Didò
Didò
Si chiamava Camilla, per i falsi amici Didò.
Si chiamava Camilla, e tutti volevano plasmarla.
Non se ne stupiva più, era sempre stata appetibile
l’idea di modificarla, o almeno così pareva.
A partire da quando dio o chi per lui l’aveva creata, con
quei capelli troppo biondi e stopposi, quel corpo troppo pallido, quel
buonsenso evidente che sedava ogni rivolta interna, e quella codardia
sottovalutata.
La povera Camilla, un po’ contrariata, se li era tenuti senza
dir niente. Colpa del buonsenso, che l’aveva spinta a
sacrificare se stessa sull’altare di un cupo progresso?
Camilla non lo sapeva.
Fatto sta che quando nacque capì che ciò che era
non sarebbe bastato.
E non capiva perché quell’animale alieno dalla
faccia grande volesse essere chiamato papà e non cane.
Ma Camilla capiva fin troppo, e di quel troppo capì subito
che l’intelligenza sta nel sapersi adattare. Non facevano
altro che ripeterglielo.
E Camilla, invece che cane, disse papà. Non le costava
niente.
Ma quando cominciò a crescere –oh, non immaginate
quale sconvolgimento!- vide che il suo corpo si trasformava.
Guardò in basso, e si chiese se per caso dio non fosse
volubile quanto e più degli uomini.
Quando lo disse alla sua prima amica, quella si seccò e le
rispose di lasciar perdere, passandole un giornale con una donna
bionda, liscia e magrissima.
Camilla aggrottò le sopracciglia. Ancora una volta,
l’allarme antifurto nella sua testa suonava, e non
c’erano ori e collane a rischio, no, ma la sua
personalità.
Ma un giorno Camilla si svegliò, e vide i suoi
capelli lisci, le gambe magre, il corpo abbronzato, e si accorse di
aver dormito. S’inquietò non poco nel vedere
accanto a lei un uomo, e sul suo comodino un berretto da militare.
Tirò le gambe al petto, e rimase a guardare con disgusto
quella specie di gorilla. Lui e quella casa con gli arredi moderni e le
pareti d’acciaio. Gettò via l’anello
d’oro che le imprigionava il quarto dito, fece a brandelli
l’elegante camicia da notte e corse via, per strada, fuori,
sfidando il buonsenso, sfidando quell’idiota che
gliel’aveva rifilato, sfidando la codardia, la decenza, la
sua bruttezza, la selezione artificiale.
E corse, corse attraverso la strada, corse sulle automobili, diede
calci ai motorini e fece sgambetti ai passanti, derubò i
supermercati, urlò a tutti che era una messinscena, il
mondo, che avrebbero fatto meglio a smettere perché quella
dipendenza dalla sopravvivenza era patologica.
Urlando, additava passanti, macchine.
Ma la verità non si sopporta: la verità di questo
mondo, su questo mondo, è fatta per essere taciuta.
Questo Camilla non l’aveva capito. O forse sì.
In ogni caso, la trovarono morta sull’asfalto.
Passando di lì, la vidi riversa, nuda e spenta, e mi parve
più che mai un individuo, un individuo identico solo a se
stesso, che si era estinto in nome della propria unicità.
Sarei scoppiata in lacrime, se non mi fossi accorta di qualcosa di
strano.
Badate, l’ho notato solo io, e nessuno ve lo potrà
confermare, ma sono pronta a giurarlo.
Vi giuro che in quel momento Camilla mostrava la lingua.
|