.
Il dottore sollevò istintivamente lo sguardo accedendo alla
sala
del ristorante e fu colpito dalla presenza di sfere di diversa
grandezza con superficie a specchio appese su tutta l'ampiezza del
soffitto.
Lo spazio era riempito da tanti tavoli bianchi e tondi con al centro
una
candela accesa e con attorno sedie in perfetta armonia di stile. Le
pareti
circostanti erano abbellite da una sorta di mosaico moderno che a
seconda
della posizione in cui ci si trovava appariva nero oppure scintillante
e sfaccettato a richiamare le sfere sul soffitto, ma bastava proseguire
per avere la sensazione di aver cambiato locale. Poco più in
là, infatti, troneggiava una lunga tavola bianca
rettangolare la
cui peculiarità era la presenza di una piccola scalinata al
posto dei due capotavola. John comprese presto che quel tavolo
sarebbe stato parte integrante dello spettacolo cui sperava di poter
assistere prima che uno dei due gemelli decidesse che era il momento di
andare via. Per quel che ne sapeva lui, era possibile che non riuscisse
neanche a mettere un boccone sotto i denti - cosa che capitava spesso
quando era in giro con Sherlock visto che le sue intuizioni non
conoscevano le buone maniere e arrivavano così, senza
avvisare. Anche le pareti cambiavano stile mostrando un motivo a rombi
gialli e neri, così come le sedie, nere stavolta e con un
lungo e
sottile schienale. Lateralmente a questa tavola bizzarra erano
sistemati alcuni
tavoli scuri, dalla forma quadrata e anch'essi con una candela al
centro.
Fu osservando questi ultimi che John si rese conto di non essere solo
nel locale: altre persone avevano già preso posto e
chiacchieravano tra loro ignorando sia lui che Sherlock. L'uomo ebbe la
sensazione di vivere uno strano, incomprensibile e assurdo sogno.
«Ci
aspettavano», mormorò Sherlock tenendo lo sguardo
fisso davanti a sé.
Il personale, infatti, a differenza degli altri clienti teneva d'occhio
i due ospiti da quando erano entrati, come fece notare Sherlock un
secondo più tardi. Un uomo dal portamento impeccabile si
fece loro vicino, diede il benvenuto e
indicò un posto riservato proprio a quel tavolo lungo con i
gradini.
«Mycroft
è da diversi anni alle costole di un importante uomo
d'affari svizzero che sta mettendo disordine nel sistema economico di
tutta l'Europa, apparentemente senza lasciare traccia. Si tratta di
Lars Elias Moser, avrai certamente letto di lui sui
giornali», mormorò Sherlock dopo che entrambi
avevano ordinato la cena su personale invito di Hortensia la quale
aveva fatto affidamento su un convincente sms inviato a Sherlock in cui
diceva che se non si fosse comportato da uomo normale quella sera, se
non avesse mangiato, bevuto e se non fosse stato cordiale con John, lei
non gli avrebbe mai rivelato il proprio nome. In un'interessante
postilla suggeriva di non perdere di vista l'uomo che si sarebbe seduto
di fronte a loro, qualche postazione più a destra. «E qualora non avessi idea di chi sia,
lo conoscerai a breve visto che quelli sono i posti riservati a lui e
ad un suo collega. O forse farei meglio a dire complice. Amante in
effetti», concluse il consulente investigativo indicando con
un gesto casuale una sedia che John credette di aver identificato.
«E cosa
c'entra... tua sorella?», chiese e per poco non si
lasciò scappare il nome di lei.
«Conosci
Mycroft, sono sicuro che ci arriverai da solo. Oh, ma guarda, il nostro
uomo»,
gli rispose.
John aggrottò le sopracciglia esprimendo confusione mentre
guardava Moser sedersi proprio su una delle sedie nere indicate da
Sherlock in precedenza.
«Nos...
Nostro uomo?!», esclamò sbigottito. «Sherlock io credevo fossimo qui
per...».
«Divertirci?
Oh, John, perché tanta monotonia?», lo interruppe
Sherlock.
John inspirò prima di riprendere da dove era stato fermato. «Per incontrare... lei». Evitare di pronunciare quel nome gli costava uno
sforzo non indifferente quella sera.
«Lei?».
«Non ci
provare». Nel dirlo lo guardò negli occhi e fu il
cameriere a salvarlo dallo stordimento che l'intensità di
Sherlock gli avrebbe certamente causato.
«Buon appetito, signori», mormorò l'uomo
ben vestito che li aveva accolti, per poi congedarsi.
Durante la cena, dopo aver rivelato a John di essere al corrente del
furto del numero di sua sorella - che aveva naturalmente memorizzato
sotto il nome "H.W.H." - e dopo avergli confessato di aver letto tutti
gli sms che le aveva inviato con la convinzione che avrebbe
così trovato ciò che cercava e di essere invece
rimasto con un pugno di mosche, Sherlock diede evidenti segni di noia
che il dottore cercò di arginare come meglio poté
finché il signor Moser fece qualcosa di molto interessante.
«Guarda,
John!», soffiò il consulente investigativo.
Improvvisamente divenne un
unico fascio di nervi in tensione protesi verso la preda e
ciò che aveva in mano.
Un altro pregio di quel club era la riservatezza: nessuno del personale
avrebbe mai osato chiedere informazioni in merito ai documenti che Lars
Elias Moser consultava liberamente con il proprio amante, senza neanche
provare ad essere discreto mentre indicava quelli che potevano essere
nomi o somme di denaro, frodi assicurative o appalti vinti illegalmente
stampati sui fogli, perché al
direttore poco importava di cosa discutessero i suoi ospiti all'interno
del locale, fosse anche la pianificazione di un attacco terroristico, a
patto che non mettessero in alcun modo in cattiva luce il Circus che
offriva loro assoluta discrezione. Ecco il perché
dell'assenza di un'insegna e l'utilizzo di un sistema di pagamento molto
particolare.
«Cosa
dovrei vedere esattamente?», domandò lui mentre
luci e musica cambiavano nella sala.
Lo spettacolo stava per iniziare.
«Il reale
motivo per cui siamo qui!», esclamò Sherlock
affilando lo sguardo, senza staccare gli occhi neanche per un secondo
dallo svizzero.
Il volume imposto
dal celebre dj impedì ai due di parlare senza
rischiare di non capirsi a vicenda, ma a entrambi fu chiaro che quei
documenti dovevano finire nelle mani di Mycroft il quale -
ormai era palese pure per John - si era rivolto
a sua sorella minore che, a sua volta, aveva coinvolto il proprio
gemello - noto per essere tutt'altro che stupido - e il suo amico
medico, capace di fare pressione nei punti giusti per far perdere
eventualmente i
sensi ad una persona senza ucciderla.
Naturalmente Hortensia non intendeva scaricare tutte le
responsabilità sui due uomini, ragion per cui era
la Guest Star della nottata. Saper modificare il proprio aspetto a
seconda delle esigenze non era l'unica abilità della donna
la quale non solo si muoveva con assoluta padronanza sui rollerblade,
ma era anche brava nella ginnastica artistica. Quella sera il suo nome
era Svetlana Vasil'evna Khorkina3,
aveva corti capelli biondi e indossava un colorato costume da ginnasta.
Insieme a lei numerosi altri ballerini professionisti diedero vita ad
un indimenticabile spettacolo di figure complesse, salti acrobatici
individuali e in coppia, numeri con fuoco, cerchi e nastri, il
tutto
amplificato grazie al gioco di specchi creato dalle sfere di metallo
pendenti.
Hortensia sapeva di avere su di sé gli occhi di tutti i
presenti, compresi quelli di suo fratello che lei reputava l'unico in
grado di riconoscerla, ma questo non la
intimidì affatto e anzi, essere l'ospite d'onore della
serata le dava una libertà di azione di cui altrimenti non
avrebbe disposto. Non a caso lei e Mycroft avevano orchestrato quella
serata fin nel più piccolo dettaglio.
Mentre si esibiva nelle sue evoluzioni non si lasciava distrarre dagli
applausi, pur gradendo molto il consenso dei presenti e ringraziando
sempre con gentilezza, e teneva ben fisso nella mente il proprio
obiettivo:
appropriarsi delle carte di quel truffatore e consentire a Mycroft di
sistemarlo come più riteneva opportuno. Con ogni
probabilità ne avrebbe distrutto - o, per essere
più precisi, ne avrebbe fatto distruggere - l'immagine
pubblica, ma
questa parte delle vicende non riguardava affatto Hortensia la quale si
era offerta
volontaria per quell'incarico in cambio di ulteriori dettagli in merito
alle vicende che riguardavano lei e la famiglia Holmes.
Quello che ad un esterno occhio critico poteva sembrare il gioco
dispettoso di adulti mai cresciuti mentalmente, era in
realtà un'articolata rete di compromessi che avrebbe
condotto alla soddisfazione di tutte le parti coinvolte attivamente.
La donna capì che Sherlock l'aveva individuata quando il suo
sguardo non si schiodò da lei per due interminabili minuti
prima di tornare a Lars Elias.
Il resto accadde molto velocemente sotto gli occhi attenti di Hortensia.
Sherlock e John lasciarono la sala e vi rientrarono abbigliati
esattamente come il personale del locale; mentre il primo interagiva
con la coppia seduta alla sinistra di Moser, John distraeva proprio
quest'ultimo e il suo accompagnatore così che Sherlock
potesse sostituire i fogli di interesse con pagine del menù
in un gesto fluido ed invisibile, risultato di anni ed anni di pratica
e di un'innata sfacciataggine. Poi entrambi si dileguarono, si
riappropriarono dei propri abiti e lasciarono il locale per evitare che
qualcuno collegasse la sparizione di due uomini con la comparsa di due
camerieri successivamente svaniti nel nulla in corrispondenza del
ritorno dei due uomini.
Il cielo si stava lentamente schiarendo e i contorni della bella Londra
apparivano con maggiore nitidezza con il trascorrere dei minuti, ma
John e Sherlock non si erano mossi da Covent Garden preferendo
attendere lì Hortensia anziché darsi appuntamento
più tardi in Baker Street. Lei arrivò che il sole
era già sorto, avvolta in una felpa e con parte del viso
nascosta da un cappuccio nettamente più grande della sua
testa.
«Non si
è accorto di nulla», esordì. «Ha continuato a godersi lo spettacolo
bevendo come una spugna insieme all'amante».
John strabuzzò gli occhi nel sentir pronunciare a Hortensia
la stessa deduzione cui era arrivato Sherlock diverse ore prima, aveva
perso il conto ormai e a stento si reggeva sulle proprie gambe tanta
era la stanchezza che lo invadeva. A dirla tutta desiderava solo
stendersi in un morbido letto e dormire per almeno otto ore filate.
«È
andato via poco prima della chiusura portando con sé... il
menù?», continuò e sorrise a suo
fratello il quale le porse i documenti necessari a Mycroft.
«Ti
ringrazio anche da parte sua», disse lei accettandoli e dando
per scontato che Sherlock avesse intuito che dietro a tutto c'era il
loro fratello maggiore. «È stato un piacere
collaborare con voi», concluse. Tese la mano ad un assonnato
John Watson che la strinse con una certa esitazione e poi a Sherlock la
cui presa fu più decisa e non comunicava affatto l'intento
di
lasciar andare via la donna.
Lei
sospirò e si protese verso il viso di Sherlock fino a
raggiungere l'orecchio. «Hortensia
Winnifred Holmes», sussurrò. «Sei l'unico a conoscere il mio secondo
nome e ti sarei grato se non ricorressi più alla Adler per
ottenere informazioni sul mio conto. Basta saper chiedere».
Un'auto scura si fermò vicino alle tre figure e Hortensia
salutò nuovamente i due uomini prima di salire a bordo e
sparire tra le strade della City.
Note:
1
Si
tratta del brandy di sidro, una bevanda alcolica ottenuta attraverso la
fermentazione delle mele. La bevanda è diffusa in tutta
l'Inghilterra, ma il cider prodotto nel Somerset è
particolarmente pregiato.
2 È un
esclusivo ristorante che nelle
ore notturne si trasforma in un club la cui caratteristica peculiare
è la presenza di numerosi artisti, tra cui ballerine
mangia-fuoco, che si esibiscono per i clienti. (N.B.: Non ci sono mai
stata personalmente; tutte le informazioni nel testo le ho reperite
online attraverso recensioni e fotografie; se ci sono imprecisioni vi
prego di segnalarmele).
3 È un'ex
ginnasta russa più volte medaglia d'oro.
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N.d.A.
Questo capitolo è decisamente più
corposo dei
precedenti e affronta più o meno direttamente, per la prima
volta, qualcosa che somiglia ad un caso.
Il nome del locale, - che come avrete letto
nelle note esiste davvero - anche titolo del capitolo, capita come non
mai a fagiolo perché
costituisce un appropriato richiamo alla versatilità di
Hortensia.
Come tutte le volte, spero di non aver fatto danni. Un parere
è quindi sempre gradito, positivo o negativo che sia,
purché non mi si offenda gratuitamente.
Vi ringrazio per avermi dedicato del tempo.
Alla prossima!
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