Solo
quando uscì dalla biblioteca si rese conto che era pomeriggio inoltrato. Quasi
sette ore, erano volate, mentre con la testa immersa nei libri scorreva fiumi
di parole e cercava indizi.
Inutili.
Come
sempre.
Il
sole stava lentamente portando a termine il suo percorso, le ombre sulla strada
si erano fatte più lunghe, e l’aria aveva quella sfumatura strana che assumeva
all’inizio di autunno, quando ancora la temperatura era mite, e solo respirando
profondamente si poteva percepire il sopraggiungere del freddo.
Come
passava veloce il tempo.
Scorreva
rapido, senza portare mai nessun reale cambiamento.
Non
a lui almeno.
Sulla
strada una ragazzina giocava col fratellino, lanciandogli una palla.
Zelgadiss
osservò la sfera scura tendere verso il cielo, e poi tornare inesorabilmente,
dolorosamente a terra.
Il
bambino non riuscì ad afferrarla, e la palla rimbalzò a terra e poi rotolò.
Fino
ai suoi piedi.
Immobile.
Quel
tendere al cielo con slancio, e poi fermarsi sulla dura terra, quasi richiamata
alla realtà dalle leggi della fisica, era triste.
Realtà.
I
momenti in cui lui aveva cercato di slanciarsi verso il cielo, come quella palla… erano stati momenti magici. Non avrebbe mai creduto
che anche a lui fosse concesso provare emozioni simili.
Ma
la realtà poi lo scaraventava a terra con tale forza, che si odiava con tutto
se stesso per essersi lasciato convincere di poter rimanere in cielo.
E
allora partiva. Di nuovo.
E
da lontano sognava di nuovo di essere lanciato verso il cielo, mentre senza di
lei era solo in grado di rotolare, senza staccarsi da terra.
Un
sorriso amaro gli curvò le labbra, mentre guardava il bambino che si era
fermato titubante a due passi dalla palla.
«Zel! Cosa aspetti! Prendi il pallone!»
Zel? Doveva aver
capito male. Quel bambino non poteva davvero chiamarsi Zel.
Voleva
sentirlo. Voleva sentire il suo nome pronunciato con quel tono confidenziale.
Il
bambino si chiamava Mel. Non Zel.
Lui
era come la palla ai suoi piedi: si lasciava riportare dalle regole, dalle
leggi, alla dura realtà. Era un mostro, non aveva il diritto di possedere una
parte del suo candido cuore di ragazza.
Per
quanto Amelia si sforzasse, con la sua vitalità, di lanciare in alto quella
palla, lui ne godeva per qualche breve istante, e poi ricominciava a rotolare
alla ricerca di una cura.
Lei
era la sua forza vitale. Lui era la sua testardaggine.
Più
lei gli offriva il suo amore, più lui ricominciava a cercare.
Ora
anche per lei.
Più
lui si allontanava per cercare, più lei attendeva senza arrendersi ad un addio.
Un
giorno, lo sapeva, quell’elastico si sarebbe spezzato.
Il
bambino prese la palla, fermandosi ad osservarlo.
Zelgadiss
non era abituato a parlare con i bambini, ma si abbassò, posando un ginocchio a
terra per guardarlo dritto in faccia.
«Lancia
la palla più in alto che puoi. Sempre. Preferisce stare in cielo che in terra»
Il
bambino annuì piano e, mentre Zelgadiss si rialzava,
corse verso la sorella.
Lo
vide lanciare la palla con forza verso il cielo.
Zelgadiss
sorrise, volse le spalle per non vedere la palla ricadere al suolo, e prese la
strada per Saillune.